Tagli del tempo, di Martina Maggi

Tagli del tempo. Invito a una classificazione
Da un secondo a un milione di anni, dal più breve intervallo dell’attenzione a un tempo che supera l’immaginazione umana. A partire dagli anni Cinquanta del Novecento (senza contare le incursioni futuriste), alle esperienze più recenti, è possibile rinvenire opere – performance, azioni e tracce di azioni, video e installazioni – che si svolgono in tagli di tempo definiti o che alludono a porzioni e intervalli di tempo nel loro titolo o nel loro procedimento. Si può addirittura organizzare un catalogo di opere seguendo questi riferimenti, in ordine crescente. Si tratta di un catalogo denso e affollato, che può occupare decine di pagine e caselle, dove alcune opere possono occupare più posti nella classificazione . Si propone di seguito un primo elenco, con i primi “tagli” di tempo:
Secondi:

clock
Appena un secondo dura la “performative action” dell’artista australiana Sara Morawetz, dal titolo 61/60, svoltasi dalle 19:59:59 alle 20:00 del 30 giugno 2015 a Times Square, New York.
11 secondi è il tempo in cui si accende una volta all’anno la Lampada Annuale di Alighiero Boetti, ideata nel 1966.
Fra un secondo e undici secondi, si cercano opere per riempire le caselle.
Minuti:
Un minuto è la durata del video dell’artista scozzese Katie Paterson, Ancient Darkness TV, trasmesso dalle 23:59 alle 00:00 del 22 novembre 2009 dalla MNN di New York, che mostra il punto più lontano dell’universo conosciuto.
Saltando i due e i tre minuti, si arriva a  4’33’’,  titolo e durata della composizione in tre movimenti del compositore statunitense John Cage, del 1952, che ci invita all’ascolto del silenzio.
5’20’’ è la durata del video Il Tempo Consuma, 1978, del regista, musicista e pittore italiano Michele Sambin, che muovendosi come un metronomo umano ci ricorda che “Il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni”.
L’artista francese Claude Closky ci regala i suoi venti minuti preferiti nella videoinstallazione Mes 20 Minutes Préférées del 1993, un elenco video dello scorrere di determinati minuti su un orologio digitale.
Ore:
Un’ora dura la camminata circolare nel Dartmoor dell’artista inglese Richard Long del 1984, One Hour, e sempre un’ora è la durata dell’azione compiuta tracciando una linea continua sulla neve con una motoslitta dall’artista statunitense Dennis Oppenheim documentata nella fotografia One Hour Run del 1968.
L’artista statunitense Spencer Finch nel 2007 misura il vento al lago Walden Pond, in Massachusetts, e lo riproduce con 44 ventilatori in 2 Hours 2 Minutes 2 Seconds (Wind At Walden Pond, March 12, 2007).
L’artista spagnolo Santiago Sierra, a Città del Guatemala nell’agosto del 2009, paga 100 quetzal (10€) ciascuno alle otto persone disposte a rimanere sedute all’interno di una scatola di cartone per quattro ore nella performative action 8 Personas Remuneradas Para Permanecer en el Interior de Cajas de Cartòn.
Reading Position for Second Degree Burn del 1970 è la documentazione fotografica dell’artista statunitense Dennis Oppenheim delle 5 ore da lui trascorse a Jones Beach, New York, per ottenere un’ustione di secondo grado.
Giorni:
Un giorno di 24 ore dura l’opera dell’artista statunitense Christian Marclay del 2010, The Clock, un vero e proprio film-orologio ottenuto grazie al montaggio di frammenti di pellicole in cui sono visibili orologi che segnano il minuto esatto in cui vengono proiettati.
