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“Naturale!”
“Niente affatto, è una beffa, invece! A partire dall’inverno i giorni si allungano, e quando arriva il più lungo di essi, il 21 giugno, ossia l’inizio dell’estate, subito cominciano a calare, si accorciano e si va verso l’inverno. Tu dici che tutto questo è naturale, ma se provi a prescindere dall’idea che sia naturale, rischi, a tratti, di provare angoscia e paura, e con tutte le tue forze vorresti aggrapparti a qualcosa. È come se un burlone avesse arrangiato le cose in modo tale da far cominciare la primavera all’inizio dell’inverno e l’autunno all’inizio dell’estate… Veniamo menati per il naso e presi letteralmente in giro dalla speranza di qualcosa che è nuovamente una svolta… una svolta in un cerchio. E infatti il cerchio consiste solo di svolte che non hanno estensione, la curvatura non è misurabile, la direzione è priva di durata, e l’eternità non è ‘avanti, sempre avanti’, bensì ‘in tondo, sempre in tondo’.”
Thomas Mann, La montagna magica, 1924, tr. it. R. Colorni, Mondadori 2010, ed. cons. 2011, p. 547
Ventuno giorni doveva durare la visita di Hans Castorp al cugino Joachim, malato di tubercolosi e ricoverato in un sanatorio sulle Alpi svizzere. Ma proprio prima di ripartire, Hans si scopre anch’egli ammalato e rimane nella casa di cura per anni, stringendo relazioni con gli altri ospiti e acquisendo il ritmo cadenzato e dilatato della vita sulla montagna magica, o incantata. Il mistero del tempo si introduce in ogni discorso, dalla domanda “Che cos’è mai un giorno?”, alla descrizione delle stagioni che “si confondono, per così dire, e non si attengono al calendario”, fino alle riflessioni come questa sul paradosso del 21 giugno.
Dicono del libro
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“Con il titolo ‘La montagna incantata’, il capolavoro di Mann, uscito a Berlino nel 1924, venne tradotto in Italia nel 1932 e poi da Ervino Pocar nel 1965. Con questa pubblicazione, il romanzo di Mann – una vera e propria “opera-mondo” – ritorna in libreria in una nuova traduzione corredata da un vasto commento analitico, viatico per penetrarne la complessità anche filosofica. La traduzione di Renata Colorni – traghettatrice dell’opera di Freud presso il pubblico italiano a partire dagli anni Settanta, oltre che traduttrice di numerose e importanti opere della narrativa tedesca – grazie all’attenzione verso i suoi caratteri linguistici distintivi, restituisce al dettato manniano la sua caleidoscopica unicità”.
(dalla scheda del libro nel catalogo Amazon)
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Per il 20 giugno 1845 era stata fissata, già da tempo, l’inaugurazione della nuova strada di 80 chilometri tra la capitale e San Piero, grosso paese di 40.000 abitanti sito quasi ai confini del regno, in posizione isolata, tra spopolate lande. Il lavoro era stato iniziato dal vecchio governatore. Il nuovo, eletto da appena due mesi, non si era eccessivamente interessato dell’impresa e col pretesto di un’indisposizione si fece rappresentare alla cerimonia dal conte Carlo Mortimer, ministro degli Interni. Il viaggio inaugurale avvenne sebbene la strada non fosse completamente pronta e negli ultimi venti chilometri, verso San Piero, consistesse ancora in una rudimentale massicciata; ma il direttore dei lavori garantì che le carrozze sarebbero potute arrivare fino in fondo. D’altra parte non sembrò opportuno rinviare una cerimonia tanto attesa
Dino Buzzati, L’inaugurazione della strada, in Sessanta racconti, 1958, ed. cons. Mondadori, 1994, p. 365
Grandi feste sono pronte per il 20 giugno nella cittadina di San Piero, per l’apertura della strada che la unisce alla capitale del regno. Almeno così credono i viaggiatori che si sono avviati in carrozza e a cavallo lungo la nuova strada per assistere ai festeggiamenti. Ma la strada si fa sempre più disagevole e incerta, finché non scompare del tutto, mentre la cittadina di San Piero resta ancora invisibile all’orizzonte. Alcuni viaggiatori tornano indietro, i cavalli si rifiutano di proseguire. Come in un sortilegio, più distanza si percorre, più la mèta – sotto il sole caldo di giugno – si allontana, in un deserto “che sembrava dovesse continuare in eterno”.
