31 Gennaio

31 gennaio 2016

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Che M. fosse costretto a simulare quell’ultima sera – fu mercoledì 31 gennaio 1973 – quando arrivò all’improvviso dopo una lunga assenza, in compagnia della sua amica, molto più giovane di lui, una sua ex allieva, per restituire un libro preso in prestito (Musil: L’uomo senza qualità), era nella natura delle cose. Sapeva che era l’ultima sera della sua vita. Nella giacca a vento che la ragazza appese in corridoio doveva trovarsi la lettera che spedirono quella sera stessa: dissero che non potevano trattenersi, dovevano ancora andare alla posta

Christa Wolf, Trama d’infanzia, 1976, tr. it. A. Raja, edizioni e/o, 1992, pp. 126-7

Raffronti di date e continui salti dall’oggi (gli anni Settanta in cui il libro viene scritto) all’oggi (gli anni Trenta, Quaranta e oltre) della materia raccontata: la scrittrice tesse una vera trama nel tempo, mentre narra di Nelly, bambina e adolescente durante il Nazismo e la guerra, della sua famiglia, della sua città, passata dalla Germania alla Polonia, dei mutamenti di regime, delle ondate di paura, delle speranze, dell’aderenza al presente che continuamente si aggiorna.
Il libro è costellato di riflessioni sul tempo: “Il passato non è morto; non è nemmeno passato. Ce ne stacchiamo e agiamo come fosse estraneo” e soprattutto di date, come questa del 31 gennaio del 1973, un’incursione del ‘presente’ nell’allora (il 1935) che viene raccontato nella pagina.

Dicono del libro

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30 Gennaio

30 gennaio 2016

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Martedì, 30 gennaio.
Niente di nuovo.
Ho lavorato dalle nove all’una in biblioteca. Ho sistemato il capitolo XII e tutto ciò che concerne il soggiorno di Rollebon in Russia fino alla morte di Paolo I. Ecco un lavoro fatto: non rimarrà che metterlo in pulito.
È l’una e mezzo. Sono al caffè Mably, mangio un sandwich, tutto è pressoché normale. […]
È curioso: ho già riempito dieci pagine e non ho detto la verità – o almeno, non tutta la verità. Quando ho scritto sotto la data, “Niente di nuovo” ero in malafede: v’era una piccola storia, infatti, né vergognosa né straordinaria, che si rifiutava di uscire. “Niente di nuovo”. Ammiro come si possa mentire appoggiandosi sulla ragione. In realtà, se vogliamo, non è accaduto niente di eccezionale: stamane, alle otto e un quarto, uscendo dall’albergo Printania per andare in biblioteca, volevo raccogliere una carta che strisciava per terra e non ci sono riuscito. È  tutto qui, e non è nemmeno un avvenimento.

Jean-Paul Sartre, La nausea, 1938, tr. it. B. Fonzi, Einaudi 1990, pp. 17-21

Dopo un “foglio senza data” e il lunedì 29 gennaio 1932, quella del 30 gennaio è la seconda data esplicita che compare nei quaderni di Antoine Roquentin, in un diario che ha avuto inizio nel mese di gennaio di quell’anno. Le date delle annotazioni successive sono alluse solo con l’indicazione del giorno della settimana. Dopo aver viaggiato l’Europa, l’Africa del nord e l’Estremo Oriente, Roquentin si è stabilito nella città di Bouville per fare delle ricerche storiche sul signor di Rollebon. Ha deciso, in quel gennaio degli anni Trenta, di tenere una diario, dove si trova a registrare l’esistere. Fra osservazioni di dettagli, analisi di sensazioni infrasottili, piccoli avvenimenti dai grandi effetti, risaltano, nella trama del diario, le annotazioni sul tempo, anch’esso portatore di nausea: “Questo è il tempo, né più né meno che il tempo, giunge lentamente all’esistenza, si fa attendere, e quando viene si è stomacati perché ci si accorge che era già lì da un pezzo” e sull’addizione “interminabile e monotona”  dei giorni, che si aggiungono gli uni agli altri “senza capo né coda”. 