E sempre ventiquattro ore è la durata della videoinstallazione dello scozzese Douglas Gordon, 24 Hours Psycho, che nel 1993 prende il classico film di Hitchcock Psycho e ne estende la durata da 109 minuti a ventiquattro ore.
L’artista statunitense Chris Burden nel 1971 si fa chiudere in un armadietto scolastico per cinque giorni, ciò che ne scaturisce è Five Day Locker Piece una delle azioni più controverse dell’artista.
Three Stones è l’opera del giovane artista finlandese Antti Laitinen del 2004, che riporta alla luce ed espone tre pietre trovate, una dopo sette minuti di scavo, una dopo sette ore e l’ultima dopo sette giorni.
Mesi:
L’artista francese Annette Messager, per l’opera Petite Pratique Magique Quotidienne Pendant le Mois de Mai 1973, ogni giorno per un mese crea un disegno con l’inchiostro, alla maniera dei test di Rorschach. Ogni immagine scaturita è casuale e inaspettata e i 31 disegni e testi formano il diario delle esperienze, reali e immaginate, del mese di maggio del 1973.
Un mese risalta nell’opera di Hanne Darboven, è il Marzo 1974.
92 sono i giorni che l’artista parigina Sophie Calle ha impiegato per riprendersi dalla fine di un amore, 3 i mesi di viaggio da Parigi al Giappone e ritorno, documentati con foto e testi e rielaborati quasi 20 anni dopo nell’opera Douleur Exquise, 1984-2003.
Anni:
Sono molti i progetti artistici che hanno durata un anno, a partire dal calendario visivo di Luigi Ghirri che con Infinito del 1974 ci presenta 365 foto del cielo diurno disposte in griglia senza ordine preciso.
L’arte si intreccia con la vita nei progetti annuali dell’artista statunitense, nato a Taiwan, Thechieng Hsieh, che ad esempio in One Year Performance – No Art Pièce, 1984-1985, per un anno se ne priva.
Nel 2009 Spencer Finch rende omaggio alla poetessa americana Emily Dickinson. Nell’installazione 366 (Emily Dickinson’s Miraculous Year) 366 candele colorate disposte a spirale bruciano una ogni 24 ore per richiamare i 366 poemi scritti in 365 giorni dalla poetessa nel 1862.
L’artista polacco Roman Opalka nel 1965 dà via al progetto OPALKA 1965/1-∞, con il quale intende registrare e documentare l’inesorabile scorrere del tempo, senza ripetizioni ne ritorno, annotando su grandi tele grigie ogni numero da 1 ad infinito per 46 anni, fino al 06 agosto 2011, giorno della sua morte.
Secoli:
Un secolo di eventi storici viene condensato in un anno ideale e narrato in prima persona dall’artista italiana Daniela Comani che allo scoccare del nuovo millennio realizza l’opera Ich War’s. Tagebuch 1900-1999 (Sono Stata Io).
Un secolo servirà per portare a compimento il progetto Future Library dell’artista scozzese Katie Paterson, che nel 2014 ha fatto piantare una foresta di 1000 alberi in Norvegia che verranno tagliati per fornire la carta per stampare 100 libri.
Millenni:
Non nella durata ma nel titolo l’artista inglese Damien Hirst ci spinge a considerare la temporaneità della vita con la sua istallazione A Thousand Years, 1990, in cui l’artista mette in scena il ciclo di nascita, vita e morte all’interno di una grande teca di vetro.
L’artista giapponese On Kawara nel 1969 realizza due opere correlate One Million Years (Past) e One Million Years (Future), due volumi contenenti ogni anno che precede e segue l’anno in cui l’opera viene concepita fino ad arrivare ad un milione di anni nel passato e un milione di anni nel futuro.
Martina Maggi – Tagli del Tempo

