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Tess era così immersa in questo sogno fantastico che sembrava non accorgersi che la stagione progrediva, che i giorni s’erano allungati, che mancava poco al sei di aprile, a cui avrebbe fatto seguito l’antica festa dell’Annunciazione, termine del suo contratto di lavoro in quel luogo.
Ma poco prima della scadenza trimestrale accadde qualcosa che costrinse Tess a pensare a ben altre faccende
Thomas Hardy, Tess dei d’Urberville, 1891, tr. it. G. Aldi Pompili, Rizzoli 1993, pp. 402
Prima che anche in Inghilterra – nel Settecento – entrasse in vigore il calendario gregoriano, il giorno dell’Annunciazione (25 marzo) era celebrato il 6 aprile. Era una data importante, che segnava le scadenze dei contratti di lavoro nelle campagne. E anche dopo il cambio di calendario, la data dell’antica festa dell’Annunciazione rimase quella dei traslochi degli agricoltori da una fattoria all’altra. La vicenda della giovane Tess è a una nuova svolta: il padre è appena morto e la sua famiglia deve lasciare la casa; sta per incontrare ancora Alec d’Urberville, il falso parente che l’ha messa incinta di un bambino (poi morto), incrinando la sua reputazione e rovinando il suo matrimonio con Angel Clare, che l’aveva sposata senza conoscere quell’episodio. Il 6 aprile, giornata di vento pungente, Tess parte con il carro in cerca di un alloggio e incontro alle nuove svolte del suo destino.
Dicono del libro
Dicono del libro
“Quando leggiamo ‘Tess dei d’Urberville’, ci sembra che i tesori di immaginazione visionaria, che da secoli si erano annidati in ogni angolo della campagna inglese, si ridestino clamorosamente. La solenne fantasia architettonica, che aveva creato i pilastri e gli altari di Stonehenge: la fantasia superstiziosa, che serpeggiava nelle foreste druidiche; l’ebbrezza alcoolica, che scintillava sulle scene elisabettiane e nelle birrerie del Wessex; le avventure del romanzo settecentesco, da Defoe a richardson, le più fosche invenzioni romantiche – tutto quanto era esistito di meravigliosamente e assurdamente anglosassone si dà convegno in queste brughiere, in questi campi funestati dall’inverno o intiepiditi dalla dolcezza dell’autunno”
(Pietro Citati, dall’introduzione all’ed. Rizzoli, op. cit.)
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La cosa che si disponeva a fare consisteva nell’incominciare un diario. Ciò non era illegale (nulla era illegale, poiché non c’erano più leggi); ma se comunque fosse stato scoperto, non c’era dubbio che sarebbe stato condannato a morte, o a venticinque anni almeno di lavori forzati. Winston infilò un pennino nella cannuccia e lo succhiò, come s’usa, per facilitare la presa dell’inchiostro. La penna era uno strumento antiquato, che si adoperava assai di rado, perfino per le firme importanti, e lui se n’era procurata una di nascosto e non senza difficoltà, solo perché sentiva che quei bei fogli color crema meritavano che ci si scrivesse sopra con un vero pennino, anziché d’essere grattati con una delle tante matite a inchiostro. Veramente non aveva l’abitudine di scrivere a mano. Con l’eccezione di qualche breve appunto, di solito dettava ogni cosa al dittografo, un apparecchio che registrava e trascriveva tutto ciò che si diceva in un microfono, e che era assurdo pensar di adoperare nella presente circostanza. Intinse la penna nel calamaio e quindi esitò un istante. Ebbe un tremito fin nelle budella. Segnare la carta sarebbe stato l’atto decisivo. Con certe piccole goffe cifre, scrisse: “4 aprile 1984”
George Orwell, 1984, 1949, tr. it. G. Baldini, Mondadori 1989, pp.10-11
È una fresca e limpida giornata di aprile quando Winston Smith comincia a scrivere il suo diario, su un quaderno ingiallito comprato da un robivecchi. È il 4 aprile 1984, anche se dell’anno non è sicuro, perché, nel mondo dominato dal Grande Fratello, non “era possibile buttar giù una qualsiasi data se non con l’approssimazione d’un anno o due”. Ha deciso di scrivere il diario grazie al fatto che il suo appartamento ha una rientranza nel muro, dalla quale è possibile rimanere fuori dal campo visivo del teleschermo che controlla l’interno della casa. Addetto alla correzione delle notizie a stampa per renderle conformi al regime, Winston non si adatta del tutto alle regole del Grande Fratello e il diario è la prima forma di autonomia che egli manifesta.
