14 Aprile

14 aprile 2024

 

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Ormai, in quella mattina del mercoledì 14 di aprile dell’anno del Signore 1204, ovvero seimilasettecentododici dall’inizio del mondo, come si usava calcolare a Bisanzio, da due giorni i barbari si erano definitivamente impossessati di Costantinopoli. L’esercito bizantino così scintillante di armature e di scudi e di elmi quando era in parata, e la guardia imperiale dei mercenari inglesi e danesi, armati delle loro terribili bipenni, che ancora il venerdì avevano tenuto testa ai nemici battendosi con ardimento, avevano ceduto il lunedì quando i nemici avevano infine violato le mura. Era stata una vittoria così improvvisa che i vincitori stessi si erano arrestati timorosi, verso sera, attendendosi una riscossa

Umberto Eco, Baudolino, 2000, Bompiani

 

Dicono del libro
“In quella zona del basso Piemonte dove, anni dopo, sorgerà Alessandria, Baudolino, un piccolo contadino fantasioso e bugiardo, conquista Federico Barbarossa e ne diventa figlio adottivo. Baudolino affabula e inventa ma, quasi per miracolo, tutto quello che immagina, produce Storia. Così, tra le altre cose, costruisce la mitica lettera del Prete Gianni, che prometteva all’Occidente un regno favoloso, nel lontano Oriente, governato da un re cristiano. Avventura picaresca, romanzo storico in cui emergono in germe i problemi dell’Italia contemporanea, storia di un delitto impossibile, racconto fantastico, teatro di invenzioni linguistiche esilaranti, questo libro celebra la forza del mito e dell’utopia” (dalla scheda del libro nel sito libreriauniversitaria.it)

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22 Ottobre

22 ottobre 2023

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Il ventidue ottobre, all’alba, Artemisia partì. La verità non sta nella data, ma nelle parole eternamente eguali che la fissarono. Ma una data occorre: come occorse, per far balzare il cuore di una giovane che non si è mai mossa di casa e ci ha patito vergogna. I facchini trasportarono le casse e un angolo della più pesante sbreccò il muro della scala. I vicini stupirono. Giambattista Stiattesi, suocero inonorato, alzò le mani al cielo per molti giorni susseguenti. Ma intanto la biondina partiva, seduta fra suo padre e un grosso frate romagnolo che tornava, lo disse subito, a Bologna. Dopo una notte passata sulla seggiola, vestita, l’immobilità precaria di quel primo istante di viaggio le dava una vertigine di eternità

Anna Banti, Artemisia, 1947, Bompiani, 1994, p. 37

Artemisia, la figlia del pittore toscano Orazio Gentileschi vive a Roma con i fratelli, senza madre, disegnando e dipingendo dentro casa. Molto giovane, ha subito uno stupro da parte di un uomo sposato, anche lui pittore, che l’ha lasciata disonorata e sempre più concentrata sulla  pittura. Sono i primi anni del Seicento. Il padre Orazio ha deciso di partire per Firenze e di portare con sé Artemisia,  a patto che prima lei si sposi con un vicino. Il giorno della partenza è il 22 ottobre, una data memorabile per una ragazza che “non si è mai mossa di casa” e per la quale il viaggio – accanto al padre molto temuto e molto amato – è una pausa di libertà dai vincoli del tempo e della storia.

Dicono del libro

 

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2 Gennaio

2 gennaio 2023

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2 gennaio 1922. Sui fogli posati sopra il tavolo, al posto dei soliti bozzetti, ho scritto con una grafia che stento a riconoscere: “Sono le sei del mattino e Diego non è qui”. Con stupore osservo lo scarabocchio sul foglio bianco che non mi azzarderei mai a usare se non per un disegno: “Sono le otto del mattino, non sento Diego far rumore, andare in bagno, percorrere il tratto dall’entrata sino alla finestra e guardare il cielo con un movimento lento e grave come era sua abitudine fare, credo che diventerò pazza”. (…) Le ultime parole sono tracciate con violenza, strappano quasi il foglio e piango davanti all’ingenuità del mio sfogo. Quando l’ho scritto? Ieri? L’altro ieri? La sera scorsa? Quattro sere fa? Non so, non ricordo

