27 Aprile | 27 Avril

27 aprile 2024

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Temps – lenteur.
– Après… vous ne savez pas…
– Non… rien… vous non plus…
– C’est vrai, rien.
– Et vous?
– Moi je ne savais rien avant cet instant.
Ils se tournent vers la piazza Navona. Elle dit:
– Moi, je n’ai 
jamais su. On a filmé les fontaines le 27 avril 1982 à onze heures du soir…

Marguerite Duras, Écrire, Gallimard, 1993

Pausa, lentezza.
– Dopo… non sa…
– No… niente…. lei neppure…
– E lei?
– Io non sapevo niente prima di questo istante.
Si voltano verso piazza Navona e lei dice:
– Io non ho mai saputo. Abbiamo filmato le fontane il 27 aprile 1982 alle undici di sera…

Marguerite Duras, Écrire, 1993, tr. it. L. Prato Caruso, Feltrinelli, Milano 1994, p. 74

 

Dicono del libro

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4 Aprile | April 4th

4 aprile 2024

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The thing that he was about to do was to open a diary. This was not illegal (nothing was illegal, since there were no longer any laws), but if detected it was reasonably certain that it would be punished by death, or at least a forced-labor camp. Winston fitted a nib into the pen holder and sucked it to get the grease off. The pen was an archaic instrument, seldom used even for signatures, and he had procured one, furtively and with some difficulty, simply because of a feeling that the beautiful creamy paper deserved to be written on with a real nib instead of being scratched with an ink pencil. Actually he was not used to writing by hand. Apart from very short notes, it was usual to dictate everything into the speakwrite, which was of course impossible for his present purpose. He dipped the pen into the ink and then faltered for just a second. A tremor had gone through his bowels. To mark the paper was the decisive act. In small clumsy letters he wrote:  April 4th, 1984

 

George Orwell, 1984, 1949

La cosa che si disponeva a fare consisteva nell’incominciare un diario. Ciò non era illegale (nulla era illegale, poiché non c’erano più leggi); ma se comunque fosse stato scoperto, non c’era dubbio che sarebbe stato condannato a morte, o a venticinque anni almeno di lavori forzati. Winston infilò un pennino nella cannuccia e lo succhiò, come s’usa, per facilitare la presa dell’inchiostro. La penna era uno strumento antiquato, che si adoperava assai di rado, perfino per le firme importanti, e lui se n’era procurata una di nascosto e non senza difficoltà, solo perché sentiva che quei bei fogli color crema meritavano che ci si scrivesse sopra con un vero pennino, anziché d’essere grattati con una delle tante matite a inchiostro. Veramente non aveva l’abitudine di scrivere a mano. Con l’eccezione di qualche breve appunto, di solito dettava ogni cosa al dittografo, un apparecchio che registrava e trascriveva tutto ciò che si diceva in un microfono, e che era assurdo pensar di adoperare nella presente circostanza. Intinse la penna nel calamaio e quindi esitò un istante. Ebbe un tremito fin nelle budella. Segnare la carta sarebbe stato l’atto decisivo. Con certe piccole goffe cifre, scrisse: “4 aprile 1984”

George Orwell, 1984, 1949, tr. it. G. Baldini, Mondadori 1989, pp.10-11

 È una fresca e limpida giornata di aprile quando Winston Smith comincia a scrivere il suo diario, su un quaderno ingiallito comprato da un robivecchi. È il 4 aprile 1984, anche se dell’anno non è sicuro, perché, nel mondo dominato dal Grande Fratello, non “era possibile buttar giù una qualsiasi data se non con l’approssimazione d’un anno o due”. Ha deciso di scrivere il diario grazie al fatto che il suo appartamento ha una rientranza nel muro, dalla quale è possibile rimanere fuori dal campo visivo del teleschermo che controlla l’interno della casa. Addetto alla correzione delle notizie  a stampa per renderle conformi al regime, Winston non si adatta del tutto alle regole del Grande Fratello e il diario è la prima forma di autonomia che egli manifesta.  

 

Dicono del libro

Dicono del libro
“1984. Londra. Il mondo è diviso in due iperstati simili e in guerra fra loro. In Oceania la società è governata secondo i principi del Socing, il Socialismo Inglese, dal Grande Fratello, che tutto vede e tutto sa. I suoi occhi sono le telecamere che spiano di continuo nelle case, il suo braccio è la psicopolizia che interviene al minimo sospetto. Tutto è permesso, non c’è legge scritta. Tranne pensare, se non secondo il Socing. Tranne amare, se non per riprodursi. Tranne divertirsi, se non con i programmi TV di propaganda. Dal loro rifugio, in uno scenario desolante da medioevo postnucleare, l’ultimo uomo in Europa (questo il titolo che avrebbe preferito l’autore) e la sua compagna lottano disperatamente per conservare un granello di umanità”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)

