7 Marzo

7 marzo 2013

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Tranne qualche giorno in Egitto, non mi fermai una sola volta, nel corso del viaggio di ritorno; arrivai al piccolo porto di Imbro una sera tranquilla, all’ora del tramonto, il 7 marzo (secondo i miei calcoli); ormeggiai la Speranza accanto al piccolo molo; poi, con l’aiuto del motore centrale ad aria, tirai su dalla stiva la mia malconcia automobile (“malconcia” per via del tifone nell’oceano Pacifico, che aveva rotto i cavi che la sorreggevano e l’aveva sbattuta a babordo, capovolta). Percorsi in macchina la stradina senza finestre del villaggio, tra i platani e i cipressi che conoscevo bene, e le mimose del Nilo, e i gelsi, e le palme di Trebisonda

Matthew P. Shiel, La nube purpurea, 1901, tr. it. R. Wilcock, Adelphi, 1969, p. 232

 

Il medico inglese Adam Jeffson è l’unico superstite di una spedizione verso il Polo Nord e di una catastrofe planetaria – in forma di nube velenosa e profumata – che ha ucciso tutti (o quasi) gli abitanti della terra, lasciandolo padrone di città, miniere, tesori, territori senza confini. Preso da impeti distruttivi e desideri di ricostruzione, Adam edifica un palazzo regale nell’isola turca di Imbro, prima di scoprire – proprio in Turchia – che un altro essere vivente è sopravvissuto. La fonte delle straordinarie vicende di Adam è in una serie di quaderni scritti da una medium e trasmessi da un amico al narratore. Nelle pagine a volte lacunose, piene di salti temporali e spaziali, le coordinate geografiche e le date – come questa sera del 7 marzo – fanno da suggestive cornici al filo del racconto. 

Dicono del libro
“Immaginate un Robinson Crusoe che abbia per scena, invece di un’isola sperduta, il mondo intero; in cui il protagonista, invece di sperimentare tutte le risorse del raziocinio, passi per tutti i deliri di una solitudine allucinante, affollata di cadaveri e di relitti; immaginate che le vicende del romanzo si svolgano dopo la fine del mondo, provocata da una catastrofe di demoniaca sottigliezza, che estingue l’umanità conservandola immobile come uno sterminato museo di cere, imbalsamata in un delicato profumo di pèsca; e che la narrazione di questa fine del mondo e dell’inizio di una nuova vita sia spinta da un soffio epico, guidata da una continua lucidità visionaria”
(dalla bandella dell’ed. Adelphi, op. cit.)

 

 

Altre storie che accadono oggi

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“…La voce da imbonitore e la risata asinina della donna avevano profanato per la prima volta i locali della F.&S. il 7 marzo 1941 (Martin era un asso per le date)…”
James Thurber, Il più grand’uomo del mondo

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“7 marzo…Oggi, per la seconda volta quest’anno, la chiave era a terra, presso la libreria nello studio di mio marito…” Junichiro  Tanizaki, La chiave

 

 

 

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“… Era il sette di marzo, la falda del cappello di Mahler si era afflosciata nella pioggerella

sottile…”  Torgny Lindgren, Il pappagallo di Mahler« »

Tranne qualche giorno in Egitto, non mi fermai una sola volta, nel corso del viaggio di ritorno; arrivai al piccolo porto di Imbro una sera tranquilla, all’ora del tramonto, il 7 marzo (secondo i miei calcoli); ormeggiai la Speranza accanto al piccolo molo; poi, con l’aiuto del motore centrale ad aria, tirai su dalla stiva la mia malconcia automobile (“malconcia” per via del tifone nell’oceano Pacifico, che aveva rotto i cavi che la sorreggevano e l’aveva sbattuta a babordo, capovolta). Percorsi in macchina la stradina senza finestre del villaggio, tra i platani e i cipressi che conoscevo bene, e le mimose del Nilo, e i gelsi, e le palme di Trebisonda

Matthew P. Shiel, La nube purpurea, 1901, tr. it. R. Wilcock, Adelphi, 1969, p. 232

Il medico inglese Adam Jeffson è l’unico superstite di una spedizione verso il Polo Nord e di una catastrofe planetaria – in forma di nube velenosa e profumata – che ha ucciso tutti (o quasi) gli abitanti della terra, lasciandolo padrone di città, miniere, tesori, territori senza confini. Preso da impeti distruttivi e desideri di ricostruzione, Adam edifica un palazzo regale nell’isola turca di Imbro, prima di scoprire – proprio in Turchia – che un altro essere vivente è sopravvissuto. La fonte delle straordinarie vicende di Adam è in una serie di quaderni scritti da una medium e trasmessi da un amico al narratore. Nelle pagine a volte lacunose, piene di salti temporali e spaziali, le coordinate geografiche e le date – come questa sera del 7 marzo – fanno da suggestive cornici al filo del racconto. 

Dicono del libro
“Immaginate un Robinson Crusoe che abbia per scena, invece di un’isola sperduta, il mondo intero; in cui il protagonista, invece di sperimentare tutte le risorse del raziocinio, passi per tutti i deliri di una solitudine allucinante, affollata di cadaveri e di relitti; immaginate che le vicende del romanzo si svolgano dopo la fine del mondo, provocata da una catastrofe di demoniaca sottigliezza, che estingue l’umanità conservandola immobile come uno sterminato museo di cere, imbalsamata in un delicato profumo di pèsca; e che la narrazione di questa fine del mondo e dell’inizio di una nuova vita sia spinta da un soffio epico, guidata da una continua lucidità visionaria”
(dalla bandella dell’ed. Adelphi, op. cit.)

 

6 Marzo

6 marzo 2013

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Il 6 marzo del 1953 il maestro Bonanni disse a mia madre: “Questo bambino le darà  grandi soddisfazioni”. Mi piacciono molto le date: sono chiare e vere. Ma questa data è né più né meno che una combinazione alfabetica irrobustita da qualche cifra. Quale marzo, che 6, quale millenovecentocinquantatré? E’ un giorno di un mese e di un anno che ho davvero vissuto: Anche la frase del maestro Bonanni è stata davvero pronunciata.  Ma il loro contatto su questo foglio è arbitrario: mi serve solo per evocare una storia che è lunga poche righe

Domenico Starnone, Fuori registro, 1991, Feltrinelli, p. 32

A scuola la scansione del tempo è tutto: la “gelatina delle ore” è stabilita dall’orario definitivo e i giorni scorrono uno dopo l’altro, insieme ai registri e alle “pile di carte grigie” ,che si vanno accumulando negli anni di scuola del protagonista del racconto, prima allievo e poi a sua volta insegnante.  Arbitrarie ed evocative, le date si rincorrono, e il narratore richiama il giorno del suo ingresso in prima elementare, il I ottobre del 1948, per poi tornare a quel 6 marzo 1953, un “giorno di un mese e di un anno che ho davvero vissuto”. 

Dicono del libro
“Tra tutti i ripetenti, l’insegnante è il più ripetente di tutti. Gli studenti, come sassi in una fionda, fanno un po’ di giri e poi fischiano via. L’insegnante resta, anno scolastico dietro anno scolastico, imbambolato dalla giostra su cui è salito a sei anni senza sapere che non sarebbe sceso più”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Feltrinelli, op. cit.)

 

Altre storie che accadono oggi

 

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“… nel primo pomeriggio del 6 marzo di tre anni fa persi in un sol colpo due incisivi…”
Domenico Starnone, Denti

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“… Che data porta? – Ecco lì, rispose Puck. Sechsdrei. Il sei di marzo. Abbiamo decifrato tutto il materiale di questa settimana…” Robert Harris, Enigma

 

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Jonas Mekas, Tuesday March 6, 2007 Peter Kubelka plays a Tibetan gong, 365 Day Project

 

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“…un pranzo per festeggiare il 60° compleanno del padrone di casa, sabato 6 marzo alle ore sette…”
Erich Segal, Love story« »

Il 6 marzo del 1953 il maestro Bonanni disse a mia madre: “Questo bambino le darà  grandi soddisfazioni”. Mi piacciono molto le date: sono chiare e vere. Ma questa data è né più né meno che una combinazione alfabetica irrobustita da qualche cifra. Quale marzo, che 6, quale millenovecentocinquantatré? E’ un giorno di un mese e di un anno che ho davvero vissuto: Anche la frase del maestro Bonanni è stata davvero pronunciata.  Ma il loro contatto su questo foglio è arbitrario: mi serve solo per evocare una storia che è lunga poche righe

Domenico Starnone, Fuori registro, 1991, Feltrinelli, p. 32

A scuola la scansione del tempo è tutto: la “gelatina delle ore” è stabilita dall’orario definitivo e i giorni scorrono uno dopo l’altro, insieme ai registri e alle “pile di carte grigie” , che si vanno accumulando negli anni di scuola del protagonista del racconto, prima allievo e poi a sua volta insegnante.  Arbitrarie ed evocative, le date si rincorrono, e il narratore richiama il giorno del suo ingresso in prima elementare, il I ottobre del 1948, per poi tornare a quel 6 marzo 1953, un “giorno di un mese e di un anno che ho davvero vissuto”. 

Dicono del libro
“Tra tutti i ripetenti, l’insegnante è il più ripetente di tutti. Gli studenti, come sassi in una fionda, fanno un po’ di giri e poi fischiano via. L’insegnante resta, anno scolastico dietro anno scolastico, imbambolato dalla giostra su cui è salito a sei anni senza sapere che non sarebbe sceso più”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Feltrinelli, op. cit.)