Dicono del libro
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“Riuniti in raccolta dallo stesso Buzzati nel 1958, i Sessanta racconti vengono a ragione considerati una vera ‘summa’ del mondo poetico dello scrittore. Vi si trova rappresentata l’intera gamma dei suoi motivi ispiratori, dalla visione surreale della vita all’orrore per la città, dagli automatismi esistenziali introdotti dall’uomo tecnologico alla suggestione metafisica”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Mondadori, op. cit.)
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Oggi posso farlo. Per la prima volta oggi, 19 giugno 1913, alle ore 11, poiché mi innalzo al di sopra della Morte, contemplo senza bisogno di protezione il fulgore del sole col massimo entusiasmo di vivere. Lascia che il sole sfolgori tumultuoso, lascialo traboccare mi dico – che debordi pure, con la sua luce e il suo calore: può pure essere più grande di me, ma non più forte – non oggi almeno
Ernst Weiss, L’Aristocratico, 1928, tr. it. M. De Pasquale, edizioni e/o, 1985, p. 42
Le vicende narrate nel racconto si svolgono fra il giugno e l’agosto del 1913, periodo in cui si compie la formazione del protagonista. Il giovane Boëtius, discendente di una famiglia aristocratica decaduta, in quell’estate termina i suoi studi e sceglie, uscito dal collegio, di andare a lavorare in una fabbrica di turbine, passando così da origini principesche a una condizione operaia. Il 19 giugno il ragazzo, che si trova ancora nel collegio, riesce a domare un cavallo nel maneggio della scuola, mettendo così alla prova il suo coraggio, che dovrà usare anche in altre occasioni, in quello stesso giorno e nei successivi. È una giornata indimenticabile – come ripete più volte – sospesa nel primo caldo esaltante dell’inizio dell’estate.
Dicono del libro
Dicono del libro
“Ernst Weiss, scrittore ebreo di lingua tedesca, medico, a Vienna studiò con Freud, amico di Kafka a Praga, si spostò a Berlino, poi a Parigi, dove si uccise il 15 giugno 1940, mentre i nazisti occupavano la Francia (..) Nella sua vasta opera, il romanzo L’Aristocratico è forse il punto più alto, ‘un’elegia purissima sulla tomba dell’aristocrazia europea’ – scrive Marino Freschi nell’introduzione al volume. È la storia di un giovane, Boëtius von Orlamünde, ultimo discendente di una nobile casata, della sua educazione in un severo collegio, delle dure prove a cui è sottoposto, sopra tutte quella di portare sulle proprie spalle fragili il peso di una tradizione prestigiosa.”
(Dalla quarta di copertina dell’ed. edizioni e/o, op. cit.)
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blog
corso, Massimo Adario, Sapienza, Sbrilli, tempo, timeline, visualizzare informazioni
Nessun giorno senza una linea, nessuna lezione senza un appunto: si possono prendere appunti in tanti modi, rincorrendo frasi sul filo dell’ascolto, disegnando schemi o nuvole di parole, tracciando frecce che uniscono isole di concetti, disegnando pensieri e forme.
L’architetto Massimo Adario, in veste di allievo del mio corso di Storia dell’arte contemporanea alla Sapienza (Arte e tempo, anno accademico 2015-2016), ha voluto visualizzare un anno di studio – da ottobre a giugno – in una formidabile timeline che riporta, giorno dopo giorno, le lezioni impartite durante il corso, collegate alle visite a mostre, ai post di questo blog sul tempo, agli incontri artistici avvenuti durante quel periodo.
Il risultato è questo: 4 metri e 70 centimetri di stampa che concentrano e svolgono nello spazio un tempo, con i suoi strati sovrapposti, successivi e contestuali, con i ritorni e gli anticipi, le incursioni, gli incisi.

Diario di Massimo Adario -PDF-
Una timeline che è anche un un diario: è questo infatti il titolo che Massimo Adario dà al suo lavoro Diario 12.10.2015 / 06.06.2016.

Se il lungo nastro pieno di immagini, di date e di link è per l’autore un diario, per chi ha tenuto o seguito il corso ha il valore di uno strumento di memoria: le foto con didascalia, messe in fila lungo la sequenza delle giornate e collegate da linee tratteggiate funzionano da classici “luoghi” in cui andare a recuperare i ricordi di informazioni ascoltate e di esperienza fatte in quelle date.