Un giorno su Marte, di Roberta Aureli

Ispirata da un passo delle Cronache Marziane (1950) di Ray Bradbury, l’artista australiana Sara Morawetz ha vissuto per trentasette giorni consecutivi adattando il suo orologio, la sua routine quotidiana e i suoi ritmi biologici al Tempo di Marte. Una sorta di Life on Mars, per citare il titolo di una canzone di David Bowie, l’artista da poco scomparso che ha anche lui attinto all’immaginario marziano.
I ventotto racconti fantascientifici di Bradbury sono ambientati in uno scenario futuro compreso tra il gennaio 1999 e l’ottobre 2026; Morawetz ha tratto spunto in particolare dall’episodio dell’agosto 2002 intitolato “Night Meeting”, dove si legge la frase “Where is the clock to show us how the stars stand?”.
E How the stars stand è appunto il nome della performance che ha eseguito nell’estate 2015 vivendo per l’intera durata presso la Open Source Gallery di Brooklyn: lungi dal restare reclusa nello spazio espositivo a lei destinato, Morawetz si è impegnata a uscire, a fare la spesa, a vedere i suoi amici, a compiere insomma le normali occupazioni quotidiane ma con un occhio sempre puntato sulle lancette dell’orologio di Marte.

aureli morawetz
La genesi dell’opera è legata a una riflessione sulla durata del giorno marziano: chiamato sol, dura 24 ore, 39 minuti e 35,24 secondi, circa il 2,7% in più rispetto a quello terrestre. Una differenza apparentemente minima che non è più tale sul lungo periodo: se il primo giorno lo scarto è di soli quaranta minuti, già al terzo sarà di due ore e così via fino a confondere irrimediabilmente il giorno e la notte. Un anno su Marte dura 668,5991 sol, cioè 686,98 giorni terrestri.
Sul suo ‘diario di bordo’ online Morawetz ha documentato le difficoltà riscontrate nel portare a termine il lavoro, dai disturbi del sonno a quelli, di ordine pratico, nella sua routine. Qualora avesse avuto un appuntamento con i suoi amici ma le lancette marziane avessero segnato le otto del mattino, per esempio, avrebbe dovuto portarli a colazione e non a cena; assai suggestive ed esplicite in tal senso sono le fotografie del cielo azzurro accompagnate dal titolo “My Night Sky”. In questo modo l’opera arriva a mettere in discussione la nozione stessa di Tempo, le nostre convenzioni e le consuetudini nel rapportarci ad esso, pertanto l’artista ammette che “l’idea di vivere secondo un altro tipo di tempo mi sembrava un esperimento che valesse la pena di essere compiuto al fine di comprendere meglio non soltanto il tempo di Marte ma anche il nostro”.
Mentre è impegnata a completare la tesi di dottorato presso il Sydney College of the Arts, Morawetz ha scelto di spostare l’indagine sulle interrelazioni tra l’arte e la scienza dal piano teorico a quello pratico. Già il 30 giugno dello stesso anno, in seguito alla decisione dell’International Earth Rotation and Reference Systems Service di aggiungere un ‘secondo intercalare’ (leap second) per permettere agli orologi atomici di sincronizzarsi con l’effettiva rotazione della Terra sul suo asse, l’artista aveva preparato 61/60, una performance di un solo secondo da compiere alle 19:59:60 in Times Square a New York. How the Stars Stand ha dato a Morawetz la possibilità di avviare una più stretta collaborazione con il dottor Michael Allison del Goddard Institute of Space Studies della NASA.

aureli morawetz 2
Il lavoro è iniziato il 15 luglio alle 9 del mattino per far coincidere l’ora della posizione occupata dall’artista sulla Terra (a Brooklyn) con l’ora di quella che avrebbe idealmente occupato su Marte (alle coordinate 189.400°E 40.670°N). Il tempo del pianeta rosso è stato misurato grazie all’applicazione Mars24 fornita dall’agenzia spaziale americana (http://www.giss.nasa.gov/tools/mars24/) mentre due orologi da polso e due da parete sono serviti a Morawetz per orientarsi giorno dopo giorno tra i differenti orari.
Quest’ultimo dettaglio ricorda l’installazione Timepieces (Solar System) della scozzese Katie Paterson, sviluppata nel 2014 con l’aiuto di Ian Robson del Royal Observatory di Edimburgo e di Stephen Fossey della University of London Observatory: una sequenza di nove orologi da parete permette di leggere l’ora dei pianeti del sistema solare e della Luna e di metterla in relazione con quella terrestre, oltre che di conoscere la diversa durata del giorno su ciascuno di essi (dalle 9 ore e 56 minuti di Giove alle 4223 di Mercurio).
How the Stars Stand è terminata alle 18 del 21 agosto, quando l’ora terrestre e l’ora marziana sono tornate a coincidere. In un appunto sul blog Morawetz ha lasciato una traccia suggestiva della propria esperienza: “I have been in another time – another place – somewhere in between Earth and Mars // awake and asleep… transitioning through thoughts – ideas – feelings in a real time that is entirely of my own creation…”.
Roberta Aureli (PlaychesswithMarcel)

Tempo di Street Art, di Francesco Maglione

 

Hanno molto a che fare con il tempo le opere di Peregrine Church e Nèle Azevedo, due artisti che apparentemente sembrano non avere niente in comune;  in realtà le loro opere di street art rivelano la presenza attiva di due aspetti del tempo: il tempo come agente atmosferico che controlla la vita dell’opera, il suo essere presente o meno; e il tempo come agente modificatore dell’opera, la quale con il passare del tempo (ore, giorni, mesi, anni) si rovina, si decompone, si annulla.