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29 Gennaio

29 gennaio 2016

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“E chi comprerebbe un albergo morto in una città fantasma?” chiese piano il signor Terle. “No. No, ce ne staremo qui seduti e aspetteremo; aspetteremo il grande giorno, il 29 gennaio”.
Lentamente, i tre uomini smisero di dondolare.
29 gennaio.
L’unico giorno in tutto l’anno quando veramente il tempo mollava e si metteva a piovere.
“Non abbiamo molto da aspettare.” Il signor Smith inclinò l’orologio d’oro che sembrava una luna piena nel palmo della mano. “Fra due ore e nove minuti sarà il 29 gennaio. Ma non vedo nemmeno una nuvola in diecimila miglia”.
“Ha piovuto tutti i 29 gennaio dacché sono nato”

Ray Bradbury, Il giorno in cui piovve sempre, 1959, tr. it. L. Grimaldi, in Il grande mondo laggiù, Mondadori, 1984, p. 298

In un albergo nel deserto, fra pagine di calendario che volteggiano nella polvere, e tanta accidia, tre uomini attendono la pioggia il 29 gennaio, il giorno che non ha mai tradito le aspettative. Ma invece dell’acqua, arriverà una sorpresa altrettanto rigenerante, sotto forma della signorina Blanche, insegnante di musica e suonatrice di arpa. 

Dicono del libro
“A partire dalla metà degli anni Cinquanta Bradbury è stato considerato il più ‘letterario’ tra gli autori americani di fantascienza, a riprova della grande fortuna riscossa dalle sue opere e dalla originalità riconosciuta alle sue idee e al suo modo evocativo di raccontare”
(dall’introduzione all’ed. Mondadori, op. cit.)

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28 Gennaio

28 gennaio 2016

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28 gennaio 

Fra la fine del concerto e il primo bis trovai il suo nome e la strada. Piazza Vladas, ponte dei Mercati. Attraversando piazza Vladas proseguii fino all’inizio del ponte, un po’ camminando svelta, un po’ col desiderio di fermarmi davanti a case e vetrine, bambini ben coperti e fontane con alti eroi dagli imbiancati mantelli, Tadeo Alanko e Vladislav Néroy, bevitori di tokay e suonatori di cembalo. […]
(È più comodo parlare al presente. Questo succedeva alle otto, quando Elsa Piaggio suonava il terzo bis, credo Julián Aguirre o Carlos Guastavino, una cosa con prati e uccellini). Ma sono diventata un’imbrogliona con il tempo, non lo rispetto più 

Julio Cortázar, Lontana in Bestiario, 1951, tr. it. F. Rossini Nicoletti, Einaudi, 1965, pp. 28, 29

Terzo racconto della raccolta BestiarioLontana riporta il diario di una giovane di Buenos Aires, Alina Reyes, abile nei giochi di parole, come i palindromi (“salta Lenin el Atlas”) e gli anagrammi, fra cui risalta quello del suo stesso nome “Alina Reyes”: “es la reina y”, attraente perché la frase non si conclude. Il diario racconta l’inquietante sensazione che un’altra se stessa esista, a Budapest, e che sia una vecchia mendicante. La notte del 28 gennaio, i soggetti, i tempi dei verbi, i luoghi, le distanze, si confondono, preludendo all’incontro inquietante che accadrà di lì a pochi mesi. 

Dicono del libro


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27 Gennaio

27 gennaio 2016

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La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo

Primo Levi, La tregua, 1963, ed. cons. Se questo è un uomo. La tregua, Einaudi 1989, pp. 157-58

Con queste frasi si apre il libro di Primo Levi, La tregua, il giorno dell’ingresso dei russi nel campo di concentramento di Auschwitz. Il 27 gennaio è il giorno della memoria dell’Olocausto.