Ma oltre alla qualità diaristica e mnemonica, questa timeline offre direzioni di lettura anche a chi non sappia molto dell’argomento trattato, cioè l’interpretazione del tempo da parte degli artisti contemporanei. E lo fa grazie alla forma di visualizzazione scelta dall’autore, al modo in cui le informazioni sono localizzate, rese contigue e parlanti.

Anche a non sapere che l’artista giapponese On Kawara ha dipinto le date o che il polacco Roman Opalka ha riempito tele di numeri progressivi, colpisce la loro vicinanza (nelle lezioni di novembre 2015), e il collegamento (non importa chi l’abbia suggerito) con il codice che scorre in una schermata del film Matrix. 
In un altro punto della timeline, le griglie regolari – in cui artisti come Hanne Darboven e Gerhard Richter hanno riversato la varietà della storia – sono messe accanto alle opere di artisti minimal e collegate dall’autore alle opere architettoniche di Herzog & De Meuron e di Ai Wei Wei, opere – come scrive Adario – “in cui il Tempo è parte integrante”.
Contiguità, coincidenze, collegamenti si addensano in certe porzioni della timeline, si diradano in altre, aprono porte verso direzioni diverse, tornano lungo la linea diritta, alternando e mescolando qualità dello spazio e del tempo, della memoria e della vista, del ragionamento e dell’intuizione.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)
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Era la mattina del 18 giugno 1956. Ero sceso a salutare Christine e l’avevo ringraziata di tutto e m’ero incamminato lungo la strada. Lei mi aveva salutato con la mano dal cortile erboso. “Come sarà triste qui adesso che se ne sono andati tutti e non ci saranno più le grandi feste dei weekend.” Lei si era proprio divertita durante quegli eventi. Stava lì a piedi nudi nel cortile, con la piccola Prajna scalza pure lei, mentre io mi allontanavo costeggiando il pascolo dei cavalli.
Il viaggio verso nord procedette senza intoppi, come se mi accompagnassero gli auspici di Japhy perché potessi arrivare alla mia montagna da preservare in eterno
Jack Kerouac, I vagabondi del Dharma, 1958, tr. it. N. Vallorani, in J. Kerouac, I capolavori, Mondadori 2004, p.619
Il giovane Ray Smith, poeta, vagabondo in grado di vivere con niente, alla costante ricerca di un’illuminazione, grande meditatore sull’illusorietà delle cose, ha trovato per l’estate un lavoro come vedetta del Servizio forestale a Desolation Park, nello stato di Washington. Viaggiando sui treni merci, con pochi dollari e poche esigenze, ha attraversato il “nulla dell’America, che è comunque un’America magica”. Ha trascorso le feste di Natale a casa della madre nel North Carolina e da lì, a marzo, è ripartito per un lungo viaggio in autostop che lo porterà in California, dall’amico Japhy, maestro di buddhismo, di scalate in montagna e di sesso rituale. La primavera passa fra il taglio della legna, grandi feste, meditazioni sul tempo senza principio, finché non arriva il momento di partire per raggiungere il Parco, il 18 giugno, alle soglie dell’estate.
Dicono del libro
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“1958. In ottobre, la Viking pubblica I vagabondi del Dharma, scritto in dieci notti. Henry Miller invia alla Viking una lettera piena di elogi, predicendo che l’autore eserciterà un’influenza importante sugli scrittori a venire”.
(dalla Cronologia nell’ed. Mondadori, op. cit.)
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Sul vassoio della colazione c’era una lettera di Hilda.
“Papà va a Londra questa settimana e io passerò a prenderti giovedì a otto, il 17 giugno.
Fatti trovare pronta, così potremo partire subito. Non voglio sprecare tempo a Wragby, è un posto orribile. Probabilmente passerò la notte a Redford dai Coleman, perciò dovrei essere da te per il pranzo di giovedì. Potremmo poi partire all’ora del tè e forse dormire a Grantham. E’ inutile passare una serata con Clifford. Se gli dà fastidio che tu parta, non gli farebbe piacere”.