Dicono del libro
Dicono del libro
“1984. Londra. Il mondo è diviso in due iperstati simili e in guerra fra loro. In Oceania la società è governata secondo i principi del Socing, il Socialismo Inglese, dal Grande Fratello, che tutto vede e tutto sa. I suoi occhi sono le telecamere che spiano di continuo nelle case, il suo braccio è la psicopolizia che interviene al minimo sospetto. Tutto è permesso, non c’è legge scritta. Tranne pensare, se non secondo il Socing. Tranne amare, se non per riprodursi. Tranne divertirsi, se non con i programmi TV di propaganda. Dal loro rifugio, in uno scenario desolante da medioevo postnucleare, l’ultimo uomo in Europa (questo il titolo che avrebbe preferito l’autore) e la sua compagna lottano disperatamente per conservare un granello di umanità”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)
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Il 3 aprile verso le cinque. In macchina da piazza della Scala vuol prendere via Verdi ma il semaforo è rosso; stipate intorno le auto, i pedoni che passano, il sole ancora alto, una giornata bellissima, in quel mentre immaginò la Laide sul bordo della pista di Modena dove diceva di andare a posare per le fotografie di moda, è là felice di essere stata ammessa in quel mondo eccezionale di cui i giornali parlano tanto in termini quasi di favola, è là che scherza con due giovani
Dino Buzzati, Un amore, 1963, Mondadori 1979, pp. 79-80
L’architetto milanese Antonio Dorigo, in febbraio, in una casa d’appuntamenti, ha conosciuto Adelaide, una ragazza col fisico da ballerina, da cui rimane irretito. Durante i mesi invernali Dorigo si è legato sempre più alla ragazza, che non ricambia il suo sentimento e ha una vita sua, in locali notturni e con altri uomini. Nel pomeriggio del 3 aprile, in mezzo al traffico di Milano, “all’altezza del palazzo di Brera lo prese lo sgomento perché in questo preciso istante ha capito di essere completamente infelice senza nessuna possibilità di rimedio” e perché il pensiero di lei “lo perseguita in ogni istante millimetrico della giornata”.
Dicono del libro
Dicono del libro
“Nella cornice di una Milano grigia, caliginosa e triste, fra salotti di case d’appuntamento e strade impregnate degli odori dei «camini, sfiatatoi delle caldaie a nafta, ciminiere delle raffinerie Coloradi, camion ruggenti e fogne», si sviluppa la vicenda dell’architetto Antonio Dorigo, 49 anni, che nell’inverno del 1960 incontra una giovanissima squillo, sedicente ballerina del teatro alla Scala di Milano”
(dalla recensione del libro in Italialibri.net)
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Il 2 di aprile cadeva il secondo anniversario. “Bisogna questa volta celebrarlo fuori di Roma” disse Ippolita. “Bisogna che noi passiamo una gran settimana d’amore, soli, dovunque, ma fuori di qui […]
Stabilirono di partire il 2 di aprile, col treno del tocco. Si trovarono alla stazione, per l’ora stabilita, tra la folla, provando entrambi in fondo al cuore una gioia ansiosa
Gabriele d’Annunzio, Trionfo della morte, 1894, Mondadori 1977, p.71, 75
I due amanti Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio, quasi stupiti di essere arrivati al secondo anniversario della loro storia d’amore, all’inizio clandestina, cercano sulla guida un luogo dove festeggiare e decidono per la località di Albano. Vi si recano in treno, rievocando continuamente – non senza malinconia – il giorno del loro primo incontro, avvenuto a un concerto. Il 2 aprile è la vera data in cui D’Annunzio conobbe Barbara Leoni, a cui la figura di Ippolita è ispirata.