Dicono del libro
“Testimonianza sconvolgente sull’inferno dei Lager, libro della dignità e dell’abiezione dell’uomo di fronte allo sterminio di massa, Se questo è un uomo è un capolavoro letterario di una misura, di una compostezza già classiche. Levi, ne La tregua, ha voluto raccontare anche il lungo viaggio di ritorno attraverso l’Europa dai campi di sterminio: una narrazione che contempera il senso di una libertà ritrovata con i segni lasciati dagli orrori sofferti”.
(Dalla quarta di copertina dell’ed. Einaudi, op. cit.)

 

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“… 27 gennaio. L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sómogyi…”
Primo Levi, Se questo è un uomo

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“…quali sono le circostanze che provocano una perdita di coscienza di massa? In questi giorni – fine gennaio del 1975 – ricorre il trentesimo anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz…”
Christa Wolf, Trama d’infanzia

26 Gennaio

26 gennaio 2016

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Il 26 gennaio dell’anno seguente la Società Sole acquistò un edificio nella Ginza, e in quell’occasione venne trasformata in società per azioni. Il danaro avuto in deposito superava già i dieci milioni di yen, quello prestato i cinque milioni. Gli annunci pubblicitari venivano pubblicati in neretto, entro un riquadro, nella colonna degli annunci di tre righe: il prezzo era alto, ma anche gli affari aumentavano in progressione geometrica. (…) L’immenso credito di cui godeva Makoto era una conseguenza delle pericolosissime operazioni finanziarie a cui era costretto per pagare falsi dividendi come interessi, basandosi su un principio psicologico applicabile anche alle relazioni umane: nello stesso modo in cui ci fidiamo maggiormente degli amici con cui abbiamo rapporti giornalieri che dei fratelli frequentati di rado, ugualmente i creditori cadono nel panico se vedono tardare, anche di un solo mese, il pagamento degli interessi, mentre tendono a dimenticare il capitale dato in prestito se vengono pagati puntualmente

Yukio Mishima, L’età verde, 1950, tr. it. L. Origlia, Mondadori, 1994, p. 113

Nel Giappone del dopoguerra, in cui tutti  “avevano perduto, a causa della guerra, il sentimento utopico di una durata nel tempo”, il giovane protagonista Makoto compie la sua formazione. Ispirato a uno studente di legge morto suicida per il fallimento della sua finanziaria, anche il personaggio Makoto, più che dagli studi, è attratto dai movimenti del denaro, che analizza razionalmente, così come fa con le sue giornate, scandite da un “diario ad orologio”. Inflazione, usura, passaggio sono termini intercambiabili per i soldi e il tempo. 

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25 Gennaio

25 gennaio 2016

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La fine di Quattro segue a poca distanza quella di Mosca: e fu precisamente nella notte fra il 25 e il 26 gennaio. […] La notte del 25, pioveva a rovesci, e Quattro si era coperto la testa di un caschetto coloniale, da lui tinto di nero per mimetizzarlo, e sotto il quale la sua faccia tonda di contadinello scompariva quasi fino al naso. Aveva con sé il suo mitra, predato al nemico; e si portava, naturalmente, la sua solita munizione notturna di chiodi quadripunte, la quale invero, stanotte, era piuttosto magra. Difatti, la rifornitura dei chiodi era diventata difficile, da quando alcuni fabbri amici che li producevano (romani, in prevalenza) erano stati “fermati” e portati all’ammazzatoio. E da ultimo, Quattro aveva preso a fabbricarseli lui stesso in una fucina di paese, in complicità col garzoncello e di nascosto dal padrone. […] Il crocevia, quella notte, era un punto di azzardo estremo. Ci si incrociava il traffico da Cassino e quella da Roma e dal Nord

Elsa Morante, La storia, Einaudi 1974, pp. 297-98

Gennaio è il mese in cui le vicende del romanzo La Storia hanno avuto inizio “Un giorno di gennaio dell’anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma”. Dall’incontro fra quel soldato di passaggio e Ida Ramundo, maestra elementare che si sarebbe dovuta chiamare Aida (“come sei bella” avrebbe cantato Rino Gaetano tre anni dopo l’uscita del libro della Morante), è nato Useppe. Sono passati tre anni ed è il gennaio 1944: il 22 gli alleati sono sbarcati ad Anzio, ma i tedeschi resistono e il fronte è fermo a Cassino. Ida e Useppe si riparano dai pericoli e dagli stenti, ricevendo notizie frammentarie dei conoscenti passati alla lotta partigiana. Gennaio è funestato di agguati e morti, fra cui quelle degli amici Quattro e Mosca, che lascia a Ida una piccola eredità nascosta in un materasso.