 

5 Marzo

5 marzo 2013

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“Iside mi chiamano, Iside regina. Sono qui, ora, dopo tutte le tue miserabili avventure – ci sono io ora, benevola, propizia. Basta con i pianti, dimentica i lamenti, scaccia la tristezza!  Invece sta’ attento, attento a quanto ti ordino. Il giorno che nascerà proprio da questa notte, da sempre mi è sacro. Questo, sì,  è il giorno in cui si placa il tempo d’inverno, in cui le tempeste d’onde del mare si quietano, in cui sulla calma distesa marina ora possono correre le navi – e una nuova nave mi dedicano i miei sacerdoti, con tutto il suo carico di primizie. Questo giorno sacro tu devi attendere, senza ansia, sereno, fidandoti di me. Ci sarà un sacerdote in testa al corteo, e porterà un serto di rose in mano, insieme al sistro. Non esitare – scosta la folla e, rapido, avvicinati al sacerdote, per baciargli la mano; strappagli le rose e, subito, ecco che sei libero della pelle  di questa orribile bestia, odiosa da tempo anche a me” 

Apuleio, L’asino d’oro o Metamorfosi, XI, 5-6, traduzione di Monica Centanni

Il 5 marzo è, nel racconto di Apuleio, il giorno della liberazione di Lucio dalle sembianze d’asino in cui l’aveva imprigionato un incantesimo venuto male.
Dopo innumerevoli avventure, incontri, storie nelle storie (fra cui quella, bellissima, di Amore e Psiche), nell’XI libro dell’Asino d’oro o Metamorfosi – grazie all’intervento della dea Iside – Lucio ritorna finalmente se stesso. Il 5 marzo è la festa di Iside, la dea che percorre il mondo per rimettere insieme i pezzi sbranati del figlio Osiris, e infine riesce nell’impresa, inaugurando il culto misterico che dall’Egitto si diffonde in tutto il mondo ellenistico e romano. A Roma il 5 marzo è la festa  del Navigium Isidis – il corteo al seguito di una nave ornata di fiori e di primizie che sfilava sul Tevere in mezzo a una folla mascherata e festosa, a festeggiare la fine dell’inverno e la rinascita della natura. Su quella festa guidata da un ‘currus navalis’ si sovrimporrà  il calendario cristiano con il ‘carnevale’ che precede l’attesa della Pasqua di resurrezione. È questo, scrive Apuleio, un “giorno sereno, pieno di sole, tanto che gli uccelli rallegrati dal tepore primaverile si mettono dolcemente a cantare, festeggiando anch’essi con tutta la loro gioia la madre degli astri, la signora delle stagioni, la regina di tutto l’universo”. (m.c.)

 

Dicono del libro
“Più che alle opere oratorie e filosofiche la gloria di Apuleio è naturalmente affidata al suo romanzo: Metamorfosi o Asino d’oro (…) Composto nella piena maturità, il romanzo, in 11 libri, è intitolato nella tradizione manoscritta Metamorphoseon libri, cioè  ‘Libri delle trasformazioni, delle metamorfosi’ o semplicemente ‘Metamorfosi’, ma fin dall’antichità è noto anche con il titolo, che secondo Sant’Agostino risalirebbe ad Apuleio stesso, di Asinus aureus, ‘Asino d’oro’, dove non sappiamo se l’epiteto aureo sia riferito al pregio letterario o all’utilità edificante dello scritto o se non indichi invece che l’asino di cui si tratta è una creatura eccezionale, un asino dotato di ragione”
(Federico Roncoroni, dall’introduzione all’ed. Garzanti, Milano 1974)

Altre storie che accadono oggi

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“… Ci siamo incontrati per la prima volta il 5 marzo dell’era Hiei (1710).
Quanto è distante da questo mondo il ciliegio selvatico?…”
Yamamoto Tsunetomo, Hagakure

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“…Elena il 5 di marzo ha venduto il paltò…” Cristiano De André (segnalazione di Michele Brescia)

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“… Ho l’onore d’essere, oggi mercoledì 5 Marzo allo spuntar del giorno di V. E. L’umil. dev. oss. Servitore G.C….”
Giacomo Casanova,  Il duello

 

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“Iside mi chiamano, Iside regina. Sono qui, ora, dopo tutte le tue miserabili avventure – ci sono io ora, benevola, propizia. Basta con i pianti, dimentica i lamenti, scaccia la tristezza!  Invece sta’ attento, attento a quanto ti ordino. Il giorno che nascerà proprio da questa notte, da sempre mi è sacro. Questo, sì,  è il giorno in cui si placa il tempo d’inverno, in cui le tempeste d’onde del mare si quietano, in cui sulla calma distesa marina ora possono correre le navi – e una nuova nave mi dedicano i miei sacerdoti, con tutto il suo carico di primizie. Questo giorno sacro tu devi attendere, senza ansia, sereno, fidandoti di me. Ci sarà un sacerdote in testa al corteo, e porterà un serto di rose in mano, insieme al sistro. Non esitare – scosta la folla e, rapido, avvicinati al sacerdote, per baciargli la mano; strappagli le rose e, subito, ecco che sei libero della pelle  di questa orribile bestia, odiosa da tempo anche a me” 

Apuleio, L’asino d’oro o Metamorfosi, XI, 5-6, traduzione di Monica Centanni

Il 5 marzo è, nel racconto di Apuleio, il giorno della liberazione di Lucio dalle sembianze d’asino in cui l’aveva imprigionato un incantesimo venuto male.
Dopo innumerevoli avventure, incontri, storie nelle storie (fra cui quella, bellissima, di Amore e Psiche), nell’XI libro dell’Asino d’oro o Metamorfosi – grazie all’intervento della dea Iside – Lucio ritorna finalmente se stesso. Il 5 marzo è la festa di Iside, la dea che percorre il mondo per rimettere insieme i pezzi sbranati del figlio Osiris, e infine riesce nell’impresa, inaugurando il culto misterico che dall’Egitto si diffonde in tutto il mondo ellenistico e romano. A Roma il 5 marzo è la festa  del Navigium Isidis – il corteo al seguito di una nave ornata di fiori e di primizie che sfilava sul Tevere in mezzo a una folla mascherata e festosa, a festeggiare la fine dell’inverno e la rinascita della natura. Su quella festa guidata da un ‘currus navalis’ si sovrimporrà  il calendario cristiano con il ‘carnevale’ che precede l’attesa della Pasqua di resurrezione. È questo, scrive Apuleio, un “giorno sereno, pieno di sole, tanto che gli uccelli rallegrati dal tepore primaverile si mettono dolcemente a cantare, festeggiando anch’essi con tutta la loro gioia la madre degli astri, la signora delle stagioni, la regina di tutto l’universo”. (m.c.)

Dicono del libro
“Più che alle opere oratorie e filosofiche la gloria di Apuleio è naturalmente affidata al suo romanzo: Metamorfosi o Asino d’oro (…) Composto nella piena maturità, il romanzo, in 11 libri, è intitolato nella tradizione manoscritta Metamorphoseon libri, cioè  ‘Libri delle trasformazioni, delle metamorfosi’ o semplicemente ‘Metamorfosi’, ma fin dall’antichità è noto anche con il titolo, che secondo Sant’Agostino risalirebbe ad Apuleio stesso, di Asinus aureus, ‘Asino d’oro’, dove non sappiamo se l’epiteto aureo sia riferito al pregio letterario o all’utilità edificante dello scritto o se non indichi invece che l’asino di cui si tratta è una creatura eccezionale, un asino dotato di ragione”

(Federico Roncoroni, dall’introduzione all’ed. Garzanti, Milano 1974)

 

 

March 44 Marzo

4 marzo 2013

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It was upon the 4th of March, as I have good reason to remember, that I rose somewhat earlier than usual, and found that Sherlock Holmes had not yet finished his breakfast. The landlady had become so accustomed to my late habits that my place had not been laid nor my coffee prepared. With the unreasonable petulance of mankind I rang the bell and gave a curt intimation that I was ready. Then I picked up a magazine from the table and attempted to while away the time with it, while my companion munched silently at his toast. One of the articles had a pencil mark at the heading, and I naturally began to run my eye through it

Arthur Conan Doyle, A Study in Scarlet, 1887

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Era il 4 marzo  (e io ho i miei buoni motivi per ricordarmene). Mi alzai un po’ prima del solito e trovai Sherlock Holmes che ancora non aveva finito la prima colazione. La padrona di casa si era tanto assuefatta alle mie abitudini di dormiglione  che non mi aveva preparato il posto a tavola. Con l’irragionevole petulanza del genere umano, suonai il campanello e annunciai bruscamente che aspettavo il caffè, poi presi una rivista che era sulla tavola e tentai di ammazzare il tempo leggendo, mentre il mio compagno sbocconcellava in silenzio il pane tostato. Uno degli articoli aveva un segno a matita vicino al titolo e, naturalmente, cominciai a scorrerlo

Arthur Conan Doyle, Uno studio in rosso, 1887, tr.it. A. Tedeschi, Mondadori, 2012, p. 22

Il dottor John H. Watson, ex ufficiale medico dell’esercito britannico tornato dall’Afghanistan, al cui diario è affidata la narrazione di Uno studio in rosso, ha buoni motivi per ricordare la data del 4 marzo. Da alcune settimane è andato ad abitare al numero 221 B di Baker Street, condividendo l’alloggio con Sherlock Holmes, di cui ancora non ha individuato la professione. Il 4 di marzo ha l’occasione di vedere per la prima volta all’opera Holmes, chiamato a collaborare dalla polizia londinese alle indagini per un omicidio accaduto nella notte. Passo dopo passo, Watson è coinvolto e ammirato dal metodo di Holmes, basato sull’osservazione dei minimi dettagli, sulla scomposizione analitica dei fatti, sul dipanamento della “matassa incolore della vita”, da cui isolare – come un artista che dipinga – i fili rossi del crimine. Grazie a tale metodo, il tempo accaduto è ripercorso all’indietro, smontato e rimontato, e alcuni giorni (il 4 marzo, il 4 maggio, il 4 agosto) fanno da perno a questa ricostruzione, che porta la vicenda da Londra allo Utah e di nuovo a Londra, a quel 4 di marzo che tanto doveva colpire Watson.