Dicono del libro
Dicono del libro
“Terzo e ultimo dei ‘Romanzi della Rosa’, Trionfo della morte ci presenta varie situazioni legate alla biografia di D’Annunzio. Nella passione ‘difficile’ fra Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio è adombrata quella – famosissima – che vissero lungamente lo scrittore e Barbara Leoni. Molti dei capitoli ambientati in Abruzzo si richiamano al dramma assai complesso, in quegli anni, della famiglia D’Annunzio, sconvolta dalle dissipazioni e da parecchie altre colpe del padre di Gabriele. Infine i travagli del protagonista raggiungono la loro conclusione tragica anche in seguito a violente esperienze intellettuali – che si accentrarono sul tema ossessivo della Morte – riferite morbosamente all’arte di Wagner e al pensiero di Nietzsche”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)
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“Dicci che giorno è domani.” “Il primo di aprile, lunedì.” La Ponte si toccò la cravatta, turbato. “Il mio compleanno.”
Ma la ragazza non gli prestava più attenzione. Si era chinata sullo zainetto, cercando qualcosa al suo interno. Quando si risollevò, aveva in mano il volume dei Tre moschettieri.
“Trascuri le tue letture” disse a Corso porgendoglielo. “Capitolo primo, prima riga.”
Corso, che non se lo aspettava, prese il libro e gli dette un’occhiata. “I tre doni del signor D’Artagnan padre”, si intitolava il capitolo. E appena lesse la prima riga, seppe dove dovevano cercare Milady.
Arturo Pérez-Reverte, Il club Dumas, 1993, tr. it. I. Carmignani, Marco Tropea Editore, 1997, p. 313
L’intricata vicenda del Club Dumas – legata a un capitolo manoscritto dei Tre moschettieri e al libro satanico Le Nove Porte – si sta avvicinando alle sue conclusioni. Il cacciatore di libri antichi Lucas Corso, il suo amico Flavio La Ponte, la ragazza- demone Irene Adler sono a Parigi e devono decidere dove cercare le tracce della borsa sottratta a Lucas Corso dalla vedova di un collezionista (trovato morto al principio del racconto) e dal suo aiutante. Questi ultimi sono assai simili a due personaggi dei Tre moschettieri: Milady e Rochefort. E proprio questa somiglianza offre un indizio sulla mossa da fare, insieme alla coincidenza temporale. Le parole “primo”, “lunedì”, “aprile” sono infatti l’incipit dei Tre moschettieri “Il primo lunedì del mese di aprile del 1625, il borgo di Meung…”. E i tre amici ritroveranno la borsa e il libro a Meung, il primo lunedì di aprile che cade – nel Club Dumas – il primo di aprile (mentre nell’anno 1625 corrispondeva al giorno 7 del mese).
Dicono del libro
Dicono del libro
“Lucas Corso, mercenario bibliofilo al soldo dei più esigenti collezionisti d’Europa, è abituato a indagare sui libri antichi come un detective sulle tracce di un crimine. Questa volta, però, la sua fama viene messa a dura prova da due incarichi delicati quanto insoliti: verificare l’autenticità di un capitolo manoscritto dei Tre moschettieri e decifrare l’enigma nascosto in un testo rarissimo, il Libro delle Nove Porte del Regno delle Ombre, una sorta di manuale per invocare il diavolo, che il Santo Uffizio mise al rogo insieme al suo autore nel 1667. Le nove incisioni contenute nel volume sono l’unico indizio di un lungo viaggio che conduce Corso dai vicoli di Toledo al Quartiere latino di Parigi, fra archivi, polverose librerie antiquarie e raffinate biblioteche private. Il mistero si tinge di sangue mentre la ricerca si addentra nei sentieri impervi dell’occulto, accompagnata da sospette streghe e apparizioni angeliche, seduzioni pericolose, incontri inaspettati e bizzarre incarnazioni dei personaggi letterari di Dumas”
(dalla scheda del libro sul sito dell’editore Marco Tropea)
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Balzac, Boito, data, Dostoevskij. vigilia
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“Comunque, in definitiva, è la storia di come non mi sono sposato!”
“Sposato!… Moglie!… Polzunkov voleva sposarsi!!”
“Vi confesso che muoio dalla voglia di vedere Madame Polzunkov!”
“Permettete che mi interessi sapere il nome di colei che stava per diventare Madame Polzunkov” pigolò un giovanotto, fattosi largo tra la folla.
“Ed ora il primo capitolo, signori: erano esattamente sei anni fa, in primavera, il 31 di marzo – notate la data, signori – , la vigilia…
“Del primo aprile!” urlò il giovanotto con la prefettizia.