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24 Gennaio

24 gennaio 2016

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24 gennaio 1947. Una giornata di Cornell

“Mi sono sbarbato, vestito, ho salutato Robert sulla veranda (la mamma era a far spesa). Un saluto a Robert dal treno. Fin qui niente di particolare, ma il resto della giornata ha accumulato quel genere di ricchezza per cui il godimento dei dettagli si trasforma in un’esperienza grandiosa – sono arrivato fino alla Penn Station. Un attimo prima di infilarmi nel tunnel ho alzato lo sguardo verso i carri merci – la parola Jane scarabocchiata su un vagone a larghe lettere, rosse con una punta di rosa, poi tocchi di colori primari che si fondevano in una scena di uomini al lavoro sui binari accanto a un’alta gru montata su un vagone – tutto come in un flash, ma evocando sensazioni forti

Charles Simic, Il cacciatore di immagini, 1992, tr. it. A. Cattaneo, Adelphi, Milano 2005, p. 29

Joseph Cornell (Nyack, NY 1903 – New York 1972) è un artista statunitense noto soprattutto per la sua produzione di scatole di legno chiuse da un vetro, in cui sono assemblati oggetti d’affezione (pipe d’argilla, piume, conchiglie, quadranti, spirali) che compongono delle partiture plastiche affascinanti e dense di significati. Dai primi esemplari di scatola della metà degli anni Trenta (Untitled. Soap Bubble Set, 1936) realizzati in sintonia con le invenzioni di Max Ernst e con le suggestioni surrealiste conosciute a New York nella galleria di Julien Levy, fino agli ultimi esperimenti con la tecnica del collage, le opere di Cornell si basano tutte sulla costruzione di collegamenti e risonanze tra frammenti trovati. Dalla sua casa in Utopia Parkway, dove viveva con la madre e il fratello Robert, Cornell partiva per il centro della città, dove camminava e osservava, in cerca di quei “quattro o cinque oggetti ancora sconosciuti che vanno insieme” e che, “una volta insieme, faranno un’opera d’arte”. Nel libro Il cacciatore di immagini (in inglese Dime-store Alchemy), il poeta Charles Simic immagina una giornata di gennaio dell’artista, con le sue consuetudini e gli incontri casuali che si trasformano in sorprese e ispirazioni. Una giornata unica, come tante. 

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23 Gennaio

23 gennaio 2016

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Cruz fu destinato a un fortino della frontiera nord. Come soldato semplice, partecipò alle guerre civili; a volte combatté per la sua provincia natale, a volte contro. Il ventitré gennaio del 1856, alle Lagune di Cardoso, fu uno dei trenta bianchi che, al comando del sergente maggiore Eusebio Laprida, combatterono contro duecento indios. In quell’occasione ricevette una ferita di lancia.Nella sua oscura e coraggiosa storia abbondano le soluzioni di continuità.

Jorge Luis Borges, Biografia di Tadeo Isidoro Cruz, 1949, tr. it. F. Tentori Montalto, I Meridiani, Mondadori, 1985, I, p. 810

“El veintitrés de enero de 1856” è un giorno nella vita di Tadeo Isidoro Cruz, personaggio immaginario del poema epico argentino Martín Fierro. Per questo personaggio, Borges inventa una biografia, fatta di azioni violente e di casualità, di rivolgimenti e di date. Sappiamo che Cruz è stato concepito la notte del 6 febbraio di ventisette anni prima, da un guerrigliero che morirà di lì a poco, e che il 12 luglio del 1870 si unirà al disertore Martín Fierro. In mezzo, presta servizio come soldato sulla frontiera nord. 