 

Dicono del libro
“Il 1887 rappresenta una data di grande importanza per la letteratura poliziesca. Nel novembre di quell’anno, infatti, Arthur Conan Doyle, all’epoca sconosciuto medico di periferia, dava alle stampe Uno studio in rosso, il romanzo che vedeva l’esordio di due tra i più famosi personaggi letterari di tutti i tempi: il dottor Watson, sotto le cui modeste spoglie si celava un alter ego dell’autore, e il geniale e inimitabile Sherlock Holmes, il detective per antonomasia”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

3 Marzo

3 marzo 2013

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Un mozzo dall’alto della coffa gridò: “Terra!”. Era il suolo della Grecia, con le montagne della Morea che si scorgevano all’orizzonte. Un vento fresco portava la nave, che correva veloce. Il nome della Grecia risvegliò il coraggio di Octave: “Ti saluto, “si disse “o terra degli eroi!”. E a mezzanotte, il 3 di marzo, mentre la luna sorgeva dietro il monte Kalos, una mistura d’oppio e di digitale preparata da lui stesso liberò dolcemente Octave da quella vita che era stata così agitata per lui. All’alba lo trovarono senza moto sul ponte, sdraiato su alcuni cordami. Aveva il sorriso sulle labbra, e la sua rara bellezza colpì persino i marinai incaricati di seppellirlo. La causa della sua morte fu sospettata in Francia dalla sola Armance

Stendhal, Armance, 1827, tr. it. M. Bonfantini, Einaudi 1976, p.180

Il tre marzo è la data che chiude la storia di una coppia di giovani francesi al tempo della Restaurazione. Lui è Octave de Malivert, “gentiluomo ventenne” affascinante e tormentato; lei è la cugina Armance de Zohiloff. La loro attrazione reciproca attraversa ostacoli esterni e interni. Dopo sposati, Octave decide di andare a combattere per la libertà del popolo greco, lasciando la moglie in Francia. Si darà la morte sulla nave che lo porta in Grecia, dopo aver scritto, ogni giorno del viaggio, una lettera. 

Dicono del libro
“Storia del tormentato amore tra due giovani, ‘Armance’ (1827) è il primo romanzo di Stendhal, che vi prova i temi che gli sono cari, gli abbandoni amorosi e poetici, l’arguzia sottile. Tanto da offrire un esempio tipico in ogni storia stendhaliana, del rapporto tra interessi sociali e politici, da un lato, e sfrenato individualismo, esclusiva passione d’amore, dall’altro”

(dalla quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. cit.)

Altre storie che accadono oggi

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“… Il giorno dopo, il 3 marzo, passata l’una dopo mezzogiorno, duecentocinquanta membri del club e cinquanta invitati attendevano per il pranzo il caro ospite…”
Lev Tolstoj, Guerra e pace


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“… La lettera portava la data del 3 marzo. Dopo aver finito di leggere restai seduto sulla veranda a guardare il giardino…”
Murakami Haruki, Norwegian Wood« »

Un mozzo dall’alto della coffa gridò: “Terra!”. Era il suolo della Grecia, con le montagne della Morea che si scorgevano all’orizzonte. Un vento fresco portava la nave, che correva veloce. Il nome della Grecia risvegliò il coraggio di Octave: “Ti saluto, “si disse “o terra degli eroi!”. E a mezzanotte, il 3 di marzo, mentre la luna sorgeva dietro il monte Kalos, una mistura d’oppio e di digitale preparata da lui stesso liberò dolcemente Octave da quella vita che era stata così agitata per lui. All’alba lo trovarono senza moto sul ponte, sdraiato su alcuni cordami. Aveva il sorriso sulle labbra, e la sua rara bellezza colpì persino i marinai incaricati di seppellirlo. La causa della sua morte fu sospettata in Francia dalla sola Armance

Stendhal, Armance, 1827, tr. it. M. Bonfantini, Einaudi 1976, p.180

Il tre marzo è la data che chiude la storia di una coppia di giovani francesi al tempo della Restaurazione. Lui è Octave de Malivert, “gentiluomo ventenne” affascinante e tormentato; lei è la cugina Armance de Zohiloff. La loro attrazione reciproca attraversa ostacoli esterni e interni. Dopo sposati, Octave decide di andare a combattere per la libertà del popolo greco, lasciando la moglie in Francia. Si darà la morte sulla nave che lo porta in Grecia, dopo aver scritto, ogni giorno del viaggio, una lettera. 

Dicono del libro
“Storia del tormentato amore tra due giovani, ‘Armance’ (1827) è il primo romanzo di Stendhal, che vi prova i temi che gli sono cari, gli abbandoni amorosi e poetici, l’arguzia sottile. Tanto da offrire un esempio tipico in ogni storia stendhaliana, del rapporto tra interessi sociali e politici, da un lato, e sfrenato individualismo, esclusiva passione d’amore, dall’altro”

(dalla quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. cit.)

 

March 22 Marzo

2 marzo 2013

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Oh yes, it is Kew! Well, Kew will do. So here we are at Kew, and I will show you to-day (the second of March) under the plum tree, a grape hyacinth, and a crocus, and a bud, too, on the almond tree

 

Virginia Woolf, Orlando

 

 

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In questo 2 marzo 1937 fa ancora molto freddo, ma gli aromi acerbi della primavera incipiente sono già nell’aria. In nessun luogo della terra il preludio della primavera è profumato più che in questa città prossima alle Prealpi. Teta ha spedito il suo bagaglio ben sigillato alla sorella, la vedova del signor Zikan, controllore capo delle privilegiate Ferrovie Meridionali. In quel bagaglio si trova anche la cetra che tanto le sta a cuore

Franz Werfel, Il cielo rubato, 1938, tr. it. G. Bianchetti, Piemme, 1992, p. 109

Il due marzo si chiude una fase della vita della cuoca Teta Linek, originaria di Hustopec in Moravia. Per anni è stata a servizio presso la famiglia Argan, fra Vienna e la tenuta di Grafenegg. Mentre i giorni trascorrono sempre simili uno dopo l’altro, Teta investe tutto il suo lavoro e i suoi guadagni di domestica in un progetto che ha a che fare con l’eternità: mantiene agli studi un nipote perché diventi sacerdote e preghi per la sua anima. Il piano non andrà secondo le previsioni di Teta che ancora, quel due di marzo, mentre lascia il servizio, non sospetta che il giovane nipote la stia ingannando. E neppure che la attende -verso la fine del pontificato di Pio XI – uno straordinario viaggio a Roma, nel cuore della religione cattolica e al termine dei suoi giorni. 

Dicono del libro
“Il romanzo è la vicenda d’una povera domestica che per tutta la vita insegue un sogno ingenuo e scaltro, pio e sacrilego al tempo stesso: assicurarsi la salute eterna, un posticino personale in paradiso, grazie alle continue preghiere e intercessioni d’un sacerdote di sua proprietà: un nipote da lei fatto studiare con sacrifici durissimi. Werfel segue questa povera vicenda di eroismo e di meschinità con l’acutezza di uno psicanalista”

(dalla quarta di copertina dell’ed. Piemme, op. cit.)

 

March 11 marzo

1 marzo 2013

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“He was just finishing up his boot training at Parris Island, South Carolina – where the scuttlebutt was that the marines were to hit the Japanese beaches on March 1, 1946 – when the atomic bomb was dropped on Hiroshima”

Philip Roth, American Pastoral, 1997

 

 

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Già da parecchio era cessato il cattivo tempo; la stagione veniva avanti; e all’improvviso fiorirono i mandorli. Era il primo di marzo. Scendo il mattino in Piazza di Spagna. I contadini hanno spogliato dei suoi rami bianchi la campagna, e i fiori di mandorlo caricano le ceste dei venditori. La mia attrazione è così forte  che ne compro un fascio intero. Ci vogliono tre uomini a portarlo. Rientro insieme a tutta quella primavera. I rami si impigliano nelle porta, dei petali nevicano sul tappeto

 André Gide, L’immoralista, 1902, tr. it. A. Cerinotti, Demetra, 1993, p. 127

La data del primo marzo compare verso la fine del racconto che il protagonista, Michel, fa ad alcuni amici per spiegare gli ultimi decisivi avvenimenti della sua vita. Il matrimonio con Marceline, il soggiorno in Africa, fatto di lunghi “giorni senza ore”, la malattia ai polmoni da cui si è ripreso, la scoperta dell’omosessualità. E poi, in una specie di simmetria, la malattia della moglie che, incinta, perde il bambino, e di nuovo i viaggi, il lago di Como, Firenze, Roma, dove arrivano alle soglie della primavera, per proseguire ancora verso sud. 

Dicono del libro
“L’immoralista vide le stampe nel 1902 e segna una tappa importante nella vita e nell’opera di Gide: nella vita, perché lo scrittore decide di uscire allo scoperto, ancor prima di fronte a se stesso che al suo pubblico, rispetto alla sua omosessualità; nell’opera, perché la ricerca di uno stile, fino a quel momento caratterizzato da prove discutibili, approda finalmente a un risultato convincente”

(dall’introduzione all’ed. Demetra, op. cit.)

 

February 2828 Febbraio

28 febbraio 2013

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“What is the day of the month?” asked he of Jacopo, who sat down beside him. “The 28th of February.” “In what year?” “In what year—you ask me in what year?”