Ah, così! Ancora una volta la spingevano di qua e di là sulla scacchiera come una pedina
David Herbert Lawrence, L’amante di Lady Chatterley, 1928, tr. it. S. Melani, Garzanti 1987, p.257
La giovane Constance, detta Connie, ha sposato nel 1917 Clifford Chatterley, che è rimasto gravemente ferito durante la guerra. La coppia vive nella residenza di Wragby dove lui, costretto sulla sedia a rotelle, è preso dalla stesura di racconti. Per lei, il “tempo passava come va avanti un orologio, le otto e mezzo invece delle sette e mezzo” , e “i momenti si susseguivano senza che tra l’uno e l’altro vi fosse necessariamente un legame”. In febbraio, sconfinando dal parco verso il bosco, ha conosciuto il guardacaccia , l’ex ufficiale Oliver Mellors, che è diventato il suo amante e da cui aspetta un figlio. Quando la sorella Hilda ricorda a Connie la partenza per un viaggio in Italia, fissata il 17 giugno, la storia è a una svolta. Lo scandalo della relazione sta per emergere e Connie prenderà le sue decisioni, seguendo l’istinto, la natura e il futuro che “Dio solo sa dove stia”.
Dicono del libro
Dicono del libro
“L’amante di Lady Chatterley, che lo stesso Lawrence definì ‘tenero libro fallico’, ‘così delicato e così ardito’, si proponeva lo scopo di rendere ambo i sessi capaci di intendere il sesso ‘in modo piano, completo, onesto e pulito’. Proprio per questo, la passione di Connie Chatterley – moglie di Sir Clifford – per il guardacaccia Mellors fu avvertita come oscena e censurata.”
(Dalla quarta di copertina dell’ed. Garzanti, op. cit.)
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Così giovedì sedici giugno Pat. Dignam per colpo apoplettico deposto nella terra e oggi dopo forte siccità infine piovve, Dio volendo, un barcaiolo venuto per via d’acqua da circa cinquanta miglia con carco di torba disse che il grano non buttava, i campi assetati e di cattivo colore putivano gravemente, le paludi come lande. Aria soffocante e giovani polloni tutti secchi senza adacquate da tanto tempo che non v’era memoria d’una simile arsura. I boccioli di rose rappresi e iscuriti, sulle colline giunchi riarsi e rami secchi da infiammarsi in un momento
James Joyce, Ulisse, 1922, tr. it. G. Celati, Einaudi, 2013, pp. 545-546
Festeggiato in Irlanda e in altri paesi come Bloomsday, il 16 giugno è il giorno in cui, nell’anno 1904, si svolgono le vicende di Leopold Bloom, della moglie Molly, di Stephen Dedalus e degli altri protagonisti dell’Ulisse di Joyce. La data 16 giugno 1904 compare per esteso in una lettera scritta a macchina dalla segretaria dell’impresario Blazes Boylan, amante di Molly (episodio 10) e nel bilancio della giornata (episodio 17) ed è richiamata in vari punti del testo. Dalla casa di Bloom, attraverso le strade di Dublino, i pub, i bagni pubblici, la spiaggia, il cimitero, il bordello, la giornata trascorre, dalle 8 della mattina a notte fonda, segnando il tempo degli avvenimenti e dei pensieri simultanei di tutti. Il funerale di Patrick Dignam, svoltosi in mattinata, è richiamato la sera, mentre arriva la pioggia e Bloom si trova all’ospedale, in attesa del parto di una conoscente, la signora Purefoy.
Il numero 16 è citato nel confronto fra l’età di Bloom e quella di Stephen Dedalus (episodio 17) e torna, alla fine del monologo di Molly, quando la donna ricorda il giorno in cui è stata chiesta in sposa, “ed era un anno bisestile come adesso sì 16 anni fa”.
Vai a Dublino 1661904
Dicono del libro
Dicono del libro
“L”Ulisse’ è un libro scritto da qualcuno che doveva diventare tenore (Joyce quando abitava a Trieste), uno che aveva imparato a trasmettere sulla pagina ciò che i musicisti chiamano ‘orecchio interno’, al di là del senso oggettivo delle parole. In effetti, se facessimo il calcolo di quante cantate spuntano nell”Ulisse’ ogni poche pagine, vedremmo un ventaglio di citazioni canterine che sono la spina dorsale joyciana per scavalcare tutti i discorsi e intendersi con diversi richiami musicali: dall’opera lirica alla filastrocca oscena, da un canto gregoriano (‘Gloria in excelsis Deo’) al rumore della carrozza del viceré che passa sul lungofiume (‘Clapclap, Crilclap’), dai nursery rhymes a una poesia tedesca sul canto delle sirene (‘Von der Sirenen Listigkeit…’), dal verso del cuculo (‘Cucù! Cucù’) al Fiore di Siviglia (opera lirica), dalle battute per tenere il ritmo d’una pagina (‘Tum’ ‘Tum’) a quelle di altri suoni (‘Pflaap! Pflaap! Pflaaaap’), alla cantata mozartiana, ricorrente nei pensieri di Mr Bloom: ‘Vorrei e non vorrei, mi trema un poco il cor’, e cosi via.”