Dicono del libro
“I racconti di questo libro appartengono al genere fantastico; di Biografia di Tadeo Isidoro Cruz [basta scrivere] che è una glossa al Martín Fierro”
(Jorge Luis Borges)

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22 Gennaio

22 gennaio 2016

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Non seppe resistere alla tentazione di prendere un trenino per Soria, di attraversare i campi di Castiglia, di recarsi in pellegrinaggio in un luogo sobrio e essenziale dove lo chiamava una poesia. La camera della pensione Cuevas era rimasta intatta: un tavolo, una sedia, un letto, un attaccapanni. Vagò commosso, per le stradette di quella cittadina modesta, circondata dal deserto lunare della Castiglia; poi in una libreria antiquaria, dopo ripetute insistenze, trovò un ritratto di Machado con una dedica autografa in un angolo: 22 gennaio 1939. Il poeta stava fuggendo verso la frontiera, verso la morte, stretto dal cerchio franchista

Antonio Tabucchi, Il rancore e le nuvole, 1985, in Piccoli equivoci senza importanza, ed. cons. Feltrinelli, 1988, p. 90

Nella faticosa carriera accademica – e nell’altrettanto disagevole vita familiare – del protagonista, il viaggio in Spagna segna una svolta, che lo porterà a cogliere occasioni di rivincita e di successo. Nume tutelare della sua nuova condizione è il grande poeta spagnolo Machado, che insegnò nella città di Soria, dove – nel racconto – viene ritrovata la fotografia con la dedica del 22 gennaio 1939, un mese prima che il poeta morisse, fuggendo dalla Spagna verso la Francia. 

Dicono del libro

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21 Gennaio

21 gennaio 2016

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In quel tratto della costa libica c’era allora un deserto di sabbia. Dal mare verso l’interno, dei ciglioni di roccia salivano a gradini, e sotto il primo ciglione era stata scavata una grotta profonda. La mattina del 21 gennaio 1941, un gruppo di ufficiali e soldati s’è svegliato sentendo dei cannoni che sparavano e una voce fuori della grotta che diceva: ‘Come on!’

Gianni Celati, Vita d’un narratore sconosciuto, in Narratori delle pianure, Feltrinelli 1985, p. 115

Dicono del libro
“Nel 1984, Italo Calvino così annunciava la pubblicazione di Narratori delle pianure: ‘Dopo vari anni di silenzio, Celati ritorna ora con un libro che ha al suo centro la rappresentazione del mondo visibile, e più ancora una accettazione interiore del paesaggio quotidiano in ciò che meno sembrerebbe stimolare l’immaginazione’. Queste trenta novelle, comiche e fantastiche, tristi o terribili, sulla valle del Po, mentre recuperano antiche forme narrative della tradizione novellistica italiana, sono un viaggio di ritorno alle fonti del narrare: cioè al ‘sentito dire che circola in un luogo o paesaggio’. È una figura molto cara a Walter Benjamin, quella del narratore orale, che Celati ha cercato di riscoprire viaggiando e raccogliendo storie sulle rive del Po. Celebrando con le sue novelle questa figura in via di estinzione, Celati indica una degradazione ambientale che non riguarda soltanto i paesaggi, ma anche la facoltà di raccontare e di scambiarsi esperienze. Così queste sono altrettante parabole sulla nostra epoca, e costituiscono uno sforzo per ridare all’arte narrativa una credibilità che non sia soltanto letteraria”.
(dalla scheda del libro nel sito Feltrinelli)

 

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20 Gennaio

20 gennaio 2016

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 “Non ti ricordi? Noi eravamo insieme in questo castello: ma sono memorie terribili! Non le evochiamo.”
“Sarebbe impossibile; io le ho dimenticate.”
“Le ricorderai dopo la tua morte”.
“Quando?”
“Fra venti anni, al venti di gennaio; i nostri destini, come le nostre vite, non potranno ricongiungersi prima di quel giorno.”