Peregrine Church (Alaska, 1993) è l’ideatore dei Rainworks, interventi di street art invisibili ad occhio nudo a meno che la strada non sia bagnata, come in una giornata di pioggia. Il trucco sta nell’uso di un materiale speciale: disegni, slogan e versi di canzoni che costituiscono gli interventi si mostrano ai passanti per il contrasto fra la superficie stradale umida e quella asciutta, che rimane tale, e quindi più chiara dell’altra, perché trattata con una vernice idrorepellente, trasparente, biodegradabile, non tossica e che non rende il marciapiede scivoloso. Ogni Rainwork dura in media cinque mesi ma può andare oltre a seconda di quanto traffico pedonale debba sopportare, è più vivo durante le prime due settimane poi sbiadisce poco a poco fino a svanire del tutto. Di conseguenza, essendo opere temporanee, con messaggi che vanno e vengono, senza scopi commerciali, non sono illegali, anzi per le autorità locali sono utili a riqualificare i quartieri della città, a renderli più divertenti. A Seattle (Washington), la città più piovosa della costa ovest statunitense, Church vuole infatti trasformare la pioggia, in genere causa di malumore, in uno strumento per rivelare messaggi che riescano a strappare un sorriso ai passanti. Come dice l’artista in un’intervista: “Sono felice di dare alla gente qualcosa per cui sorridere”. Ma attraverso le sue opere l’artista cerca anche di spostare l’attenzione su problematiche ambientali e sulle campagne contro gli sprechi.
street art church maglione

Sicuramente capace di tirare su di morale grandi e piccoli è l’intervento che recita “Attention ground is now lava” e ci invita a immaginare il marciapiede come una lingua di lava incandescente nella quale troviamo dei sassi – macchie rese asciutte dal trattamento – su cui saltare per raggiungere sani e salvi la fine del marciapiede dove ci aspetterà la scritta “Congratulations” per essere riusciti nell’impresa. Carpe diem invece richiama un verso di una delle più celebri Odi di Orazio (“Carpe diem, quam minimum credula postero” / “ruba un giorno (al tempo), confidando il meno possibile nel domani”). Il poeta latino invitava il lettore a essere responsabile del proprio tempo, ad afferrare un istante dall’irrefrenabile flusso del tempo e a fidarsi poco dell’imprevedibile futuro. La stessa consapevolezza della transitorietà e precarietà dell’esistenza è presente alla base dei Rainworks che svaniscono una volta ristabilitosi il bel tempo e asciugatosi l’asfalto non trattato che li circonda.

Come i Rainworks di Church anche Melting men (uomini che si sciolgono), l’installazione dell’artista brasiliana Néle Azevedo, è condizionata dal clima, dagli agenti atmosferici e dal passaggio del tempo.
meltingmen

Néle Azevedo (Santos Dumont, Brasile 1950) dal 2002 ha cominciato a realizzare interventi a Brasilia, Tokyo, Parigi, Berlino, Firenze, nell’ambito del progetto Minimun Monument, una critica ai tipici monumenti presenti in tutte le città del mondo che ha portato l’artista a concepire quello che potremmo definire un anti-monumento in quanto, in un’azione dalla breve durata, ne sovverte i canoni ufficiali. In Melting men infatti troviamo al posto del protagonista, l’anonimo; al posto di figure solitarie, una moltitudine; al posto della scala monumentale, la scala minima di corpi alti 20cm circa; al posto della solidità della pietra e del bronzo, la temporaneità del ghiaccio. Minimum monument quindi pone al centro non più il singolo, l’eroe, il condottiero, il personaggio illustre, ma la massa, la moltitudine, l’uomo comune, brutto o bello, debole o forte che sia non importa, tanto che gli omini di ghiaccio sono modellati su stampi che non conferiscono loro particolari connotati o una fisionomia singolare, bensì sono tutti uguali. Vagamente essi ricordano gli Archeologi di Giorgio De Chirico, caratterizzati da teste senza volto, prive di tratti somatici, ma a differenza di quest’ultimi, gli omini della Azevedo non sono simbolo di compattezza e solidità, ma fugaci rappresentanti della mutabilità dell’acqua che dallo stato solido velocemente passa a quello liquido, dettando la fine dell’opera. Il lavoro della Azevedo è stato adottato dagli ambientalisti di tutto il mondo come messaggio d’allarme per i cambiamenti climatici e lo scioglimento dei ghiacciai artici. Questa interessante versatilità non dispiace all’artista che spiega: «un’opera d’arte è soggetta a diverse letture, quindi sono contenta che questo lavoro si presti a interpretazioni così importanti». Francesco Maglione