Alexandre Dumas, The Count of Montecristo, 1844-45

 

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“Oggi quanti ne abbiamo del mese?” domandò Dantès a Jacopo che era venuto a sedere vicino a lui dopo aver perduto di vista il castello d’If.  
“Il 28 febbraio”, rispose questi. 
“Di che anno?” domandò ancora Dantès.
 “Come di che anno?… Voi domandate di che anno?”
“Si,” rispose il giovane, “vi domando di che anno”
“Avete dimenticato in che anno siamo?”
 “Che volete? E’ stata così grande la paura di questa notte,” disse ridendo Dantès, “in cui poco è mancato che non perdessi la vita, che la mia memoria ne è rimasta sconvolta; vi domando dunque di quale anno siamo noi ai 28 di febbraio?”
“Dell’anno 1829”, rispose Jacopo.
Erano 14 anni precisi, giorno per giorno, che Dantès era stato arrestato. Era entrato nel castello d’If  a 19 anni, e ne usciva a 33. Un doloroso sorriso passò sulle sue labbra

Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo, 1844-46, tr. it. E. Franceschini, BUR, 2006, pp. 153-154

Fuggito dal castello d’If, dove è stato tenuto ingiustamente prigioniero molti anni, e salvato in mare da un bastimento di contrabbandieri a cui dice di essere un naufrago, Edmond Dantès ha perso la cognizione del tempo e la prima notizia che chiede riguarda proprio la data. Nel febbraio di quattordici anni prima – 1815 -aveva avuto inizio la narrazione, con l’arrivo di Dantès a Marsiglia, il suo fidanzamento, il complotto dei suoi nemici e l’arresto. 

Dicono del libro
“Le trame della gelosia spezzano la vita del giovane Edmond Dantès: appena nominato capitano di bastimento, in procinto di sposare la bella Mercedes, perde tutto a causa del complotto ordito contro di lui da tre uomini rosi dall’invidia. Viene accusato di tradimento e incarcerato, il suo nome macchiato d’infamia. Ma nelle opprimenti segrete del Castello d’If il desiderio di riscatto si fa strada grazie all’incontro con il sapiente abate Faria e alla promessa di un favoloso tesoro nascosto sull’isola di Montecristo. Un luogo fiabesco e carico di mistero, in nome del quale Edmond costruirà la sua nuova vita, cambiando identità per preparare meglio un’inesorabile vendetta”

(dalla scheda del libro sul sito BUR)

 

February 2727 Febbraio

27 febbraio 2013

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“February 27. Only twenty-two days until spring. I swear that on the twenty-first I will change from my winter clothes”

Saul Bellow, Dangling Man, 1944

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27 febbraio
Solo ventidue giorni ci dividono dalla primavera. Giuro che il 21 marzo mi toglierò i panni invernali e, quale che sia il tempo, ci fosse anche una tempesta di neve, me ne andrò a spasso per il Jackson Park senza cappello e senza guanti

Saul Bellow, L’uomo in bilico, 1944, tr. it. G. Monicelli, Mondadori 1976, p.130

In attesa di prendere servizio nell’esercito, fra il 1942 e il 1943, Joseph, il protagonista del libro, registra gli avvenimenti, i cambi di prospettiva, la nuova misura del tempo derivante da questa attesa. In aprile verrà chiamato sotto le armi, “affrancato da ogni dovere di decidere di me stesso” e nei due mesi che precedono questo cambio di stato, passa da grandi temi – come la libertà o la responsabilità – ad annotazioni sul carattere di singoli irripetibili giorni di quel periodo.

Dicono del libro
Questo romanzo-diario è un viaggio interiore oscuro e tormentato alla ricerca di sé. L’uomo in bilico è il primo romanzo di Saul Bellow, una sorta di diario in cui confluiscono, in massima parte, gli elementi costitutivi del suo “pensiero”, la ricerca speculativa sulle ragioni dell’esistenza umana e del proprio essere. I suoi personaggi, sono, spesso, uomini con poche qualità, frustrati dalle loro stesse ambizioni, in conflitto con gli schemi del contesto sociale in cui vivono. Il protagonista è Joseph, un giovanotto ventisettenne, impiegato presso l’Inter-American Travel Bureau, diplomato in Storia all’Università del Wisconsin e coniugato da 5 anni. Egli trascorre nove mesi inattivo “in attesa burocratica” delle pratiche ministeriali prima di essere chiamato alle armi (siamo nel dicembre 1942) e in questa pausa riflette sulla propria vita”

(dalla recensione al libro su sololibri.net)

26 Febbraio

26 febbraio 2013

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“Siamo già nel golfo”, mi disse uno dei miei compagni quando mi alzai per far colazione, il 26 febbraio. Il giorno prima avevo avuto un po’ di paura per le condizioni del tempo nel golfo del Messico. Ma il cacciatorpediniere, anche se si muoveva un poco, scivolava via dolcemente. Pensai tutto contento che i miei timori erano  infondati e salii in coperta. Il profilo della costa era svanito. Solo il mare verde e il  cielo azzurro si stendevano intorno a noi

Gabriel García Márquez, Racconto di un naufrago, 195 (1970), tr. it. C. Acutis, Mondadori 1987, p.29

“Racconto di un naufrago che andò per dieci giorni alla deriva in una zattera senza mangiare né bere, che fu proclamato eroe dalla patria, baciato dalle reginette di bellezza e reso ricco dalla pubblicità, e poi aborrito dal governo e dimenticato per sempre”: il lungo sottotitolo di questo libro percorre tutte le fasi della vicenda del marinaio Velasco, imbarcato sul cacciatorpediniere Caldas alla volta di Cartagena. Il 26 febbraio 1955 è nel golfo del Messico, e tutto deve ancora succedere. 

Dicono del libro
“Pubblicato a puntate nel 1955 sul giornale colombiano ‘El Espectador’, il Racconto di un naufrago fu ristampato nel 1970 a cura di Gabriel Garcia Márquez, il giornalista che lo aveva allora ricostruito dalla narrazione del marinaio Luis Alejandro Velasco. Più  ancora che quella di un naufragio, l’esperienza che Velasco riportava dalla sua avventura era quella di una perdizione. Unico sopravvissuto degli otto marinai scaraventati in mare da un’ondata che aveva divelto un carico di casse male assicurato alle basi dell’alberatura di un cacciatorpediniere colombiano, l’uomo aveva raggiunto lentamente, un giorno dopo l’altro, sulla sua zattera bianca, quelle acque dove i naufraghi perdono la nozione del tempo e dello spazio”
(Cesare Acutis, dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

Altre storie che accadono oggi

 

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“…Ebbene, Sire, l’usurpatore ha lasciato l’isola d’Elba il 26 febbraio ed è sbarcato il primo marzo…”
Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo 

 

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“… Il 26 (febbraio) la fortuna lo abbandonò di nuovo…” Robert Harris, Enigma

pittura

Humphrey Jennings, Ritratto di Lord Byron con un libro, 1935, collage su carta, 20 x 14, Gerusalemme, The Israel Museum, The Vera and Arturo Schwarz


Spencer_Finch_2007

Spencer Finch, West (Sunset in my motel room, Monumnet Valley, February 26, 2007, 5:36 – 6:06 PM), 2007« »

“Siamo già nel golfo”, mi disse uno dei miei compagni quando mi alzai per far colazione, il 26 febbraio. Il giorno prima avevo avuto un po’ di paura per le condizioni del tempo nel golfo del Messico. Ma il cacciatorpediniere, anche se si muoveva un poco, scivolava via dolcemente. Pensai tutto contento che i miei timori erano  infondati e salii in coperta. Il profilo della costa era svanito. Solo il mare verde e il  cielo azzurro si stendevano intorno a noi

Gabriel García Márquez, Racconto di un naufrago, 195 (1970), tr. it. C. Acutis, Mondadori 1987, p.29

“Racconto di un naufrago che andò per dieci giorni alla deriva in una zattera senza mangiare né bere, che fu proclamato eroe dalla patria, baciato dalle reginette di bellezza e reso ricco dalla pubblicità, e poi aborrito dal governo e dimenticato per sempre”: il lungo sottotitolo di questo libro percorre tutte le fasi della vicenda del marinaio Velasco, imbarcato sul cacciatorpediniere Caldas alla volta di Cartagena. Il 26 febbraio 1955 è nel golfo del Messico, e tutto deve ancora succedere. 

Dicono del libro
“Pubblicato a puntate nel 1955 sul giornale colombiano ‘El Espectador’, il Racconto di un naufrago fu ristampato nel 1970 a cura di Gabriel Garcia Márquez, il giornalista che lo aveva allora ricostruito dalla narrazione del marinaio Luis Alejandro Velasco. Più  ancora che quella di un naufragio, l’esperienza che Velasco riportava dalla sua avventura era quella di una perdizione. Unico sopravvissuto degli otto marinai scaraventati in mare da un’ondata che aveva divelto un carico di casse male assicurato alle basi dell’alberatura di un cacciatorpediniere colombiano, l’uomo aveva raggiunto lentamente, un giorno dopo l’altro, sulla sua zattera bianca, quelle acque dove i naufraghi perdono la nozione del tempo e dello spazio”

(Cesare Acutis, dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

February 2525 Febbraio

25 febbraio 2013

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“In the morning of the 25th of February, 1848, the news was brought to Chavignolles, by a person who had come from Falaise, that Paris was covered with barricades, and the next day the proclamation of the Republic was posted up outside the mayor’s office”

Gustave Flaubert, Bouvard and Pécuchet, 1881 (posth.)

