24 ore di fotografie: Erik Kessels

L’installazione di Erik Kessels, 24 Hours in Photos, materializza la porzione di un giorno della quantità di immagini presenti sui social. Inserita nella grande mostra itinerante Big Bang Data (partita da Barcellona nel 2014) è attualmente visibile a Buenos Aires. Ne parla in questo post Camilla Federica Ferrario:

Una giornata: 24 ore, 1440 minuti, 86400 secondi. Ma quante fotografie? A porsi questa domanda, nel 2011, è stato l’olandese Erik Kessels. Per dare una risposta – anziché limitarsi a un semplice calcolo astratto – ha deciso di scaricare e poi stampare in formato 10×15 tutte le foto condivise su Flickr durante l’arco di 24 ore. Ha poi riversato fisicamente queste immagini nelle sale del Foam di Amsterdam e successivamente in varie altre sedi espositive in tutto il mondo, in una mostra intitolata 24 Hours in Photos.
kessels 24h
Lo scenario che i visitatori si trovano davanti è sorprendente: montagne di fotografie alte fino al soffitto. La geniale intuizione dell’autore, infatti, consiste nel rendere tangibile ciò di cui normalmente possiamo avere solo un’idea vaga e astratta: l’enorme flusso di immagini prodotte quotidianamente da tutti in noi in un flusso ininterrotto.
Se abitualmente il problema dell’incessante proliferazione delle immagini (e degli effetti che ne derivano) può essere trascurato, questo non è più possibile dal momento in cui, grazie alla mostra ideata da Kessels, le immagini smaterializzate acquistano invece corpo, presentandosi in tutta la loro minacciosa (dirompente, inarrestabile) presenza fisica.
Come ha osservato Michele Smargiassi, l’evidente esaurimento dello spazio fisico necessario a contenere tutte queste immagini rende manifesto il più grave problema dell’esaurimento dello spazio mentale in grado di registrarle.
Sembra inoltre che la funzione primaria della fotografia, trattenere ciò che inevitabilmente sfugge, salvare un momento dall’inesorabile azione dissolvente del tempo, stia venendo meno, dal momento che la nostra memoria è sepolta da cumuli d’immagini che non abbiamo neanche più il tempo di guardare.
Questo accade perché nella società contemporanea il momento della registrazione e successiva condivisione delle esperienze vissute sta diventando via via più importante delle esperienze stesse. Se l’artista giapponese On Kawara, intorno agli anni Settanta, per affermare di essere ancora vivo non poteva che inviare dei telegrammi ai suoi amici, oggi, in un mondo in cui tutto è più rapido, e il tempo stesso sembra scorrere più velocemente, per affermare la propria presenza nel mondo è sufficiente condividere una propria foto su internet, recepita all’istante da ttutti i propri amici contemporaneamente, senza neanche più dover considerare l’intervallo tra invio e ricezione. Tutti i tempi si sono annullati. Tutto è immediato, e il processo è talmente semplice che il risultato non può non essere un eccesso di immagini. Siamo ormai sepolti, consapevolmente o no, sotto una valanga di fotografie: Erik Kessels lo ha saputo mostrare in maniera geniale con 24 Hours in Photos.
Quasi rispondendo alla sua stessa opera, in altre occasioni Kessels si è presentato come figura eroica in grado di sfidare questa valanga, di farsi carico dell’arduo compito di selezionare da essa solo alcune fotografie allo scopo di evitare che, come nella sua installazione, esse ci sommergano.
Da tempo, infatti, si dedica a raccogliere fotografie “usate” nei mercatini delle pulci e su internet, riproponendole poi in mostre e pubblicazioni, caratterizzate sempre da un approccio ironico e provocatorio. Le fotografie che sceglie sono fotografie anonime, spesso prodotte in ambito familiare e colme dei classici errori fotografici. In tutte le sue opere Kessels ricerca volontariamente il banale, l’imperfetto, il dissonante, come reazione alla perfezione che domina non solo nelle immagini pubblicitarie (di cui egli si occupa quotidianamente come direttore creativo di un’agenzia di comunicazione), ma anche nelle fotografie che ogni giorno vengono condivise in rete.
Queste, infatti, sembrano ormai voler essere più un mezzo di auto-propaganda che un ricordo personale. Gli errori e le imperfezioni, invece, mostrano come un tempo le foto fossero dei ricordi da custodire gelosamente, piuttosto che semplici momenti da condividere e poi subito dimenticare. In un certo senso, quindi, quello che rende affascinanti queste fotografie è la traccia del trascorrere del tempo, che conservano, ad esempio, nelle macchie, nella muffa, nei vuoti lasciati dal ritaglio di persone non più gradite. Le vecchie foto da album di famiglia non sono però le uniche ad essere raccolte da Kessels, che spesso si concentra anche su bizzarre immagini trovate in internet, capaci di sortire effetti di grande ironia.
Se in 24 Hours in Photos l’artista aveva scelto di non selezionare le immagini, limitandosi semplicemente a coglierne l’enorme e monotono flusso, nel resto della sua attività ha invece saputo mostrare come qualcosa di buono possa ancora nascondersi anche dove meno ci si aspetterebbe, quasi a voler intendere che, nonostante siamo ormai sommersi dalle immagini, non è detto che, in fondo, naufragar non possa esserci dolce in questo mare.

Camilla Federica Ferrario

Un film lungo 24 ore: “Psycho” per l’artista Douglas Gordon e lo scrittore DeLillo

Due date in Punto omega di Don DeLillo di Antonella Sbrilli
Il soggiorno del giovane regista americano Jim Finley nella casa nel deserto di Richard Elster, intellettuale e consulente bellico, sul quale vuole girare un film; l’arrivo e  l’improvvisa scomparsa della figlia di Elster, la giovane Jessica, che ha una relazione con un uomo che forse si chiama Dennis; le intense conversazioni sul tempo e sulla coscienza, sono il nucleo della vicenda narrata nel libro Punto omega di Don DeLillo (2010, tr. it. F. Aceto, Einaudi).
Questo nucleo è racchiuso fra due brevi capitoli, dal titolo Anonimato e Anonimato 2, datati il 3 e il 4 settembre e ambientati in una sala del museo (il Moma di New York), in cui è esposta un’opera dell’artista scozzese Douglas Gordon, realizzata nel 1993 e citata in chiusura del libro. L’opera è 24 Hour Psycho: “non era un film, ma un’opera concettuale. Il vecchio film di Hitchcock proiettato così lentamente da durare ventiquattro ore”.
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