“Che intuito eccezionale. Era sera. Sul capoluogo distrettuale di N. si addensavano le prime ombre del tramonto, la luna tentava di fare capolino e… tutto il resto! Ed ecco che al tardo tramonto anch’io, pian pianino, faccio capolino da un piccolo
appartamento dopo essermi congedato dalla mia riservata, defunta nonna
Fëdor Dostoevskij, Polzunkov, 1847, tr. it.A. Pasteris, in Racconti, Mondadori, 1991, p. 165
Una storia di equivoci e di inganni ha inizio la sera del 31 marzo, quando Polzunkov, dopo aver cercato di ricattare il suo superiore Fedosej Nikolaic, viene irretito da questi e dalla sua famiglia. Promesso in matrimonio alla figlia, coinvolto nel risanamento dei conti, vedrà sfumare tutti i piani, fra il 31 marzo e il primo di aprile, giorno degli scherzi e anche dei pentimenti.
Dicono del libro
Dicono del libro
“Quando Dostoevskij si entusiasmò per le idee del socialismo contemporaneo (1847-1848), scrisse un ciclo di quattro racconti collegati tra loro: essi hanno in comune il tema del matrimonio e, in parte, i due protagonisti principali. La prima rappresentazione del matrimonio, che corrisponde pienamente alla visione critica di Fourier, ossia dell’impossibilità dell’amore in una coppia che desidera solo la realizzazione dei propri egoismi, la troviamo nella descrizione del matrimonio di Fedosej Nikolaic in Polzunkov. Fedosej, la moglie Mar’ja Fominišna e anche la figlia Mar’ja sono uniti da un unico anelito: la conquista dei beni materiali. Attraverso menzogna, lusinga, ricatto arrivano allo scopo. L’amore di Polzunkov crolla infine davanti alla scaltrezza dei futuri suoceri e della fidanzata”
(dall’introduzione di G. Spendel all’ed. Mondadori, op. cit.)
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I Baraglioul rientrarono a Parigi, alla mezzanotte del 30 marzo, nel loro appartamento in via Verneuil.
Mentre Marguerite si preparava per la notte, Julius, con una piccola lampada in mano e in pantofole, entrò nel suo studio, dove si ritirava sempre con piacere. La stanza era arredata sobriamente: erano appesi alle pareti alcuni quadri di Lépine e un Boudin; in un angolo, sopra un piedistallo girevole, il busto in marmo della moglie, opera di Chapu, metteva una macchia un po’ cruda; al centro, un grande tavolo Rinascimento su cui, da quando era partito, si erano andati ammucchiando libri, opuscoli e stampati pubblicitari; su un vassoio di smalto a scomparti, alcuni biglietti da visita con l’angolo piegato e, in disparte, appoggiata bene in vista a un bronzo di Barye, una lettera sulla cui busta Julius riconobbe la calligrafia del padre
André Gide, I sotterranei del Vaticano, 1914, tr. it. R. Ortolani, Garzanti, 1965, 45
La data del 30 marzo segna l’ingresso, nella nobile e cattolica famiglia Baraglioul, di un componente inaspettato, annunciato dalla lettera del padre che il protagonista di questa pagina, lo scrittore Julius, sta per leggere. Si tratta del giovane Lafcadio, figlio naturale del conte Baraglioul (come si scoprirà di lì a poco) e dunque fratellastro di Julius. Da quel giorno, la trama regolare della vita della famiglia verrà sconvolta da una catena di avvenimenti – un omicidio senza movente, una falsa crociata per la liberazione del Papa – tutti in qualche modo collegati a quel ragazzo, nato a Bucarest da una relazione clandestina e ricomparso a Parigi, per lettera, il 30 marzo.
Dicono del libro
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“Il sottotitolo di questo singolarissimo libro reca l’insegna di ‘sotie’, farsa, André Gide aveva, infatti, concepito I sotterranei del Vaticano come un bizzarro e sentenzioso gioco di marionette per esercitare liberamente e capricciosamente l’arguto e, a volte, acre estro della sua ironia sui costumi e sulle idee, sulle ipocrisie e sulle manie, insomma sull’imbellicità degli uomini”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Garzanti, op. cit.)