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12 Novembre | 12 Novembre

12 novembre 2023

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Lorsqu’il eut derrière lui refermé la porte de sa chambre, il constata qu’il n’y avait là que lui-même. Il essaya de détruire sa solitude en rangeant ses objets de toilette, ses vêtements, ses livres. Il tenta de s’exalter en pensant qu’il logeait rue de Caboul et que cette ville est la capitale de l’Afghanistan, mais sans y réussir. Il entendait tout le temps fonctionner la chasse d’eau. Il installa une petite table sous la lampe, prit un cahier tout neuf et s’assit devant la page blanche qu’il égratigna de son écriture. Vincent Tuquedenne savait que ce jour était un grand jour et qu’il inaugurait une nouvelle période de sa vie. Il lui fallait donc un cahier neuf pour son journal. Il inscrivit tout simplement sur la première feuille Journal depuis le 12 novembre 1920

Raymond Queneau, Les derniers jours, 1936

Quando ebbe richiuso la porta della stanza dietro di sé, si rese conto che lì non c’era altri che lui. Cercò di distruggere la sua solitudine mettendo in ordine gli oggetti da toeletta, i vestiti, i libri. Tentò di entusiasmarsi pensando che abitava in Rue de Caboul e che questa città è la capitale dell’Afghanistan, ma senza riuscirvi. Sentiva lo sciacquone scaricare di continuo. Collocò un tavolino sotto la lampada, prese un quaderno nuovo di zecca e si sedette di fronte alla pagina bianca che graffiò con la sua scrittura. Vincent Tuquedenne sapeva che quel giorno era un gran giorno e che inaugurava una nuova fase della sua vita. Perciò gli serviva per il suo diario un quaderno nuovo. Sul primo foglio annotò, molto semplicemente, Diario del 12 novembre 1920

Raymond Queneau, Gli ultimi giorni, 1936, tr. it. F. Bergamasco, ed. cons. Newton Compton, 2012, p. 42

A partire da ottobre, un ottobre del 1920 che, per colpa della prima guerra mondiale, non è più come prima (“le granate hanno mandato le stagioni a gambe all’aria”) compaiono via via i protagonisti del romanzo Gli ultimi giorni. Prima il signor Brabbant, poi il vecchio  professore di storia Tolut, che ritroviamo nel salotto di casa Brennuire qualche giorno dopo, l’undici di novembre (“due anni e due giorni dopo che Guillaume Apollinaire è morto”),  insieme al giovane studente Rohel. Il giorno successivo, il dodici novembre, arriva a Parigi da Le Havre un altro studente, Vincent Tuquedenne, per iscriversi al primo anno del corso di Lettere alla Sorbona. Dopo aver trascorso la giornata camminando, torna nella modesta stanza dell’albergo vicino alla stazione Saint-Lazare e si accinge a raccontare quella prima giornata. Una poesia Novembre 1920 e un tentativo di Diario del 12 novembre 1920 sono il risultato del suo primo impatto con Parigi, dove si muovono, insieme a lui e alle stagioni che ciclicamente ritornano, diversi destini. 

La citazione letta da Stefano Bollani (Dimmi Quando, DeeJay TV, 12.11.2014)

Dicono del libro
 

Altre storie che accadono oggi

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“… Il giovedì dodici novembre, il commendatore Visanio e la signora Trigliona celebrarono in gran pompa il battesimo del piccolo Nivasio…”
Alberto Savinio, Infanzia di Nivasio Dolcemare

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“… Quando Fernand de Beaumont si suicidò, il dodici novembre del 1935, Bartlebooth era nel Mediterraneo…”
Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso

Calendiario di Maria Teresa Carbone

“aperto dopo il sogno l’occhio
scorre in sovrimpressione
the end la coda della notte
dissolvenza
domani è un altro giorno
è oggi”