Igino Ugo Tarchetti, Le leggende del castello nero, 1869, in Racconti fantastici, Bompiani, 1993, p. 62

 Ambientato fra il 1830 e il 1850, questo breve racconto tocca  le corde del fantastico: la memoria di vite precedenti, oggetti che vengono dal passato, apparizioni, sogni, presagi, meditazioni sul tempo (“E d’altra parte come sentiamo noi di vivere nell’istante?”). Proprio in sogno, il protagonista viene a conoscere fatti che lo hanno riguardato trecento anni prima e, insieme, la data della sua morte. La cifra 20, ripetuta in più occasioni, chiuderà anche il racconto. 

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19 Gennaio

19 gennaio 2016

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E così fu deciso. Lasciai la scuola a Natale e il 19 gennaio, giorno del mio compleanno, circa un anno dopo che Konradin era entrato nella mia vita, partii per l’America. Prima della partenza ricevetti due lettere. La prima, in versi, era il prodotto degli sforzi congiunti di Bollacher e di Schulz: 
Piccolo Yid – vogliamo dirti addio / che tu raggiunga all’inferno i senzadio / Piccolo Yid – ma dove te ne andrai? / Nel paese da cui non si torna giammai? / Piccolo Yid – non farti più vedere / se vuoi crepare con le ossa intere.
La seconda invece, diceva:

Mio caro Hans, questa è una lettera difficile. Prima di tutto voglio dirti quanto mi dispiaccia che tu stia per partire per l’America. Non dev’essere facile per te, che ami tanto la Germania, ricominciare una nuova vita in un paese con cui né io né te abbiamo niente in comune e mi immagino l’amarezza e l’infelicità che devi provare. Tuttavia, questa è la soluzione più saggia, date le circostanze

Fred Uhlman, L’amico ritrovato, 1971, tr. it. M. Castagnone, Feltrinelli 1986, p. 83

La data del 19 gennaio segna la fine di una fase felice della vita di Hans, giovane studente ebreo, mandato dalla famiglia negli Stati Uniti per salvarsi dalle persecuzioni naziste incombenti. E’ la data della partenza, che lo allontana dall’amico Konradin (l’amico che “ritroverà”, in un modo inaspettato e toccante alla fine del racconto); è la data del suo compleanno ed  è anche la data di nascita dello scrittore Fred Uhlman, nato a Stoccarda il 19 gennaio del 1901. 

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18 Gennaio

18 gennaio 2016

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Era il diciotto gennaio del trentasette. A tarda sera, su una neve scrocchiante indurita dai passi, mentre il cielo sembrava promettere ancora neve, tanta neve quanta ne può desiderare solo chi sa come essa gli sia propizia, vidi Jan Bronski attraversare la strada e, a monte del mio appostamento, passare senza levare lo sguardo davanti alla gioielleria, poi, dopo un attimo di esitazione, fermarsi come obbedendo a un richiamo; si voltò – o meglio fu voltato – ed ecco Jan fermo davanti alla vetrina, sotto i silenti aceri dai rami carichi di neve

Günter Grass, Il tamburo di latta, 1959, tr. it. L. Secci, V. Ruberl, ed. cons. Feltrinelli 1974, p. 126

Decenni di storia europea sono ripercorsi in questo romanzo, dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra, osservati dalla città di Danzica (la città dello scrittore Grass) e narrati dal personaggio di Oskar Matzerath. Nato, nella narrazione, i primi di settembre del 1924, forse frutto della relazione adulterina della madre con il cugino Jan Bronski, Oskar ha deciso di fermare la sua crescita all’età (e all’altezza) dei tre anni, coltivando un antagonismo nei confronti del mondo, che si esprime nell’ossessione verso un tamburo di latta, da cui non si separa mai, e nella capacità di spaccare i vetri con la voce. Nell’anno 1937, in pieno regime nazionalsocialista, Oskar si dedica a far cadere in tentazione concittadini e parenti, aprendo – con la sua voce potente – delle fessure nei vetri delle gioiellerie, attraverso cui le persone, inevitabilmente, sottraggono preziosi e si trasformano in ladri. La sera del 18 gennaio, in un paesaggio innevato, Oskar sta per tentare il suo presunto padre Jan, che ruberà una collana di rubini per la mamma.
La data del 18 gennaio richiama, nella storia germanica, la proclamazione di Gugliemo I imperatore, nel 1871. 