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“Leggi la data in cima alla pagina”. Indicò la scritta che diceva: 28 marzo 1932. “Non c’è bisogno di traduzione, vero? I numeri sono quasi uguali a quelli dell’Intertemporale Standard. Non sai che a quell’epoca nessuno aveva mai visto un fungo atomico? Nessuno avrebbe potuto riprodurlo con tanta accuratezza, tranne…” “Aspetta un momento, è solo uno schizzo” disse il Calcolatore, cercando di ritrovare il suo equilibrio. “Può darsi che la somiglianza col fungo atomico sia casuale.” “Ah, sì? Guarda di nuovo le parole, allora.” Harlan indicò la scritta in maiuscolo, All the Talk Of the Market. “Le iniziali formano la parola Atom, che in inglese vuol dire atomo. Me la chiami coincidenza? Direi proprio di no”
Isaac Asimov, La fine dell’Eternità, 1955, tr.it. G. Lippi, Mondadori, 1987, p. 202
L’Eternità gode di un equilibrio estremamente delicato, nel mondo immaginato da Asimov in questo romanzo, dove si può viaggiare attraverso i secoli e la storia muta a ogni cambiamento della Realtà effettuato da tecnici del Tempo. Dove si rischia, tornando a un momento già attraversato, di incontrare se stessi. E dove diverse Realtà alternative possono esistere.
Ma c’è stata un’epoca in cui il passato era irreversibile, “la Realtà fluiva ciecamente lungo la linea della massima probabilità”, per esempio il Ventesimo secolo. Lì è finito uno dei personaggi di questo complicato racconto e da lì, dal 1932, sta mandando un messaggio in codice per essere rintracciato. Un messaggio affidato a un anacronismo: il disegno di un fungo atomico su una rivista del 28 marzo 1932.
Dicono del libro
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“In un futuro ancora molto lontano l’uomo ha imparato a viaggiare nel tempo, spostandosi con disinvoltura da un secolo all’altro e organizzando traffici commerciali tra ere diverse. Il viaggio nel tempo permette anche di tenere l’umanità sotto rigido controllo, modificando tutti quegli elementi che potrebbero provocare gravi turbamenti nella storia. A effettuare i cambiamenti sono delegati gli analisti e i tecnici della rigida casta degli Eterni, gli unici in grado di manipolare passato e futuro”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)
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Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data era rimasta incancellabile nella memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La visione del paesaggio nomentano gli si apriva d’innanzi ora in una luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili di lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro forme
Gabriele d’Annunzio, Il Piacere, 1889, Mondadori, 1990, p. 13
Andrea Sperelli, mentre attende di rivedere Elena Muti, la sua amante di due anni prima – ora sposata con un gentiluomo inglese – torna col pensiero al giorno della loro separazione, il 25 marzo del 1885. In quella giornata di vento forte, hanno percorso la via Nomentana in carrozza e si sono fermati in un’osteria romanesca, sull’Aniene. Nella luce suggestiva del tramonto, lei gli ha comunicato la decisione di partire e si sono separati, non senza passione, sotto l’arco di Porta Pia. Ora che ha incontrato di nuovo la sua vecchia amante, Andrea “rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole” di quel giorno, che viene richiamato ancora nel corso del romanzo, così come sono molti gli accenni al clima di marzo (mese in cui D’Annunzio era nato nel 1863 e sarebbe morto nel 1938).
Dicono del libro
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“Edito nel 1889, nello stesso anno e con maggior fortuna del Mastro-don Gesualdo di Verga, Il Piacere è il primo dei romanzi dannunziani. L’esperienza biografica nella Roma di fine secolo, mondana e bizantina, si fa letteratura: ‘Nel personaggio di Andrea Sperelli’ scrive D’Annunzio ‘c’è assai di me stesso colto sul vivo'”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)
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24 marzo 1958
In determinate condizioni di atmosfera, di ora e di luce possiamo vedere anche a occhio nudo i tre piccoli satelliti artificiali che l’uomo lanciò dalla Terra verso gli spazi interplanetari dal 1955 al 1958; e ivi sono rimasti appesi, presumibilmente per sempre, girando girando intorno a noi. In certi crepuscoli d’inverno quando l’aria è come cristallo, tre minuscoli punti brillano, di un fisso e corrucciato splendore; due vicini che quasi si toccano, uno più in là, solitario
Dino Buzzati, 24 marzo 1958, in Sessanta racconti, 1958, Mondadori, p. 293
Il 24 marzo 1958 è la data della messa in orbita dell’ultimo di una serie di tre satelliti che – da allora al presente immaginato nel racconto, il 1975 – continuano a girare intorno alla Terra. È una data più importante della scoperta dell’America o della rivoluzione francese, dopo la quale l’umanità è cambiata. Gli ultimi messaggi trasmessi dall’equipaggio alludono infatti a una strana musica e all’arrivo in un luogo che forse è il paradiso. Gli astronauti non sono tornati dai viaggi e i tre satelliti continuano a girare, lasciando il dubbio che il regno dei cieli – con la sua musica sovrumana – sia pericolosamente vicino, proprio alle porte del pianeta Terra, di questa “pulce delle pulci disseminate nell’Universo”.