Buzzati, Boetti: la forza creatrice del tempo

In questo post, Roberta Aureli coglie una ‘felice coincidenza’ tra la Serie di merli disposti a intervalli regolari lungo gli spalti di una muraglia di Alighiero Boetti (1971-1993, Roma, Collezione Matteo Boetti) e il racconto di Dino Buzzati I sette messaggeri (1939; poi 1942, Mondadori) e la racconta dalla prospettiva di un tempo concreto che lavora come una vera forza creatrice.

Buzzati, Boetti: la forza creatrice del tempo, di Roberta Aureli
La Serie di merli di Alighiero Boetti consta di una bacheca di plexiglas fissata alla parete in cui sono contenuti 13 telegrammi ordinati uno accanto all’altro cronologicamente. Il titolo, ironico e poetico allo stesso tempo, allude al fatto che la sequenza dei telegrammi ricorda la merlatura posta a coronamento delle mura o delle torri nell’architettura medievale. Il primo è stato spedito da Boetti al gallerista Gian Enzo Sperone il 4 maggio 1971 e reca il messaggio “due giorni fa era il 2 maggio 1971”; il secondo è del 6 maggio e vi si legge “quattro giorni fa era il 2 maggio 1971”. È un messaggio con un contenuto informativo ridotto e la scelta della data è del tutto arbitraria, “com’è sempre l’inizio del gioco”, ha scritto Anne-Marie Sauzeau, “il due maggio 1971, chiamato oggi“. Il gioco prosegue raddoppiando i giorni trascorsi da quella data di partenza: nel terzo telegramma sono 8, poi diventano 16, 32, 64 e così via fino a quando in occasione del tredicesimo telegramma, spedito il 5 ottobre 1993, si arriva a “ottomilacentonovantadue giorni fa”.

Serie di merli 2Boetti, consapevole che con i multipli di 2 il tempo trascorso tra un invio e l’altro sarebbe aumentato vertiginosamente (come nella storia della scacchiera e dei chicchi di riso), dirà che “si può benissimo arrivare a numeri colossali, questa serie del raddoppio è impraticabile; perché, sia come potenza di due o potenza di due miliardi, ha la stessa accelerazione, dopo un attimo dalla partenza, che è più lenta, l’accelerazione è fortissima”.
Uno sguardo più accorto alla bacheca ci fa rendere conto dello spazio rimasto vuoto nel margine destro, dove Boetti aveva pensato di inserire il quattordicesimo e ultimo telegramma programmato per il 2017: i giorni trascorsi dal 2 maggio 1971 sarebbero stati allora 16384 e l’artista torinese avrebbe avuto settantasette anni. Come è noto, invece, è scomparso il 24 aprile 1994 lasciando l’opera irrimediabilmente incompiuta.
boetti_BuzzatiEd è a questo punto che la Serie di merli presenta un curioso collegamento con un racconto di Buzzati. Nei Sette messaggeri si racconta in prima persona la storia di un principe partito per esplorare il regno di suo padre fino ai più remoti confini. Per mantenere i contatti durante il viaggio, decide di farsi accompagnare dai sette migliori cavalieri ai quali affida il compito di riferire alla corte i suoi messaggi. Impone loro dei nomi – Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio – e già il giorno seguente ordina al primo di tornare indietro, via via seguendo un ordine alfabeticamente progressivo. Non passa molto tempo, però, ed egli si accorge che più si allontana da casa, più si dilata l’intervallo tra l’arrivo di due messaggeri, dovendo questi coprire la distanza tra l’accampamento e la capitale e poi tornare indietro, fino a raggiungere di nuovo il principe che nel frattempo avrà proseguito il cammino. Quando sono passati più di otto anni, il principe ci riferisce che Domenico, benché appena tornato e ancora stravolto dalla fatica, ripartirà l’indomani con l’ultima lettera: ultima perché, secondo i calcoli, soltanto dopo trentaquattro anni egli raggiungerà nuovamente il principe, il quale allora ne avrà settantadue. Non ci sarà tempo per un altro messaggio e forse, confessa il narratore ormai debole e stanco, egli non riuscirà nemmeno a leggere la risposta che gli verrà trasmessa allora. Dopo aver rapidamente chiarito il suo ruolo e la sua missione, il principe racconta: “Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino”, racconta.