Elena Poniatowska, Caro Diego ti abbraccia Quiela, 1978, tr. it. S. Zatta, Giunti, Firenze, 1992, p.44

Dicono del libro

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“Boyhood”, o del Tempo, di Matteo Piccioni

Un film girato in dodici diverse sessioni, una volta all’anno, tra il 2002 e il 2013, dodici anni contratti in 165 minuti: Matteo Piccioni racconta “Boyhood”, il film di Richard Linklater sul progredire del tempo.

Boyhood – del regista texano Richard Linklater (1960) – è stato il caso cinematografico del 2014, ancora protagonista nel 2015 con il conferimento dell’Oscar alla migliore attrice non protagonista a Patricia Arquette, il più noto di una serie di premi di cui il film ha fatto incetta dalla sua uscita. Si tratta di una sorta di romanzo di formazione che ha come protagonista il piccolo Mason (Ellar Coltrane), il racconto della sua infanzia e prima adolescenza, nel quale, in verità, non accadono particolari avvenimenti, non si vivono sensazionali avventure, non si ricevono lezioni di vita clamorose pronte a sconvolgere o dirottare la sua crescita forse un poco movimentata, certo, per via delle scelte poco oculate in fatto di vita sentimentale di sua madre (Patricia Arquette); nella pellicola, in sostanza, non accade niente se non il progredire, giorno dopo giorno, dell’esistenza del protagonista lungo l’arco di dodici anni, periodo che costituisce il ciclo scolastico statunitense, tra la prima elementare e il primo anno di college. Questo e nient’altro è la trama, l’ossatura di Boyhood.

BoyhoodCosa dunque rende particolare, addirittura un capolavoro, questo film che riduce l’azione alla registrazione di eventi feriali e quotidiani, se si vuole insignificanti, di lunghi dialoghi (soprattutto tra Mason e suo padre [Ethan Hawke], che vive altrove e si è ricostruito una famiglia), laddove si richiede al cinema viceversa il racconto di una vita d’eccezione alternativa allo svolgere piatto dell’esistenza? L’unicità del film sta nel fatto che i dodici anni della finzione corrispondono esattamente ai dodici anni vissuti dai protagonisti, dagli attori, da noi stessi, poiché esso è stato girato in dodici diverse sessioni, una volta all’anno, tra il 2002 e il 2013; questo ha permesso a Linklater di presentare in un unico film di 165 minuti le trasformazioni, i mutamenti, fisici, oggettivi, operati dal tempo, non solo sugli attori e dunque sui personaggi – loro crescono, maturano, invecchiano realmente – ma anche sulla storia recente del primo decennio del XXI secolo. Inoltre, come i personaggi e il loro trasformarsi negli anni, anche gli oggetti, le novità editoriali, musicali, tecnologiche (dall’ipod all’iphone, l’avvento dei social), gli avvenimenti storici e sociali scelti attentamente nel film, diventano dispositivi temporali che servono a collocare temporalmente le scene: quella canzone, quell’apparecchio, quell’evento non sono altro, se così si può dire, che “date” reificate in oggetti e fatti che assumono un chiaro valore sineddotico.

L’aspetto temporale che sostanzia l’intero lavoro è del resto sottolineato nel titolo previsto per il film, 12 Years, poi modificato in seguito all’uscita di 12 Years a Slave di Steve McQueen (2013). Nondimeno, Boyhood è un film sul cambiare fisicamente e mentalmente, sul crescere e sul maturare, un film che concettualizza e allo stesso tempo concretizza visivamente l’idea che l’esistere non è altro che uno sviluppo di azioni nel tempo e che, dunque, tempo e vita si trovano a coincidere. In questa prospettiva appaiono centrali i dialoghi, che caratterizzano questo come gli altri lavori del regista americano – che prevalgono e solo grazie ai quali la storia trova il suo svolgimento –, poiché tra un aneddoto apparentemente banale e l’altro vi è sempre una riflessione esistenziale sull’essere, il crescere, il vivere.