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Il mattino del 25 febbraio 1848, si sparse a Chavignolles la notizia, portata da uno  che veniva da Falaise, che Parigi era coperta di barricate; e l’indomani sull’ingresso  dell’edificio comparve l’avviso che era stata proclamata la Repubblica. Questo grande avvenimento impressionò i benestanti. Ma quando si apprese che la  Corte di Cassazione, la Corte d’appello, la Corte dei conti, la Camera di Commercio,  l’Ordine dei notai, quello degli avvocati, il Consiglio di Stato, l’Università, i generali e persino il signor de la Rochejacquelein avevano dato la loro adesione al governo   provvisorio, le fronti si spianarono; e, visto che nella capitale si piantavano alberi della libertà, il consiglio municipale decise che anche a Chavignolles bisognava  piantarne. Nella sua esultanza per il trionfo del popolo, Bouvard ne offrì uno;  quanto a Pécuchet la caduta della monarchia confermava a puntino le sue previsioni:  non poteva che rallegrarsene. Felice di riceverne l’ordine, Gorju s’affrettò a sradicare uno dei pioppi che costeggiavano il prato oltre la Montagnetta; e lo   trasportò fino al Pas de la Vaque, all’entrata del borgo, dove lo si doveva piantare

Gustave Flaubert, Bouvard e Pécuchet, 1881 (post.),  tr. it. C. Sbarbaro, Einaudi 1964, p.122

Nel gennaio del 1839, Bouvard ha eredito una rendita, avvenimento che ha consentito a lui e all’amico Pécuchet – entrambi impiegati parigini di mezza età –  di trasferirsi a Chavignolles, fra Caen e Falaise, per dedicarsi a imprese agrarie e a progetti enciclopedici. Gli anni trascorrono e arriva il 1848, con la rivolta – nel mese di febbraio – delle opposizioni liberali e repubblicane alla monarchia di Luigi Filippo. Avvenimenti di cui, in questo romanzo postumo, Flaubert immagina l’arrivo a Chavignolles,  nello stesso febbraio del ’48.  

Dicono del libro
“La storia dei due impiegati parigini si sviluppa come una parabola. Bouvard e Pécuchet sono due copisti affratellati da una candida passione per le ‘idee’.  Una grossa eredità toccata a Bouvard consente a lui e all’amico di lasciare l’impiego e di trasferirsi in campagna per potersi dedicare a una febbrile ricognizione del sapere umano”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. cit.)

 

February 2424 Febbraio

24 febbraio 2013

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“The day is an epitome of the year. The night is the winter, the morning and evening are the spring and fall, and the noon is the summer (…) One pleasant morning after a cold night, February 24th, 1850, having gone to Flint’s Pond to spend the day, I noticed with surprise, that when I struck the ice with the head of my axe, it resounded like a gong”


Henry D. Thoreau, Walden, 1854

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Il giorno pare proprio un riassunto dell’anno. La notte è l’inverno, la mattina e la sera sono la primavera e l’autunno, e il mezzogiorno è l’estate. Lo scricchiolio e il rimbombo del ghiaccio indicano un cambiamento di temperatura. Una bella mattina, seguita a una notte fredda (il 24 febbraio 1850), andai a Flint’s Pond per passarvi la giornata, e con sorpresa osservai che quando colpivo il ghiaccio con la testa della scure, esso  risuonava come un gong per molte pertiche intorno

Henry D. Thoreau,  Walden ovvero vita nei boschi, 1854,  tr. it. P. Sanavio, Rizzoli, Milano, 1994, p. 376

Le date registrate da Thoreau, nei due anni di vita solitaria nei boschi intorno al lago di Walden, riportano soprattutto quello che accade alla natura, quello che succede alle acque e ai ghiacci, alle foglie, agli alberi. La terra, con la sua atmosfera e i suoi cicli ricorrenti, è la protagonista di queste pagine, in cui l’autore costruisce tavole di corrispondenza fra le scansioni del tempo umano e terrestre, interno ed esterno: “Per noi, spunta solo quel giorno in cui siamo svegli. Ce n’è, di giorno, che ancora deve albeggiare!”

Dicono del libro
Nel luglio 1845, Henry David Thoreau, naturalista, filosofo e agrimensore, lasciava la cittadina di Concord dove abitava ed era nato, per andare a vivere in una capanna di legno, nei boschi del vicino lago di Walden. Intendeva compiere un esperimento, mostrare quanto poco costasse vivere. Il gesto, pure se non nuovo nel Massachusetts del XIX secolo, assumeva nella sua arroganza significati politici ed estetici insieme: si inseriva nella scelta di una ‘disubbidienza civile’ a una società di cui Thoreau non condivideva gli ideali mercantili (…) Nella relativa solitudine del lago, analizzando se stesso, i suoi simili e il proprio rapporto con la natura, Thoreau cercava un perduto alfabeto”

(dalla quarta di copertina dell’ed. Rizzoli, op. cit.)

 

February 2323 Febbraio

23 febbraio 2013

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So in the end he entered, by way of his grandfather’s letter, that Sanctum Americanum where sat the president of Wilson, Hiemer and Hardy at his ‘cleared desk’, and issued therefrom employed. He was to begin work on the twenty-third of February”


Francis Scott Fitgerald, The Beautiful and Damned, 1922

 

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Così alla fine Anthony entrò, per mezzo di una lettera del nonno, nel Sanctum Americanum dove sedeva il presidente delle Wilson, Hiemer e Hardy al suo ‘tavolo sgombro’ e ne uscì impiegato. Doveva prendere servizio il 23 febbraio. Quest’orgia di due giorni era stata organizzata in tributo a questa circostanza  importante, perché quando Anthony avesse cominciato a lavorare avrebbe dovuto andare a letto presto durante tutta la settimana. […] E ora la mattina: a loro di addizionare gli assegni incassati qua e là in circoli, negozi, ristoranti. A loro di dare aria all’alta stanza azzurra per scacciarne il fetore rancido del vino e delle sigarette, di raccogliere i bicchieri rotti e spazzolare le stoffe macchiate delle poltrone e dei sofà; di dare a Bounds i vestiti e gli abiti da mandare in tintoria; infine di condurre i loro corpi mezzo febbricitanti e soffocati e il loro spirito sbiadito e depresso nell’aria fredda di febbraio, in modo che la vita potesse continuare e  l’indomani mattina alle nove Wilson, Hiemer e Hardy avessero i servigi di un uomo  vigoroso

 Francis Scott Fitzgerald, Belli e dannati, 1922, tr. it. F. Pivano, Mondadori 1973, pp. 183-184

Mentre in Europa si combatte la prima guerra mondiale e negli Stati Uniti comincia ad affermarsi il cinema, scorre la storia del giovane ereditiero americano Anthony Patch e di sua moglie Gloria Gilbert. Le date, nella loro vita, riguardano appuntamenti, feste, viaggi, nei quali la coppia trascorre un tempo d’ozio e di ricerca del divertimento. L’aderenza al calendario è vaga e dipende dai postumi delle feste, che a volte durano diverse giornate consecutive: “che giorno è? Martedì. Martedì? Lo spero. Se è mercoledì devo presentarmi a prendere servizio in quel posto idota”.  Poiché la rendita diminuisce, Anthony ha deciso di provare a fare qualcosa – a lavorare –  e ha chiesto aiuto al nonno Adam. Indirizzato verso la carriera in borsa, deve prendere servizio il 23 febbraio. Nei due giorni che precedono questa data, ha luogo una lunga festa d’addio alla vita non lavorativa, anche se l’impiego, col suo ritmo quotidiano, non durerà a lungo.

Dicono del libro
Belli e dannati è la storia di un deterioramento morale causato dal denaro… Si tratta di Anthony Patch, che in attesa di ereditare la fortuna del nonno conduce una vita sofisticata e dissipata con la moglie Gloria Gilbert e quando viene diseredato si batte in una lunga azione legale che gli assicura trenta milioni di dollari ma lo lascia su una sedia a rotelle, vicino a una Gloria che ha perduto con la bellezza la sua unica virtù (…) Belli e dannati sembra basarsi appunto su due temi che procedono paralleli senza mai congiungersi: la rivolta della gioventù e la mancanza di significato della vita”

(Fernanda Pivano, dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

Altre storie che accadono oggi

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“… Il tempo passava senza che si sapesse come. Il 23 febbraio 1900, sotto un cielo grigio d’inverno, essa festeggiò malinconicamente i suoi ventott’anni…”
Marguerite Yourcenar, Care memorie

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“… Gli altri fatti della mia vita sono puramente accidentali. Il 23 febbraio 1981 è nato il fratellino di Ben…”
Paul Auster, La stanza chiusa (Trilogia di New York)

22 Febbraio

22 febbraio 2013

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Si versò un bicchierino di liquore ed entrò nello studio per compiere il rito serale di cambiare la data sul calendario dello scrittoio. Sabato, 21 febbraio. Santo Cielo! Era domenica mattina! Domenica, 22 febbraio. Esattamente otto giorni  dal dannato affare alla Hanging Rock.
Albert, appena terminato di accudire ai cavalli, si buttò tutto vestito sulla branda non rifatta e si addormentò. Gli pareva di avere posato la testa sul guanciale solo da un  momento ed era già completamente sveglio e fissava il minuscolo quadrato di luce  grigia alla finestra; intanto gli avvenimenti del giorno prima, non più confusi per la  stanchezza fisica come lo erano la sera precedente, si collocavano ordinatamente al  loro posto come i pezzi di un rompicapo. Ma mancava uno dei pezzi chiave. Qual era?  E dove andava sistemato esattamente nel disegno?

Joan Lindsay, Picnic a Hanging Rock, 1967, tr. it. M.V. Malvano, Sellerio 1993, p.101

L’uomo che cambia la data sul calendario dello scrittoio è il colonnello Fitzhubert, lo zio di Mike, il giovane aristocratico che, con l’amico stalliere Albert, ha visto per l’ultima volta le ragazze scomparse ad Hanging Rock la settimana prima. Durante un picnic organizzato dal collegio Appleyard nel giorno di San Valentino, Miranda, Marion, Irma, Edith e un’insegnante di matematica si sono allontanate in direzione della grande roccia vulcanica, mentre gli orologi sono tutti fermi a mezzogiorno. Solo Edith è tornata indietro, sconvolta da qualcosa che non è in grado di spiegare. Il giovane Mike non si dà pace e continua la ricerca solitaria delle ragazze, mentre lo zio lo aspetta a casa e si accorge che è passato un altro giorno dallo strano accadimento.“Non esiste un solo attimo su questo globo rotante che non sia, per milioni di individui, non misurabile con i comuni sistemi di computo del tempo: un frammento di eternità per sempre privo di rapporto con il tempo e l’orologio”.