(dalla prefazione di Gianni Celati all’ed. Einaudi, op. cit.)
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Adesso il calendario riportava la data di VENERDÌ 15 GIUGNO, e già a gennaio lei aveva scritto su quel foglietto: “15 anni”. La impressionava doppiamente il fatto di compiere 15 anni proprio il giorno 15: una coincidenza del genere non si sarebbe mai più ripetuta
Jostein Gaarder, Il mondo di Sofia, 1991, tr. it. M. Podestà Heir, Longanesi 1994 (2004), p. 301
Due ragazze norvegesi, Sofia e Hilde, stanno per compiere quindici anni il 15 giugno 1990. Le loro vite si sono collegate al principio di maggio, quando Sofia ha cominciato a trovare nella cassetta della posta una strana corrispondenza: lettere che contengono domande filosofiche e cartoline, indirizzate a Hilde, che portano il timbro del 15 giugno. Il tempo che manca al compleanno sarà occupato, per Sofia, da una serie di lezioni sui maggiori filosofi, tenute solo per lei da un personaggio misterioso, mentre Hilde riceverà – proprio il 15 giugno, come regalo di compleanno – la storia di Sofia, in un gioco di specchi e di coincidenze che si concluderà al solstizio d’estate.
(Coincidenze: nell’Ulisse di Joyce, Milly, la figlia di Leopold e Molly Bloom, compie 15 anni il 15 giugno dell’anno narrato, che è il 1904: “Quindici anni ieri. Strano, anche il quindici del mese”).
Dicono del libro
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“Sofia Amundsen è una ragazzina dalla vita per niente straordinaria. Tutto cambia quando cominciano a spuntare strane domande dalla sua cassetta delle lettere, poi le curiose risposte dell’eccentrico filosofo Alberto Knox per cui Sofia approderà a una bislacca festa di compleanno, nel giardino degli Amundsen…
Ma la storia di Sofia non è soltanto un giallo raffinato o un incredibile romanzo d’avventura. Si tratta anche della più divertente storia dell’uomo e del suo pensiero che sia mai stata scritta.”
(Dalla scheda del libro nel sito dell’ed. Longanesi)
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Lui spinse indietro la poltroncina per aprire il cassetto della scrivania. Ne trasse un foglio piegato e me lo porse. Lo spiegai e vidi che era un telegramma spedito da El Paso il 14 giugno alle 9 e 19 antimeridiane. Era indirizzato a Derace Kingsley, 965 Carson Drive, Beverly Hills e diceva:
Varco frontiera per ottenere divorzio messicano stop sposerò Chris stop buona fortuna e addio – Crystal
Raymond Chandler, In fondo al lago, 1943, tr. it. I. Omboni, in Tutto Marlowe investigatore, Mondadori 1982, p.651
Due donne molto somiglianti fra loro sono scomparse, in questo caso affidato all’investigatore Philip Marlowe. Muriel, la moglie di Bill Chess, il custode della tenuta di Punta Puma, è sparita il 12 giugno, poco prima di Crystal, la moglie di Kingsley, padrone della tenuta. Quando Marlowe comincia ad occuparsi del caso è passato un mese dalle ultime tracce, un biglietto d’addio di Muriel e un telegramma spedito – così sembra – da Crystal, il 14 giugno, dal confine con il Messico. Le due sparizioni sono molto più collegate di quello che sembri e molto diverse da ciò che appare. Lo svelamento – tragico e sorprendente – di questo legame porterà Marlowe a capire cosa è accaduto il mese prima e chi ha veramente spedito il telegramma quel 14 giugno.
Dicono del libro
Dicono del libro
“1943. Va a Hollywood a lavorare con Billy Wilder alla sceneggiatura di Double Indemnity (il film che Billy Wilder trarrà dall’omonimo romanzo di James M. Cain). Firma un lungo contratto con la Paramount.
Quarto romanzo con Philip Marlowe protagonista, The Lady in the Lake, edito al solito da Knopf.”
(Dall’introduzione di Oreste del Buono all’ed. Mondadori, op. cit.)