È una ‘felice coincidenza’ il fatto che Boetti (nato il 16 dicembre 1940) avesse anch’egli poco più che trent’anni al tempo del primo telegramma. Ecco il calcolo che il principe fa: “Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi”. Ma “dopo cinquanta giorni di cammino, l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente”, fino a quando “trascorsi che furono sei mesi […] l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi”. Se leggiamo le date di invio dei telegrammi, ci rendiamo facilmente conto di questa dilatazione temporale: i primi sette sono stati inviati tutti nel 1971, quattro dei quali entro lo stesso mese di maggio, poi gli intervalli diventano a poco a poco più lunghi. Ovviamente nel lavoro di Boetti i silenzi non sono dovuti alla naturale lentezza dell’uomo in cammino e nemmeno ai ritardi del sistema postale, bensì sono il risultato di una precisa operazione matematica che li presupponeva sin dall’inizio.

Telegramma 3Come nella Serie di merli i segni del tempo si rendono manifesti grazie al progressivo degrado del materiale (i telegrammi sono ingialliti, la colla ha macchiato la carta, l’inchiostro dei timbri è quasi sbiadito), così dal racconto del principe sappiamo appunto che “le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava” e che “mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire”.

“I più recenti messaggi”, prosegue il principe, “mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto, che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare”. Se consideriamo l’arco temporale che separa il primo telegramma dall’ultimo, è facile constatare quante cose fossero davvero cambiate nel mondo in ventidue anni: era mutata la situazione in Afghanistan, l’amato Paese meta di tanti viaggi dove, in conseguenza dell’invasione sovietica del 1979, Boetti non sarebbe più potuto tornare. La caduta simbolica del Muro di Berlino aveva avuto come risultato la disgregazione dei due blocchi che per anni erano stati ideologicamente contrapposti e che le Mappe, con l’immediatezza del loro pattern cromatico, avevano saputo rendere evidenti. E, ancora, è nell’anno dell’ultimo telegramma che viene resa pubblica quella tecnologia alla base del World Wide Web che avrebbe cambiato per sempre la comunicazione tra due punti del mondo (lungo il bordo di una mappa del 1979 Boetti aveva fatto profeticamente ricamare: “annullando le distanze tra Roma e Kabul”).

“Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani”, continua il principe. Per illustrare come il popolo afghano avesse, all’epoca dei loro viaggi, una conoscenza della geografia circoscritta alla dimensione territoriale, Anne-Marie Sauzeau ha riferito questo aneddoto: “Per gli Afghani esiste persino un equivalente della carta geografica nel corpo umano, nella mano: per spiegarvi la strada […] un afghano, anche un ragazzino, chiuderà quattro dita sul palmo destro tenendo il pollice teso […] e lì, sull’interno della propria mano rivolta verso l’interlocutore, traccerà la pista con l’indice sinistro, suggerendo tappe e distanze, in ore, mai in chilometri”. Se è vero che Buzzati situa la sua narrazione in un area non geograficamente determinata – parla di praterie, boschi, deserti ma, eccezion fatta per la remota capitale senza nome, non di città -, è interessante il fatto che il suo principe misuri non quanta strada ha percorso ma quanto tempo è passato da quando si è messo in cammino.

Arriviamo così alla consapevolezza finale: “Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico. […] Da quasi sette anni non lo rivedevo. […] Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere”. Il principe buzzatiano teme dunque per la propria vita e sa con certezza che la sua impresa sarà destinata a fallire: “Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera, il buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto”.

Roberta Aureli (leggi altri post sul Tempo di Roberta Aureli su Play Chess with Marcel)

Immagini tratte dal catalogo generale dell’opera di Alighiero Boetti, a cura di  J.C. Amman, vol. I, Electa, Milano 2009