Dicono del libro

“Hanging Rock, la roccia vulcanica che sorge isolata e improvvisa nella macchia australiana a nord di Melbourne, fu davvero teatro, nel 1900, dell’evento narrato in questo libro: la scomparsa mai spiegata di due fanciulle e una matura insegnante di college, seguita dalla immediata rovina di tante esistenze a quelle vite collegate (…) ‘Se Picnic a Hanging Rock sia realtà o fantasia, i lettori dovranno deciderlo per proprio conto’ ”
(dalla bandella dell’ed. Sellerio, op. cit.)

 

 Altre storie che accadono oggi

 

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“…’Che giorno è, Bounds?’ – ‘Il 22 febbraio, credo, signore’”
Francis Scott Fitzgerald, Belli e dannati

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“… Il 22 febbraio ci fu comunicato che saremmo ritornati in Colombia. Avevamo trascorso otto mesi a Mobile, Alabama…”

Gabriel García Márquez , Racconto di un naufrago

21 Febbraio

21 febbraio 2013

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21 febbraio (tardo pomeriggio)
 […] Ora sono io ad arretrare, a cercare di spegnere la mia mente che s’è accesa con troppo fervore. Presto o tardi si parlerà anche della mia scomparsa. Ascolto da vivo i discorsi – compiaciuti o dolenti – che si faranno su di me dopo la mia morte. Il passato non torna. Possibile – mi chiedo stoltamente, o con ingenuità fanciullesca – che tutto ciò che ho vissuto, debba averlo vissuto una sola volta, e così in fretta, senza avvertirne la veloce fuga all’indietro?

Luca Canali, Diario segreto di Giulio Cesare, 1994, Mondadori, pp. 94, 100

L’autore immagina che Giulio Cesare, negli ultimi quaranta giorni della sua vita, abbia registrato le giornate e le notti in un diario, dove si parla di Roma e del suo governo, di famiglia e di memorie. Il 21 febbraio è una giornata di quiete: ricorrono le celebrazioni Ferali, quando “tutte le famiglie ricordano i loro defunti”. Dopo aver portato doni alla tomba della figlia e della prima moglie, e aver salutato Cicerone, Cesare è solo in casa, a riflettere sul tempo, che “avanza inavvertito come un sicario”. 

Dicono del libro
“Abbandonata la terza persona dei commentari guerreschi, nelle pagine di questo apocrifo Cesare si racconta senza reticenze, con asciutta immediatezza. Il diario si apre il 6 febbraio dell’anno 710 dalla fondazione di Roma (44 a.C.), mentre l’ultimo foglio reca la data fatidica del 15 marzo”
(dalla seconda di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

Altre storie che accadono oggi

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“… Mercoledì 21 febbraio, Visita di Lapointe in rue de Turenne. L’agente nota la valigia…”
Georges Simenon, L’amica della signora Maigret

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“… Un biglietto sulla scrivania. La scrittura assomiglia alla sua: Questo sono io con Augustine, 21 febbraio 1943…” Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata
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“… Quello che Jacob R. mangiò per colazione il mattino del 21 febbraio 1877. Patate fritte con cipolle. Due fette di pane nero…” Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata« »

21 febbraio (tardo pomeriggio)
 […] Ora sono io ad arretrare, a cercare di spegnere la mia mente che s’è accesa con troppo fervore. Presto o tardi si parlerà anche della mia scomparsa. Ascolto da vivo i discorsi – compiaciuti o dolenti – che si faranno su di me dopo la mia morte. Il passato non torna. Possibile – mi chiedo stoltamente, o con ingenuità fanciullesca – che tutto ciò che ho vissuto, debba averlo vissuto una sola volta, e così in fretta, senza avvertirne la veloce fuga all’indietro?

Luca Canali, Diario segreto di Giulio Cesare, 1994, Mondadori, pp. 94, 100

L’autore immagina che Giulio Cesare, negli ultimi quaranta giorni della sua vita, abbia registrato le giornate e le notti in un diario, dove si parla di Roma e del suo governo, di famiglia e di memorie. Il 21 febbraio è una giornata di quiete: ricorrono le celebrazioni Ferali, quando “tutte le famiglie ricordano i loro defunti”. Dopo aver portato doni alla tomba della figlia e della prima moglie, e aver salutato Cicerone, Cesare è solo in casa, a riflettere sul tempo, che “avanza inavvertito come un sicario”. 

Dicono del libro
“Abbandonata la terza persona dei commentari guerreschi, nelle pagine di questo apocrifo Cesare si racconta senza reticenze, con asciutta immediatezza. Il diario si apre il 6 febbraio dell’anno 710 dalla fondazione di Roma (44 a.C.), mentre l’ultimo foglio reca la data fatidica del 15 marzo”
(dalla seconda di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

 

20 Febbraio

20 febbraio 2013

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Fu come se gli avessero assegnato una nuova data di nascita: 20 febbraio 1967. Fu come venire al mondo un’altra volta solo per passare notti insonni con lo sguardo rivolto alle gocce di pioggia che scivolavano luccicando lungo il vetro della finestra. E mentre la madre era nell’altra stanza che dormiva tranquilla in tutta la sua diversità, Homer se ne stava disteso sul letto ad ascoltare il ritmo del proprio respiro, il ritmo che accompagnava il buio tristissimo di quelle ore in cui tutto era immobile a parte la pioggia che veniva giù e le gocce che scivolavano luccicando lungo il vetro della finestra, un unico e immenso momento di eternità. Non dormendo mai

 Tommaso Pincio, Un amore dell’altro mondo, Einaudi 2002, p. 30

 

La narrazione segue la storia parallela e intrecciata di due giovani: Homer B. Alienson (Boda di secondo nome) e Kurt (che ha un amico immaginario che si chiama Boda). Mentre una serie di indizi porta via via il lettore a individuare in Kurt la figura del musicista Cobain, la storia fa avvicinare e allontanare i due personaggi, rendendo immaginari i dati reali e plausibili quelli immaginari. Quest’oscillazione fra finzione e realtà è puntellata da dettagli importanti, come la data del 20 febbraio 1967 (il giorno di nascita del “vero” Kurt Cobain), richiamata nel libro come una data spartiacque nell’esistenza del personaggio Homer. Le alterazioni del ritmo sonno-veglia e della percezione del tempo prodotte dalle droghe sono una parte cospicua della storia: “venne sfiorato dal dubbio che il sistema potesse alterare il corso del tempo, rallentarlo, incastrarlo, arrestarlo, fino a un punto in cui i giorni, anziché passare come si crede cha facciano, finissero per rovinare uno sull’altro in un gigantesco tamponamento”.

 

 

Dicono del libro
“Il romanzo che ha dato vita una volta per sempre al fantasma di Kurt Cobain. Ripercorrendo la sconvolgente vicenda di Homer Alienson, l’amico immaginario del leader dei Nirvana, ci tuffiamo come in un caleidoscopio nelle fine di un’epoca”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. cit.)

 

 

Altre storie che accadono oggi

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“… Il 20 febbraio, verso sera, un marinaio di guardia segnalò una fiamma rossastra che si elevava a una prodigiosa altezza…”
Emilio Salgari, Gli scorridori del mare

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“… 20 febbraio…Perché la mia vita è un vero romanzo, e io quando ci penso non posso fare a meno di ripetere sempre fra me il solito ritornello: Ah, se avessi la penna di Salgari…” Vamba, Il giornalino di Gian Burrasca

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” 20 (febbraio), lunedì. Tutta la città è in ribollimento per il carnevale, che è sul finire…”
Edmondo De Amicis, Cuore

 

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“…Passerò da Parigi tra qualche giorno. Vieni a trovarmi all’albergo di Spagna, il 20 febbraio. Te ne prego!…”
Jean-Paul Sartre, La nausea

 

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Tuesday, Feb. 20, 2007 The season’s first snow in New York. I buy a newspaper
Jonas Mekas, 365 Day Project« »

Fu come se gli avessero assegnato una nuova data di nascita: 20 febbraio 1967. Fu come venire al mondo un’altra volta solo per passare notti insonni con lo sguardo rivolto alle gocce di pioggia che scivolavano luccicando lungo il vetro della finestra. E mentre la madre era nell’altra stanza che dormiva tranquilla in tutta la sua diversità, Homer se ne stava disteso sul letto ad ascoltare il ritmo del proprio respiro, il ritmo che accompagnava il buio tristissimo di quelle ore in cui tutto era immobile a parte la pioggia che veniva giù e le gocce che scivolavano luccicando lungo il vetro della finestra, un unico e immenso momento di eternità. Non dormendo mai

 Tommaso Pincio, Un amore dell’altro mondo, Einaudi 2002, p. 30

La narrazione segue la storia parallela e intrecciata di due giovani: Homer B. Alienson (Boda di secondo nome) e Kurt (che ha un amico immaginario che si chiama Boda). Mentre una serie di indizi porta via via il lettore a individuare in Kurt la figura del musicista Cobain, la storia fa avvicinare e allontanare i due personaggi, rendendo immaginari i dati reali e plausibili quelli immaginari. Quest’oscillazione fra finzione e realtà è puntellata da dettagli importanti, come la data del 20 febbraio 1967 (il giorno di nascita del “vero” Kurt Cobain), richiamata nel libro come una data spartiacque nell’esistenza del personaggio Homer. Le alterazioni del ritmo sonno-veglia e della percezione del tempo prodotte dalle droghe sono una parte cospicua della storia: “venne sfiorato dal dubbio che il sistema potesse alterare il corso del tempo, rallentarlo, incastrarlo, arrestarlo, fino a un punto in cui i giorni, anziché passare come si crede cha facciano, finissero per rovinare uno sull’altro in un gigantesco tamponamento”.

 

Dicono del libro
“Il romanzo che ha dato vita una volta per sempre al fantasma di Kurt Cobain. Ripercorrendo la sconvolgente vicenda di Homer Alienson, l’amico immaginario del leader dei Nirvana, ci tuffiamo come in un caleidoscopio nelle fine di un’epoca”

(dalla quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. cit.)