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A Leningrado Vatanen fu alloggiato all’hotel Astoria, il tempo necessario per chiudere definitivamente il caso da parte sovietica. La giustizia sovietica rinunciò a ogni diritto su di lui e finalmente, il 13 giugno, Vatanen fu condotto alla stazione, al treno in partenza per la Finlandia. Il maggiore che l’accompagnava lo abbracciò calorosamente e lo baciò sulle due guance:
– Compagno, quando sarai libero, vot, vieni di nuovo all’Astoria, berremo un bicchierino insieme
Arto Paasilinna, L’anno della lepre, 1975, tr. it. E. Boella, Iperborea, Milano, 1994, p. 195
L’avventura dell’anno della lepre comincia in prossimità del solstizio d’estate, ai bordi di una foresta finlandese e si conclude dopo un anno, nella zona di confine fra Finlandia e Unione Sovietica e poi nella città che ancora – al tempo della storia – si chiamava Leningrado. Il protagonista, il giornalista Vatanen, dopo aver investito una lepre con la macchina, decide di lasciare lavoro, famiglia e vita cittadina per vivere alla giornata, lavorando come taglialegna, vaccaro, aiuto pompiere, sempre accompagnato dalla lepre. Ogni spostamento rivela a Vatanen qualcosa della natura, delle bestie, delle persone, della società: diffidenza e generosità, ottusità e una vena di follia, si alternano durante i mesi di questo vagabondaggio, finché Vatanen si trova a lottare con un grande orso, a inseguirlo oltre i confini della Finlandia, in territorio sovietico, da cui è rilasciato il 13 giugno, alle soglie del nuovo solstizio d’estate (e di una nuova fase della sua vita).
Dicono del libro
Dicono del libro
“Una sera, tornando in macchina da un servizio fuori città con un amico fotografo, investe una lepre, che fugge ferita nella campagna. Vatanen scende dall’automobile, la trova, la cura e, sordo ai richiami dell’amico, sparisce con lei nei boschi intorno. Da quel momento inizia il racconto delle svariate, stravaganti, spesso esilaranti peripezie di Vatanen, trasformato in un vagabondo che parte all’avventura, on the road, un wanderer senza fretta e senza meta attraverso la società e la natura, in mezzo alle selvagge foreste del Nord e alle imprevedibili reti della burocrazia, sempre accompagnato dalla sua lepre come irrinunciabile talismano.”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Iperborea, op. cit.; vedi anche: Cultfinlandia.it )
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“11 giugno. Oggi è il mio compleanno. Esattamente settanta anni fa precipitai dal ventre del grande Buio nella Luce e nella Vita. Mio Dio! Mio Dio! è più breve della rabbia di un’ora, più veloce di un sonno pomeridiano. Ul-Jabal mi ha fatto auguri calorosi, ne sembrava impaziente da tempo, e mi ha ricordato che settanta è uno dei numeri fatali, perché i suoi fattori sono sette, cinque e due: l’ultimo denota la dualità di nascita e morte, il cinque l’isolamento, il sette l’infinito. Lo ho informato che era anche il compleanno di mio padre, e di suo padre
Matthew Phipps Shiel, Il principe Zaleski (La pietra dei monaci di Edmundsbury) , 1895, tr. it. A. Carapezza, Sellerio 1986, p. 57
Una pietra preziosa che, se rubata o manomessa, porterebbe alla rovina la famiglia inglese che la possiede da secoli. Il seguace di un’antica setta orientale in cerca della stessa pietra, un tempo appartenuta al fondatore della setta. Il diario di Sir Jocelin Saul, ultimo discendente della famiglia, minacciato di morte. Intorno a tali elementi si svolge la storia di questo caso, risolto dal principe Zaleski, un detective di vasta cultura esoterica. E un velo di magia è posato su tutta la storia, anche sulla data che apre il diario, la data di nascita di Jocelin Saul, che si ripete fatalmente di padre e in figlio: l’undici di giugno.
Dicono del libro
Dicono del libro
“All’origine, il genere poliziesco era considerato una buona palestra per i giovani scrittori: un paradigma rigido da declinare in varianti personali. Con questo spirito, nel 1895, il giovane Matthew Phipps Shiel (amico di Wilde e Beardsley; destinato alla fama, poi, col fantastico e visionario La nube purpurea), scrive Il principe Zaleski e crea il suo personaggio: il primo, e forse l’unico detective secondo i canoni fin de siècle.”