Dicono del libro
Dicono del libro
“Riuniti in raccolta dallo stesso Buzzati nel 1958, i Sessanta racconti vengono a ragione considerati una vera ‘summa’ del mondo poetico dello scrittore. Vi si trova rappresentata l’intera gamma dei suoi motivi ispiratori, dalla visione surreale della vita all’orrore per la città, dagli automatismi esistenziali introdotti dall’uomo tecnologico alla suggestione metafisica”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)
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24/7, arte contemporanea, corsi magistrali, Design, Jonathan Crary, Sapienza, Sarah Cook
Nel 2013 lo storico dell’arte statunitense Jonathan Crary (Columbia University) pubblicò un libro singolare, dal titolo 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno. La partenza è un dipinto del pittore britannico Joseph Wright of Derby, Arkwright’s Cotton Mills By Night, 1790 ca.: la tela rappresenta un edificio di cinque piani in un paesaggio notturno, con tutte le finestre illuminate, è un cotonificio nel Derbyshire, dove i turni consentivano alla fabbrica di rimanere in funzione anche di notte. Un’opera che mostra un cambiamento epocale nelle abitudini di persone abituate per la maggior parte della loro esistenza a seguire i ritmi circadiani del sonno e della veglia. Questo quadro dà l’avvio alle considerazioni di Crary sul fatto che l’attivismo incessante della nostra società, scandita dalla formula 24/7, è iniziato con la prima rivoluzione industriale. Da allora, la distinzione fra giorno e notte è andata sempre più affievolendosi, fino ad arrivare alla condizione attuale, in cui attività, servizi, attenzione non si spengono mai.
Nel 2019-20 il libro di Crary è stato di ispirazione per una mostra dal titolo 24/7 A Wake-up call for our non-stop world, tenutasi a Londra, Somerset House, 31/10/2019 – 23/2/2020 (Embankment Galleries – South Wing). La curatrice Sarah Cook (University of Glasgow), autrice di studi come Information e Rethinking Curating: Art After New Media, ha inteso far emergere la condizione di un mondo che non si ferma mai, attraverso le opere e gli interventi di una serie di artisti internazionali. Organizzata in sezioni dai titoli eloquenti: Il naufragio del Giorno; Sonno/Attenzione; Accelerazione/Sorveglianza/Controllo, Lavoro/Beni comuni; Reset, la mostra ha proposto opere ispirate al sonno, ambienti immersivi per sorbire il tempo, esperimenti di privazione dei social network. Nel catalogo, si possono leggere le risposte degli artisti e delle artiste partecipanti a un questionario sul proprio rapporto con il ritmo 24/7 e su come questa formula abbia effetti sulla creatività e la produzione artistica.
Nel 2022-23, nei due corsi magistrali di Storia dell’arte contemporanea e di Design Issues che ho svolto nella Sapienza Università di Roma, ho proposto le domande a studenti e studentesse: una ventina di risposte articolate registrano la ricerca di un equilibrio fra produttività e sostenibilità della vita privata, fra curiosità e riposo della mente. Fra i termini usati maggiormente, stato ansioso, movimento, continuo, costante, dipendenza, mancanza di sonno. Quanto alle relazioni con l’arte e con il design, sono in gran parte considerate ineludibili, poiché artisti e designer sono immersi nella cornice della loro epoca e il modulo 24/7 è ubiquo nello spazio e nel tempo.