 

19 Febbraio

19 febbraio 2013

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19 febbraio
Che triste giornata è stata oggi povero monsieur Armand! Stamattina Marguerite si sentiva soffocare, il medico le ha fatto un salasso, e le è tornato un filo di voce. Il medico le ha consigliato di far venire un prete. Lei ha acconsentito,  e lui stesso è andato a chiamarne uno alla chiesa di Saint-Roch.
Nel frattempo, Marguerite mi ha chiamato vicino al suo letto, pregandomi di aprire  l’armadio, poi mi ha indicato una cuffietta, una lunga camicia tutta guarnita di pizzi, e mi ha detto con voce fioca: “Dopo essermi confessata morirò, allora mi vestirai con una civetteria da moribonda”

 Alexandre Dumas figlio, La signora delle camelie, 1848, tr. it. L. Collodi, Newton Compton, 1994, p. 251

 

È l’amica Julie Duprat a scrivere le ultime lettere di Marguerite Gautier, la signora delle (o dalle) camelie, al suo innamorato Armand Duval, da cui è stata separata da una serie di circostanze melodrammatiche. Convinta dal padre del giovane a lasciarlo, Marguerite è malata, sull’orlo del fallimento, sofferente per il distacco.  Il romanzo è iniziato nel marzo del 1874, alla vendita all’asta dei beni di Marguerite e la vicenda è ricostruita attraverso confessioni, carte, diari e tante lettere, spesso trascritte una dentro l’altra, con le loro date rivelatrici  (“e voi dove siete, mentre scrivo queste righe?”).

 

Dicono del libro 
“Scritto nel 1848, quando l’autore non aveva che ventiquattro anni, il romanzo La signora delle camelie ha prodotto subito un mito, che occuperà l’immaginario di intere generazioni e riempirà le scene, sia quelle del teatro di prosa, sia quelle del teatro d’opera, e successivamente gli schermi del cinema. Lo stesso Dumas ne fece una versione teatrale, affidandola a Sarah Berhnardt. Pochi anni dopo Giuseppe Verdi saprà farne una trasposizione sublime, in musica, con La Traviata“.
(dalla quarta di copertina dell’ed. Newton Compton, op. cit.)

 

Altre storie che accadono oggi

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“… 19 febbraio. Dàtemi questa soddisfazione, almeno. Riconoscetelo. Ho il diritto o no di dare del farabutto al mio destino?…”
Achille Campanile, Il diario di Gino Cornabò

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“… 19 febbraio. … Quello che non capisco è perché, da qualche giorno, mi scruta con ironia…”
Raymond Queneau, Il diario intimo di Sally Mara

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19 febbraio
Che triste giornata è stata oggi povero monsieur Armand! Stamattina Marguerite si sentiva soffocare, il medico le ha fatto un salasso, e le è tornato un filo di voce. Il medico le ha consigliato di far venire un prete. Lei ha acconsentito,  e lui stesso è andato a chiamarne uno alla chiesa di Saint-Roch.
Nel frattempo, Marguerite mi ha chiamato vicino al suo letto, pregandomi di aprire  l’armadio, poi mi ha indicato una cuffietta, una lunga camicia tutta guarnita di pizzi, e mi ha detto con voce fioca: “Dopo essermi confessata morirò, allora mi vestirai con una civetteria da moribonda”

 Alexandre Dumas figlio, La signora delle camelie, 1848, tr. it. L. Collodi, Newton Compton, 1994, p. 251

È l’amica Julie Duprat a scrivere le ultime lettere di Marguerite Gautier, la signora delle (o dalle) camelie, al suo innamorato Armand Duval, da cui è stata separata da una serie di circostanze melodrammatiche. Convinta dal padre del giovane a lasciarlo, Marguerite è malata, sull’orlo del fallimento, sofferente per il distacco.  Il romanzo è iniziato nel marzo del 1874, alla vendita all’asta dei beni di Marguerite e la vicenda è ricostruita attraverso confessioni, carte, diari e tante lettere, spesso trascritte una dentro l’altra, con le loro date rivelatrici  (“e voi dove siete, mentre scrivo queste righe?”).

Dicono del libro 
“Scritto nel 1848, quando l’autore non aveva che ventiquattro anni, il romanzo La signora delle camelie ha prodotto subito un mito, che occuperà l’immaginario di intere generazioni e riempirà le scene, sia quelle del teatro di prosa, sia quelle del teatro d’opera, e successivamente gli schermi del cinema. Lo stesso Dumas ne fece una versione teatrale, affidandola a Sarah Berhnardt. Pochi anni dopo Giuseppe Verdi saprà farne una trasposizione sublime, in musica, con La Traviata“.
(dalla quarta di copertina dell’ed. Newton Compton, op. cit.)

 

18 Febbraio

18 febbraio 2013

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D’altro canto, e posta per così dire in disparte dietro la risoluzione di morire, ce n’era un’altra, più segreta, e che al canonico aveva gelosamente nascosto, quella di morire di propria mano. Ma anche qui gli restava ancora un’immensa e schiacciante libertà: egli poteva liberamente attenersi a quella decisione o rinunciarvi, fare i gesto che termina tutto o al contrario accettare la mors ignea per nulla differente dall’agonia di un alchimista che si appicchi il fuoco alla lunga veste venuta inavvedutamente a contatto colle braci del proprio athanor. La scelta tra l’esecuzione o la fine volontaria, sospesa fino all’ultimo a una fibrilla della sua sostanza pensante, non oscillava più tra la morte e una specie di vita, come era accaduto per l’accettare o il rifiutare di ritrattarsi, ma concerneva il mezzo, il luogo e il momento esatto. Spettava a lui decidere se sarebbe finito sulla Piazza Grande tra gli schiamazzi o tranquillamente tra quei muri grigi. A lui, quindi, di ritardare o di affrettare di qualche ora l’azione suprema, di scegliere, se lo voleva, di vedere sorgere il sole d’un certo 18 febbraio 1569, o di finir oggi stesso prima che fosse notte fonda

Marguerite Yourcenar, L’opera al nero, 1968, tr. it. M. Mongardo, Feltrinelli 1986, p. 278

Nella città di Bruges, nel febbraio del 1569, il  filosofo e medico Zenone, accusato di eresia ed empietà, è in prigione, in attesa che venga eseguita la condanna a morte. Ha ricevuto una visita in cui gli è stato proposto di ritrattare e avere salva la vita.  Benché questa proposta rimetta in gioco il futuro, Zenone ha deciso di non accettare. Anzi, la sua decisione è quella di darsi la morte prima che lo vengano a prendere per l’esecuzione, prima che sorga il “sole d’un certo 18 febbraio 1569”.
In una nota al testo, l’autrice Yourcenar commenta che al momento del suicidio del personaggio Zenone, Giordano Bruno  – che sarebbe stato mandato al rogo il 17 febbraio del 1600 – avrebbe avuto circa vent’anni.
Zenone ha meditato spesso sul tempo, ricombinando le cifre degli anni, immaginando il futuro “di cui si sapeva una sola cosa, cioè che sarebbe arrivato” e ragionando sulla misura umana del tempo: “La terra girava ignara del calendario giuliano o dell’era cristiana, tracciando il suo cerchio senza principio né fine come un anello perfettamente liscio”. 

Dicono del libro
L’opera la nero è la storia di un personaggio immaginario, Zenone, medico, alchimista, filosofo, dalla nascita illegittima a Bruges nei primi anni del Cinquecento fino alla catastrofe che ne conclude l’esistenza.

 

Altre storie che accadono oggi

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“…Veramente il signor Jarmarka era tuttora scapolo, ma proprio il 18 febbraio compivano venticinque anni dal giorno in cui, per poco, non s’era sposato…” Jan Neruda, I racconti di Mala Strana

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“… Comunque la mostra inaugura il diciotto febbraio, il giorno della nascita di André Breton…”
Richard Kadrey, Addio Houston Street, addio 

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“… Il rovescio della Kaleidoscope non aveva abbattuto il suo morale, come annunciava il ‘Los Angeles Record’  il 18 febbraio 1929…” Paul Auster, Il libro delle illusioni

 

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“… le nove e un quarto del 18 febbraio? Sissignore – disse, sollevando il braccio per controllare la data sul suo orologio digitale…” Murakami Haruki, Tutti i figli di Dio danzano« »


D’altro canto, e posta per così dire in disparte dietro la risoluzione di morire, ce n’era un’altra, più segreta, e che al canonico aveva gelosamente nascosto, quella di morire di propria mano. Ma anche qui gli restava ancora un’immensa e schiacciante libertà: egli poteva liberamente attenersi a quella decisione o rinunciarvi, fare i gesto che termina tutto o al contrario accettare la mors ignea per nulla differente dall’agonia di un alchimista che si appicchi il fuoco alla lunga veste venuta inavvedutamente a contatto colle braci del proprio athanor. La scelta tra l’esecuzione o la fine volontaria, sospesa fino all’ultimo a una fibrilla della sua sostanza pensante, non oscillava più tra la morte e una specie di vita, come era accaduto per l’accettare o il rifiutare di ritrattarsi, ma concerneva il mezzo, il luogo e il momento esatto. Spettava a lui decidere se sarebbe finito sulla Piazza Grande tra gli schiamazzi o tranquillamente tra quei muri grigi. A lui, quindi, di ritardare o di affrettare di qualche ora l’azione suprema, di scegliere, se lo voleva, di vedere sorgere il sole d’un certo 18 febbraio 1569, o di finir oggi stesso prima che fosse notte fonda

Marguerite Yourcenar, L’opera al nero, 1968, tr. it. M. Mongardo, Feltrinelli 1986, p. 278

Nella città di Bruges, nel febbraio del 1569, il  filosofo e medico Zenone, accusato di eresia ed empietà, è in prigione, in attesa che venga eseguita la condanna a morte. Ha ricevuto una visita in cui gli è stato proposto di ritrattare e avere salva la vita.  Benché questa proposta rimetta in gioco il futuro, Zenone ha deciso di non accettare. Anzi, la sua decisione è quella di darsi la morte prima che lo vengano a prendere per l’esecuzione, prima che sorga il “sole d’un certo 18 febbraio 1569”.
In una nota al testo, l’autrice Yourcenar commenta che al momento del suicidio del personaggio Zenone, Giordano Bruno  – che sarebbe stato mandato al rogo il 17 febbraio del 1600 – avrebbe avuto circa vent’anni.
Zenone ha meditato spesso sul tempo, ricombinando le cifre degli anni, immaginando il futuro “di cui si sapeva una sola cosa, cioè che sarebbe arrivato” e ragionando sulla misura umana del tempo: “La terra girava ignara del calendario giuliano o dell’era cristiana, tracciando il suo cerchio senza principio né fine come un anello perfettamente liscio”. 