(Dalla bandella dell’ed. Sellerio, op. cit.)
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Il 10 giugno del 1940 era una giornata nuvolosa. Erano tempi che non avevamo voglia di niente. Andammo alla spiaggia lo stesso, io e un mio amico che si chiamava Jerry Ostero. Si sapeva che al pomeriggio avrebbe parlato Mussolini, ma non era chiaro se si sarebbe entrati in guerra o no. Ai bagni quasi tutti gli ombrelloni erano chiusi; passeggiammo sulla riva scambiandoci supposizioni e opinioni, con frasi lasciate a mezzo, e lunghe pause di silenzio
Italo Calvino, L’entrata in guerra, 1954, in Romanzi e racconti, I Meridiani Mondadori, vol. I, 1991 (ed. cons. 2003), p. 485
La mattina del 10 giugno del 1940, il ragazzo, protagonista di questo racconto, è al mare con un amico. Il tempo è nuvoloso, ma una schiarita permette di fare un giro in moscone, di tirare su col remo una medusa, di corteggiare una ragazza. Tutto cambia in poche ore: “Quando ci ritrovammo verso le sei, eravamo entrati in guerra. Era sempre nuvolo; il mare era grigio”. L’annuncio di Mussolini che l’Italia parteciperà al conflitto al fianco della Germania, spezza in due quella giornata, anniversario anche del delitto Matteotti, avvenuto sedici anni prima. E porta i primi allarmi aerei, le prime manovre militari, le corriere con i profughi, alloggiati nella scuola. Il ragazzo si darà da fare per dare una mano agli sfollati, passando così, in poche ore che sembrano giorni e giorni, dalla gita in pattino al “continente grigio” della guerra.
Dicono del libro
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“Qui la guerra è una cosa di cui ancora poco si sa: sono i primi tempi dell’intervento italiano in quello che si dirà il secondo conflitto mondiale; e il protagonista è un ragazzo sotto vari riguardi privilegiato, sottratto al dramma dei problemi urgenti e che – forse proprio per questo – poco sa ancora di se stesso. Ma i fatti narrati già contengono prefigurata e implicita in sé molta parte del futuro; e già in essi opera, col suo ritmo discontinuo, l’eterna interferenza tra le spinte della storia collettiva e il maturarsi delle singole coscienze.”
(I. Calvino, in Romanzi e Racconti, I Meridiani Mondadori, vol. I, op. cit., p. 1317)
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Mai una volta mi è saltato in mente di scoprire da dove veniva l’acqua di casa nostra. Si vede che c’è un pozzo. Te l’immagini! E abbiamo abitato qui fin da quando avevo dieci anni! L’8 giugno 1949. Io sono dei Gemelli. Il mughetto è il fiore del giorno della mia nascita. Lo sapevi che i mughetti sono molto velenosi? Facemmo il trasloco qui il giorno del mio compleanno. Niente festa. L’autotreno rimase incagliato fra i pali del cancello d’entrata proprio il giorno del trasloco
Saul Bellow, Il pianeta di Mr. Sammler, 1970, tr. it. L. Ciotti Miller, Feltrinelli 1981, p.216
Mentre l’amato nipote Elya sta morendo in un ospedale di New York, lo zio Arthur Sammler, un intellettuale polacco settantenne che è arrivato negli Stati Uniti dopo essere scampato alla guerra e all’olocausto, è a New Rochelle, nella casa del nipote. Shula, la figlia di Sammler, durante una conferenza, ha sottratto il manoscritto di un libro sul Futuro della Luna al professore indiano Govinda Lal, per darlo al padre, che da anni sta scrivendo un saggio sullo scrittore di fantascienza Herbert G. Wells. La restituzione di questo manoscritto riunisce in casa diversi componenti della famiglia e scatena un vivace confronto di opinioni, credenze, aspettative e ricordi. Nel pieno della discussione, ecco che l’appartamento si allaga perché uno dei figli di Elya ha rotto un tubo dell’acqua cercando nelle tubature il denaro che forse il padre vi ha nascosto. L’incidente riporta alla memoria la vita della casa e nella casa, associazioni di pensieri e giornate di vent’anni prima, come l’8 giugno del 1949. Lo scrittore Saul Bellow (1915-2005) festeggiava il suo compleanno il 10 giugno.