Sembra scritto apposta per diconodioggi questo attacco, che viene dal libro di Maria Teresa Carbone, Calendiario, uscito nell’autunno del 2020 per i tipi di Nino Aragno editore. Sembra scritto apposta per chi sente fisicamente e mentalmente il tempo, per chi – in mezzo a qualunque situazione, evento bello o brutto, stravolgimento o noia – non può fare a meno di notare in che punto del tempo si trova, percependo le variazioni minime delle sue porzioni. 
Nello scrivere il titolo, il correttore suggerisce calendario e bisogna inserire “a mano” la i, per mescolare quello che Szymborska descriveva come il perfetto e puntuale best-seller di ogni inizio d’anno con il diario, e ottenere così la parola voluta da Maria Teresa Carbone per il suo libro.
Giornalista (il manifesto, pagina99, alfabeta2), autrice (di recente 111 cani e le loro strane storie), traduttrice (di recente Nella casa dell’interprete, di Ngu˜gı˜ wa Thiong’o), attiva nel campo dell’educazione alla lettura (associazione Monteverdelegge, Forum del libro) e alla visione, Maria Teresa Carbone raccoglie nel suo Calendiario testi che vengono da una lunga stratificazione verticale (Calendiario 2004-2020) e dall’osservazione orizzontale della torta e del corpo del tempo (Cinque quarti. Esercizi di cosmogonia quotidiana). I versi riportati all’inizio provengono dal Terzo quarto: del tempo (p. 54 e ss.)
Chi conosce le fotografie che mtcarbone pubblica su Instagram (anche esse esercizi quotidiani) può percepire una matrice comune con le poesie: la scelta di alcuni soggetti, il concatenarsi di interni e di esterni, il sentirsi osservatrice che viene osservata (o che immagina di poterlo essere nello stesso istante). Se nelle poesie queste situazioni innescano una ricerca di parole selezionate e impreviste, nelle fotografie si dispiegano in layer appena sovrapposti, in riflessi che indicano presenze contemporanee o anacronismi, spesso in chiare visioni illuminate.
E per restare nel lessico del tempo,  il libro – che va davvero letto da chi è coinvolto nella cronomania – esce nella collana “i domani”. 

La collana è a cura di Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno (che in quarta di copertina incornicia con una sua lettura il Calendiario)
Qui il sito della casa editrice
La foto in apertura viene dall’account Instagram di @mtcarbone 

(as)

The Library of Encoded Time di Michele Ciacciofera

Quando l’artista Michele Ciacciofera espose alla Biennale del 2017, sulla rubrica Alfagiochi della rivista “alfabeta2” giocammo con le lettere del suo nome e uno degli anagrammi che ne risultarono fu “E lì faccio ceramiche”, trovato da Viola Fiore. Si tratta di un anagramma felice, poiché fa emergere dal nome dell’artista la materia a cui egli si dedica da tempo con una passione da conoscitore, da collezionista e anche da studioso. 
In una interessante conversazione con Irene Biolchini, Ciacciofera – che è nato in Sardegna e vive fra la Sicilia e Parigi – racconta infatti l’importanza della ceramica nel suo percorso artistico, che è tutt’uno con la sua visione della cultura: un viaggio nella lunga durata, dalla natura alla storia, attraverso fossili e reperti, materie prime e tecniche di lavorazione arcaiche, segni, decorazioni e grafie. 
Una sintesi formidabile di questi caratteri della sua ricerca si trova  nella mostra aperta fino a marzo 2020 al Museo Marino Marini di Firenze, a cura di Angelo Crespi, dal titolo  The Library of Encoded Time.
I concetti di biblioteca, di codici e di tempo sono riuniti in una installazione fatta di mattoni che presentano – come tavolette antiche – tracce di scrittura, glifi, linee. Questi “libri che interrogano il tempo” sono il risultato di un lavoro effettuato sui mattoni rinvenuti durante la ristrutturazione del chiostro adiacente alla ex chiesa di San Pancrazio, dove il museo Marino Marini ha sede.
Come si legge nella presentazione della mostra, la procedura che porta alla realizzazione passa per diverse fasi: una prima cottura dei mattoni che, come in “rituale di purificazione”, elimina la calce; la scrittura “quasi automatica” sulla superficie, su cui linee e segni si intersecano e si stratificano in un magma temporale; infine la seconda cottura che fissa indelebilmente smalti e colori sulla superficie “così da far presagire il riutilizzo del mattone per una futura costruzione, una biblioteca, basata sui segni che rappresentano la memoria”.

La mostra The Library of Encoded Time è aperta fino al 2 marzo 2020 al Museo Marino Marini di Firenze.