Antonella Sbrilli
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L’anno scorso, la sera del ventidue marzo, mi capitò una stranissima avventura. Tutto il giorno ero andato in giro per la città in cerca di un alloggio. Quello in cui stavo era molto umido e già allora cominciavo ad avere una brutta tosse. Già in autunno avrei dovuto traslocare, ma l’avevo tirata in lungo fino alla primavera. In tutto quel giorno non ero riuscito a trovare nulla di conveniente. In primo luogo volevo un quartierino mio, non in subaffitto, e in secondo luogo mi sarei accontentato anche di una stanza sola, purché fosse grande e, beninteso, costasse il meno possibile. Avevo notato che in un alloggio troppo piccolo anche i pensieri si striminzivano
Fëdor Dostoevskij, Umiliati e offesi, 1862, tr.it. C. Coïsson, Einaudi, 1965, p. 5
La storia di Umiliati e offesi è narrata da Vanja, un giovane scrittore che la sera del 22 marzo, a Pietroburgo, entra nella pasticceria Miller e lì si imbatte in un vecchio e nel suo cane. Entrambi moriranno quella sera stessa; Vanja andrà ad abitare nella casa del vecchio; conoscerà la nipotina Nelly, in realtà figlia del principe Valkonskij, del cui figlio è innamorata Nataša, a sua volta amata dallo stesso Vanja. Fra le vicende accadute prima e quelle che accadranno dopo, il 22 marzo è una giornata di sole che al tramonto fa sfavillare per qualche istante le strade di Pietroburgo.
Dicono del libro
Dicono del libro
“Pubblicato a puntate nel 1861 sulla rivista ‘Vremja’, è il primo grande romanzo di Dostoevskij dopo il ritorno dalla deportazione in Siberia. Umiliati e offesi è costruito secondo i moduli del romanzo d’appendice in cui colpi di scena, intreccio, estrema inquietudine dei personaggi, tempi narrativi ora bruschi, ora trattenuti, danno vita a una narrazione d’effetto, spesso avvolta nel mistero. L’autore schiera i suoi personaggi su due fronti, secondo una contrapposizione netta tra vizi e virtù, luce e tenebre. Tuttavia, di là dall’epopea avventurosa, la sua capacità di soffrire insieme con i singoli personaggi, l’intensità dei sentimenti che egli infonde, conferiscono una tensione continua a questo romanzo di relazioni impossibili e d’amore
(quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. cit.)
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Un altro anno; e s’era alla fine di marzo, il giorno di San Giuseppe.
Da Poggio a’ Meli s’udivano gli scampanii, che si rimescolavano alla rinfusa nel cielo come un suono che crescesse sempre, quasi immobile, con una romba greve. E a Pietro era venuta un’allegria insolita, un’allegria simile ad un benessere troppo forte, che lo faceva più nervoso.
Vorrei parlare di questi indefinibili turbamenti del marzo, a cui è unita quasi sempre una sottile voluttà, un desiderio di qualche bellezza.
Questi soli ambigui, questi cinguettii ancora nascosti e che si dimenticano presto, queste nuvole biancheggianti che sembrano venute prima del tempo! E le foglie secche, che sono ancora sopra i grani germogliati, mescolando il pallore della morte con il pallore della vita! Queste foglie di tutte le specie, che si trovano ancora sopra l’erbe per rinnovarsi; le piante potate, e i loro rami e i loro tralci, sparsi a terra, che saranno portati via per sempre!
Federigo Tozzi, Con gli occhi chiusi, 1919, Rizzoli, 1993, pp. 49-50
In questo diciannove marzo, giorno di San Giuseppe, il protagonista del romanzo – Pietro Rosi – entra nei quindici anni. Il padre Domenico, gestore della trattoria Il Pesce Azzurro, lo porta al podere di Poggio a’ Meli, fuori Siena, dove il mese di marzo sta modificando, come tutti gli anni, il paesaggio e anche gli esseri umani. Il tempo ciclico della natura si intreccia – nella storia – con la crescita di Pietro e con le sue vicende, l’amore per la giovane Ghìsola, la morta della madre, la fede socialista, e la disillusione, come se tutte le cose si fossero “svolte senza bisogno di lui”.
Dicono del libro
Dicono del libro
“Recensito da Pirandello con un intelligente richiamo al concetto di casualità, questo romanzo di Federigo Tozzi (1883-1920) pare racchiudere in forma esemplare l’intera meditazione dello scrittore senese sulla morte e sull’instabilità dell’universo umano (…) starsene ‘con gli occhi chiusi’ vuol dire non essere, significa condensare ossessivamente il senso di annichilimento dell’io novecentesco privo di controllo per via di dissoluzione dei tradizionali riferimenti”
(dalla quaarte di copertina dell’ed. Rizzoli, op. cit.)
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