Dicono del libro
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“Iniziato verso la fine degli anni Sessanta, Mr Sammler’s Planet raggiunge la sua forma definitiva nel 1969 nell’arco di alcuni mesi di lavoro frenetico e di spostamenti altrettanto frenetici da parte dell’autore: esce il 1° febbraio del 1970 per la Viking. (…) La vicenda del romanzo si svolge sullo sfondo di una società indulgente ed eccessiva, la cui rivoluzione sessuale in corso è vista come emblematica del declino della civiltà. Il protagonista, Sammler, un intellettuale settantaduenne che ama la letteratura inglese e in particolare H. G. Wells, è definito dallo stesso Bellow nel romanzo un individuo ‘al passato’.”
(dalle notizie ai testi in Romanzi, ed. I Meridiani Mondadori, 2008, II, p. 1912)
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il giorno sette di giugno, all’alba, lo Zahir giunse alle mie mani; non sono più quello che ero allora, ma ancora mi è dato ricordare, e forse narrare, l’accaduto. Ancora, seppur parzialmente, sono Borges
Jorge Luis Borges, Lo Zahir (1947) in L’Aleph, 1949, tr. it. F. Tentori Montalto, in Tutte le opere, I Meridiani Mondadori, 1985, I, p. 847
Dopo aver passato la notte vegliando l’amica Teodelina Villar, all’alba del 7 giugno, come resto di un’aranciata ordinata in una mescita di Buenos Aires, il narratore di questa storia – che si chiama Borges come l’autore- riceve una moneta da 20 centesimi. Da quel momento, il piccolo oggetto diventa un’ossessione, un pensiero a cui non si riesce a sfuggire, un’immagine forte come un incantesimo, a cui gli Arabi danno il nome di Zahir. Chi incontra lo Zahir – sotto qualunque forma – non può pensare ad altro, fino a dimenticare il mondo reale, guadagnando, però, forse, la visione di tutti i “futuri possibili”. Il 7 giugno torna in un altro racconto di Borges, dal titolo Tom Castro, l’impostore inverosimile.
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Diconodioggi
Oggi
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Abbiamo strappato via un bel po’ di carta da parati in cucina vicino al frigorifero e abbiamo scoperto che sotto vari strati di carta (margherite; aggeggi adesivi Peel’n Stick per deodorare il frigo) c’erano, in condizioni perfette come il giorno in cui erano state scritte, le parole:
Un giorno radioso
6 giugno 1974
Sono lontano ma la mia idea di pace rimane con voi
d. b.
Roba da hippy, ma mi è mancato il fiato quando l’ho letta. E per un attimo ho avuto la sensazione che un’idea sia più importante del semplice fatto di essere vivi, perché un’idea vive molto tempo dopo che te ne sei andato; poi la sensazione è svanita
Douglas Coupland, Microservi, 1995, tr. it. N. Vallorani e E. Guarneri, Feltrinelli, 1998, p. 68
La vita nella sede della Microsoft a Redmond, nei primi anni Novanta, è raccontata da Daniel Underwood, ventiseienne “individuatore di bug”, uno dei tanti giovani “Micro-servi”, impiegati nella grande industria informatica di Bill Gates. I ritmi di lavoro pressanti e la costante concentrazione sul linguaggio di programmazione stravolgono anche il senso del tempo, che “non è necessariamente lineare”, ma sembra scorrere “in strani mucchi, fasci e mazzetti”, mentre la vita procede giorno per giorno, “una riga di codice senza bug alla volta”. Ogni tanto c’è il bisogno di guardare indietro ed è quello che Daniel fa un giovedì, fra libri e riviste degli anni Settanta. Proprio una data di quegli anni – 6 giugno 1974 – è emersa su una parete della cucina, in un messaggio di pace e serenità lasciato da un precedente abitante della casa e su cui si sono posati strati di carta da parati e di tempo.
Dicono del libro
Dicono del libro
“Dopo aver trascorso qualche tempo nella più famosa industria informatica del mondo, la Microsoft, un gruppo di giovani dipendenti – i ‘microservi’ – decide di abbandonare la sicurezza del posto fisso e il loro amato-odiato padre-padrone, per fondare una propria società di software. Nel cuore della bizzarra e digitale Silicon Valley, in California, questi ventenni si trovano alle prese con la modernità e la vita, tra frammenti di esistenza quotidiana che evidenziano aspirazioni e sentimenti di una generazione in cerca d’identità in un mondo sempre più privo di riferimenti etici e morali.”
(dalla quarta di copertina dell’ed. Feltrinelli, op. cit.)
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