Dicono del libro
L’opera la nero è la storia di un personaggio immaginario, Zenone, medico, alchimista, filosofo, dalla nascita illegittima a Bruges nei primi anni del Cinquecento fino alla catastrofe che ne conclude l’esistenza.

 

17 Febbraio

17 febbraio 2013

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Esteban Werfell prese la penna – che era di legno, e che usava esclusivamente per redigere il suo diario – e la intinse nel calamaio.
17 febbraio 1958, scrisse. La sua calligrafia era accurata, elegante. Al di là della finestra il cielo era diventato completamente grigio, e una pioggia sottile, invisibile, scuriva l’edera che rivestiva la casetta dei cigni. Quella visuale lo fece sospirare. Avrebbe preferito un tempo diverso. Non gli piaceva che il parco fosse deserto. Sospirò di nuovo. Poi intinse la penna e si chinò sul quaderno.

Bernardo Atxaga, Esteban Werfell, in Obabakoak, 1989, tr. it. S. Piloto di Castri, Einaudi, 1991, p. 7

Il pomeriggio del 17 febbraio, sotto un “cielo nuvoloso, bianco e grigio”, il protagonista del racconto si accinge a scrivere su un quaderno dalla copertina rigida. È il dodicesimo quaderno delle sue riflessioni e delle sue memorie, in cui ripercorre un episodio dell’adolescenza, avvenuto molti anni prima, e il cui significato ha compreso da poco. Ha a che fare con il padre, con una ragazza tedesca con la quale si è scritto per tanti anni (o almeno ha creduto di farlo),  con una lontana immaginazione e soprattutto con il corso del tempo, che – al pari della memoria –  nasconde, seleziona e rivela la rete delle cose accadute.

Dicono del libro
“Obabakoak  è un nome composto dal toponimo Obaba e dal suffisso koak, che in lingua basca sta a indicare un’appartenenza. Letteralmente Obabakoak significa le cose, le vicende, le Storie di Obaba, luogo immaginario, piccolo villaggio sperduto fra i monti, isolato e dimenticato dal resto del mondo. Sinonimo di solitudine, metafora dei Paesi Baschi. Obaba funge da mitico fondale dei racconti del libro, racconti scritti fra memoria e gioco combinatorio”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. cit.)

Altre storie che accadono oggi

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“… Il diciassette (febbraio) uscimmo col proposito di esaminare meglio il vallone di granito…”
Edgar Allan Poe, Le avventure di Gordon Pym

 

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“… 17 febbraio. Ma ora che ci penso … Mary avrà un baby…”
Raymond Queneau, Il diario intimo di Sally Mara

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“… Era il 17 febbraio 1989…nella regione della Cerdana in mezzo al vasto rilievo dei Pirenei, una tempesta doveva aver spadroneggiato…” Peter Handke, Un’altra storia di liquefazione (Epopea del baleno)

 

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… Qualche biografo sostiene che il 17  febbraio sia la vera data di nascita di Frédéric Chopin.Ma nell’intreccio delle date ci si può perdere, si può uscire di senno…”
Roberto Cotroneo, Presto con fuoco

 

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Esteban Werfell prese la penna – che era di legno, e che usava esclusivamente per redigere il suo diario – e la intinse nel calamaio.
17 febbraio 1958, scrisse. La sua calligrafia era accurata, elegante. Al di là della finestra il cielo era diventato completamente grigio, e una pioggia sottile, invisibile, scuriva l’edera che rivestiva la casetta dei cigni. Quella visuale lo fece sospirare. Avrebbe preferito un tempo diverso. Non gli piaceva che il parco fosse deserto. Sospirò di nuovo. Poi intinse la penna e si chinò sul quaderno.

Bernardo Atxaga, Esteban Werfell, in Obabakoak, 1989, tr. it. S. Piloto di Castri, Einaudi, 1991, p. 7

Il pomeriggio del 17 febbraio, sotto un “cielo nuvoloso, bianco e grigio”, il protagonista del racconto si accinge a scrivere su un quaderno dalla copertina rigida. È il dodicesimo quaderno delle sue riflessioni e delle sue memorie, in cui ripercorre un episodio dell’adolescenza, avvenuto molti anni prima, e il cui significato ha compreso da poco. Ha a che fare con il padre, con una ragazza tedesca con la quale si è scritto per tanti anni (o almeno ha creduto di farlo),  con una lontana immaginazione e soprattutto con il corso del tempo, che – al pari della memoria –  nasconde, seleziona e rivela la rete delle cose accadute.

Dicono del libro
“Obabakoak  è un nome composto dal toponimo Obaba e dal suffisso koak, che in lingua basca sta a indicare un’appartenenza. Letteralmente Obabakoak significa le cose, le vicende, le Storie di Obaba, luogo immaginario, piccolo villaggio sperduto fra i monti, isolato e dimenticato dal resto del mondo. Sinonimo di solitudine, metafora dei Paesi Baschi. Obaba funge da mitico fondale dei racconti del libro, racconti scritti fra memoria e gioco combinatorio”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. cit.)

16 Febbraio

16 febbraio 2013

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Il dì 16 febbraio, alle sei di mattina, il signor Vorel aveva dunque aperto il suo negozio “All’Angelo verde”. Già dal giorno prima ogni cosa era al suo posto e il negozio riluceva addirittura tutto bianco e nuovo. Negli scompartimenti e nei sacchi faceva bella mostra la farina, più bianca del muro imbiancato di fresco e brillavano i ceci più gialli degli scaffali intorno, verniciati di arancione. I vicini e le vicine, quando passavano accanto, guardavano dentro con attenzione e qualcuno faceva anche un passo indietro, per vedere ancora una volta. Ma nel negozio non entrava nessuno. “Verranno, verranno”, si disse alle sette il signor Vorel 

Jan Neruda, Come il signor Vorel si affumicò la pipa, 1876, tr. it. J. Vesela Torraca in I racconti di Mala Strana, Marietti 1982, pp. 83-84

Questo racconto breve è ambientato a Praga, in un anno imprecisato intorno al 1840, ma in un giorno ben definito, il 16 febbraio, di cui vengono ripercorse tutte le ore, dalle sei del mattino, quando il signor Vorel apre il negozio di farine, fino all’arrivo della prima e unica cliente. Costruito su figure e situazioni tipiche del quartiere praghese di Mala Strana, il racconto si appoggia alla data, come a un dettaglio significativo per la narrazione: “Il dì 16 febbraio 1840 o qualche anno in più…”.

Dicono del libro
“I Racconti di Mala Strana (1878) sono il suo capolavoro: un capolavoro di umanità e di humour, un epico ritratto del famoso e incantevole quartiere praghese che diviene un concentrato del mondo, la saga picaresca e familiare di una piccola realtà borghese innalzata all’universalità del quotidiano”
(dalla terza di copertina dell’ed. Marietti, op. cit.)

 

Altre storie che accadono oggi

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“..Ivria era morta un 16 di febbraio, una giornata in cui a Gerusalemme pioveva a dirotto…”
Amos Oz, Conoscere una donna

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“… 16 febbraio..Talvolta mi accade di sentirmi in dissenso con me stesso, in una sola parola, dimezzato…”
Luca  Canali, Diario segreto di Giulio Cesare
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Il dì 16 febbraio, alle sei di mattina, il signor Vorel aveva dunque aperto il suo negozio “All’Angelo verde”. Già dal giorno prima ogni cosa era al suo posto e il negozio riluceva addirittura tutto bianco e nuovo. Negli scompartimenti e nei sacchi faceva bella mostra la farina, più bianca del muro imbiancato di fresco e brillavano i ceci più gialli degli scaffali intorno, verniciati di arancione. I vicini e le vicine, quando passavano accanto, guardavano dentro con attenzione e qualcuno faceva anche un passo indietro, per vedere ancora una volta. Ma nel negozio non entrava nessuno. “Verranno, verranno”, si disse alle sette il signor Vorel 

Jan Neruda, Come il signor Vorel si affumicò la pipa, 1876, tr. it. J. Vesela Torraca in I racconti di Mala Strana, Marietti 1982, pp. 83-84

Questo racconto breve è ambientato a Praga, in un anno imprecisato intorno al 1840, ma in un giorno ben definito, il 16 febbraio, di cui vengono ripercorse tutte le ore, dalle sei del mattino, quando il signor Vorel apre il negozio di farine, fino all’arrivo della prima e unica cliente. Costruito su figure e situazioni tipiche del quartiere praghese di Mala Strana, il racconto si appoggia alla data, come a un dettaglio significativo per la narrazione: “Il dì 16 febbraio 1840 o qualche anno in più…”.

Dicono del libro
“I Racconti di Mala Strana (1878) sono il suo capolavoro: un capolavoro di umanità e di humour, un epico ritratto del famoso e incantevole quartiere praghese che diviene un concentrato del mondo, la saga picaresca e familiare di una piccola realtà borghese innalzata all’universalità del quotidiano”
(dalla terza di copertina dell’ed. Marietti, op. cit.)