Giorni e ore di Marisa Volpi

Il tempo va avanti e niente come un diario segue l’accumularsi successivo dei giorni, una data dopo l’altra. Niente però come un diario può anche cogliere – insieme alla successione – le anomalie dello scorrere del tempo, le ripetizioni e i ritorni, l’emergere imprevedibile dei ricordi, il presente inspiegabile dei sogni, la forza sospensiva dello sguardo. È quello che fa il lunghissimo diario, scritto su decine di quaderni scolastici, da Marisa Volpi, storica dell’arte, critica e curatrice di mostre, insegnante universitaria e scrittrice, scomparsa il 13 maggio 2015 (era nata a Macerata nel 1928). Sono pile di quaderni che risalgono il tempo, dall’ultimo presente fino agli anni Quaranta, riempiti di annotazioni scritte di getto o in differita, che parlano di tutto: incontri, letture, viaggi, relazioni, sogni, “cose viste”, tutti i giorni di una vita raccontata contemporaneamente durante, dopo, a volte prima che accada. Queste pile di quaderni, con le loro migliaia di pagine (in parte pubblicate in riviste e poi nel volume Le ore, i giorni. Diari 1978-2007, Medusa Edizioni 2010), sono uno dei lasciti preziosi di Marisa Volpi.
Immagine 1Nata professionalmente come storica dell’arte, esperta sia della grande pittura classicista del Seicento e Settecento, sia dell’avanguardia novecentesca; sostenitrice degli artisti americani ed europei dell’Informale, del Pop, del concettuale, Marisa Volpi dal 1978 inizia a scrivere racconti, pubblicandoli su riviste e  in raccolte. Con una di queste, Il Maestro della betulla (Vallecchi), nel 1986 vince il premio Viareggio. I racconti si distinguono fra quelli di pura finzione e ambientazione attuale e quelli ispirati alle vicende biografiche e alle opere di artisti e artiste (soprattutto romantici, simbolisti, impressionisti) fra cui vengono in mente Monet e Manet, la pittrice Berthe Morisot, lo svizzero Arnold Böcklin, i Preraffaelliti inglesi.
Il gioco del tempo, in questi racconti, si svolge su tanti piani interpolati: il presente storico dei protagonisti, il  presente di lei, la scrittrice che racconta, il  passato dei fatti avvenuti e di nuovo il presente sempre rinnovato delle opere d’arte, osservate attraverso la scrittura.
Il tempo sta lì, intorno e dentro i desideri, gli amori e le perdite, le umiliazioni, i trionfi dei personaggi e della narratrice; il tempo è il quesito invisibile da cui comincia e ricomincia ogni pagina, dove non è raro incontrare il nome di Sant’Agostino, con i brani dalle Confessioni sulla consapevolezza indicibile del tempo, e quello di Emily Dickinson, la poetessa statunitense che ha accostato nei suoi versi  l’attimo e l’eternità.
Anche nel romanzo autobiografico La casa di via Tolmino (Garzanti 1993), in cui Marisa Volpi ricostruisce gli anni di formazione, fra la città natale di Macerata, Roma, in cui la famiglia si trasferisce, Firenze, dove va a studiare e diviene amica di Carla Lonzi, i tanti luoghi dei viaggi, l’andirivieni temporale è continuo, con sbalzi – nel giro di pochi capoversi – dalla “fine degli anni Quaranta” a “un giorno d’inverno”, per poi tornare indietro a “Sette anni prima”. E iperboli, come “Era in via Tolmino, forse un secolo fa”.
Anche nei saggi di storia dell’arte, anche in quelli più fedeli a un formato storico, la capacità di evocare diversi affacci temporali dà una dimensione narrativa alla lettura storico-artistica, che la rende inconfondibile e a suo modo esemplare. Ed entrambe le attività di Marisa Volpi, quella di storica dell’arte e quella di narratrice, si appoggiano alla stesura costante dei diari, che porta con sé, e affina, una competenza nei fenomeni del tempo. Il tempo percepito internamente, il tempo atmosferico, il tempo misurato da calendari e orologi, convergono nella casa romana della scrittrice, nella sua camera che, come “la cabina di lusso di un Concorde”, vola “verso ovest”, nel tempo che arriva e che passa,  e che si ripete, anche quando pare interrompersi per sempre.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Il sito www.marisavolpi.it con le notizie delle iniziative in corso 

 

Dieci minuti

Descrivere la stessa porzione di tempo (il 27 settembre della scrittrice Christa Wolf) per tanti anni successivi, addirittura quaranta; fotografare o riprendere la stessa porzione di spazio ogni giorno per un anno (i cieli dell’artista Luigi Ghirri, lo studio di Bruce Nauman); analizzare un luogo sostandovi tre giorni successivi (il Tentativo di Georges Perec); chiedere a tante persone di riprendere un giorno solo: il 24 luglio 2010 dell’impresa collettiva Life in a Day, prodotta da Ridley Scott; impresa replicata in diverse nazioni (per l’Italia, la data scelta è il prossimo 26 ottobre 2013, col titolo Italy in a Day e la regia di Gabriele Salvatores).
Nel 2001 l’antologia Pomeriggio/Afternoon – curata dalla rivista “Storie” – ha scelto di concentrare l’attenzione su dieci minuti di un giorno di quell’anno, il 19 aprile, invitando 140 scrittori, cineasti, musicisti a fissarli in simultanea, in qualunque posto si trovassero. Basata sull’idea del Momentismo, “una forma di scrittura contingente, capace di suggellare l’estemporaneità e la sintesi”, la scelta dei dieci minuti /ten minutes è diventata da allora un metodo, un approccio e una cornice per altre iniziative narrative, appoggiate sul tempo breve e sulla pluralità degli sguardi. (a.s.)
Pomeriggio / Afternoon. Dieci minuti alle sei, a cura di G. Bassi, Leconte, 2001