L’interesse della vita umana e del suo reale svolgersi, nonché il rapporto tra tempo della finzione, tempo della fruizione e tempo della realtà ha caratterizzato sin dagli esordi indipendenti il cinema di Linklater (Slacker, 1991; Dazed and Confused, 1993), in particolare nel lavoro che precede – ma che in realtà è in parte contemporaneo – Boyhood, vale a dire la trilogia dei Before: Before Sunshine (1995), Before Sunset (2004), Before Midnight (2013), dove di nuovo si assiste alla trasformazione reale dei personaggi per effetto del tempo reale, ma che, come un trittico, è scandito in tre pannelli, oppure come in una pièce teatrale in tre atti, o, ancora, come in un progress di Hogarth, in tre scene. In Boyhood, il trittico invece confluisce in unico affresco epico dove lo scorrere degli anni si dispiega senza soluzione di continuità nelle tre ore di film.

Se, dunque, tempo e vita coincidono in questo caso per mezzo della scelta di dilatare l’effettiva lavorazione del film, poi rimanipolato in postproduzione affinché tutto avvenga in maniera fluida sotto gli occhi dello spettatore, in Before sunset, il regista compie un ulteriore riflessione sul rapporto tra tempo reale e tempo della finzione. Il film, infatti, a differenza degli altri che raccontano vicende di solito racchiuse nell’arco delle 24 ore o poco meno, ma che in ogni caso necessita di essere contratto, si caratterizza per una pressoché totale sovrapposizione tra i due tempi. I 77 minuti del film rappresentano l’effettiva durata del periodo in cui i due protagonisti (Ethan Hawke e Julie Delpy) trascorrono insieme dopo essersi ritrovati casualmente a Parigi; il film si snoda attraverso pochi e lunghi piani sequenza, in cui la coppia non fa altro che parlare di ciò che è accaduto nei nove anni che sono trascorsi dal loro primo e ultimo incontro, delle proprie vite private e professionali, delle proprie passioni, dei rispettivi modi di pensare e vivere la vita, racconto riportato veridicamente con le sue pause, l’attesa e la consumazione in un caffè, il tempo necessario a percorrere a piedi il tratto di strada tra l’Île de la Cité e la sponda opposta della Senna, oppure quello di un breve tratto in bateau.
(Matteo Piccioni @Matteo1Piccioni)

 

 

 

 

 

 

Literary clock

Un esperimento di ricerca collaborativa sul tempo, precisamente sulle 24 ore che compongono un giorno e una notte: è Literary clock, il progetto lanciato dal quotidiano inglese The Guardian a tutti i lettori interessati alle descrizioni del tempo nella letteratura.

Wizard of Id by Parker & Hart

Wizard of Id by Parker & Hart

Il progetto è ispirato all’opera dell’artista Christian Marclay The Clock, un film-collage che monta frammenti di pellicole in cui sono visibili orologi che segnano le diverse ore della giornata: un film-installazione che dura 24 ore e viene proiettato in tempo-reale, in modo che le ore degli spettatori e quelle della finzione coincidano. I curatori di Literary clock hanno iniziato nel 2011 a raccogliere citazioni che riguardano ciascuno dei 1440 minuti di un giorno e una notte. Con l’aiuto dei lettori, la gran parte dell’impresa è stata svolta e Literary clock è stato presentato all’Edinburgh International Book Festival del 2013. I minuti mancanti, i più difficili, quelli delle ore notturne, sono l’oggetto della caccia al tesoro proposta dal Guardian in questi giorni. Diconodioggi.it, che lavora sulla scala del giorno e non del del minuto, accetta volentieri la sfida e la rilancia ai suoi lettori.

Il link a Literaryclock. A constant ticking clock made of literary quotations, con le spiegazioni del modo in cui è stato completato (ultima visita gennaio 2022, grazie a un tweet di @larsen)
a.s.