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17 Gennaio

17 gennaio 2016

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Il giorno diciassette gennaio dello stesso anno, qualche ora prima di iniziare la celebrazione solenne per San’Antonio Abate, ovvero il santo patrono del paese, il parroco aveva ricevuto una lettera consegnata a mano dal fattore delle tenute Palla. Nella lettera si rendeva noto al signor parroco che, da un numero di anni superiore a quelli con cui si misurano le cose umane, nella parrocchia di Sant’Antonio Abate le celebrazioni solenni avevano inizio solo quando la persona più importante del paese, e cioè il marchese Palla, aveva potuto prendere posto a sedere con comodo sulla panca a lui riservata.
Don Icilio, ricevuta la lettera, attese fino alle undici in punto, con la chiesa gremita

Marco Malvaldi, Milioni di milioni, 2012, Sellerio, pp. 56-57

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16 Gennaio

16 gennaio 2016

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Il 16 gennaio, alle sei e trenta, il Marchica uccise, in ogni particolare seguendo il piano preparato dal Pizzuco, Salvatore Colasberna. Ma ci fu un intoppo nell’incontro, a metà della via Cavour, mentre il Marchica fuggiva, col suo concittadino Paolo Nicolosi, il quale nettamente lo riconobbe, e anzi lo chiamò per nome. Ne ebbe inquietudine: e questa sua inquietudine comunicò al Pizzuco quando, subito dopo, venne a raggiungerlo nella casa di campagna. Il Pizzuco si agitò, bestemmiò; poi, calmatosi, disse: “Non ti preoccupare, ci pensiamo noi”. A bordo di un camioncino di sua proprietà, il Pizzuco lo accompagnò fino alla contrada Granci, a poco meno di un chilometro da B.: ma prima gli consegnò, a saldo, altre centocinquantamila lire, che con quelle dell’anticipo facevano le trecentomila pattuite

Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, 1961, ed. cons. Einaudi 1972, p. 73

Il giorno della civetta inizia, in un paese indicato solo con l’iniziale S., con l’omicidio di un uomo alla fermata dell’autobus per Palermo, alle sei e trenta, “nel grigio dell’alba”. Alla stessa ora un altro uomo, che si è imbattuto per caso nel sicario in fuga, scompare e verrà ritrovato morto anch’egli.  Solo verso la metà della narrazione, viene indicata la data del delitto, il 16 gennaio. Nei giorni successivi, si svolgono le indagini, guidate dal capitano Bellodi, originario di Parma. Malgrado reticenze e depistaggi, l’inchiesta arriva a individuare assassini e mandanti degli omicidi, ma protezioni politiche, che dalla Sicilia giungono a Roma, ne “sfasciano”, con falsi alibi, i risultati. 

 

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15 Gennaio

15 gennaio 2016

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Il 15 gennaio la Fortuna II, insieme alla corsara Three Friends, aveva catturato sei legni nemici, e con essi faceva rotta verso Drogden, per metterli in vendita a Copenaghen, quando una delle navi andò a incagliarsi sul Middelgrund. Era un grosso brigantino carico di tela da vele, valutato sui centomila risdalleri; al mattino di quel giorno i corsari lo avevano tagliato fuori da un convoglio inglese. I vascelli inglesi li inseguivano tuttora e di fronte all’incidente inviarono subito in soccorso al brigantino un forte distaccamento composto di sei scialuppe. I corsari, dal canto loro, non erano affatto disposti a cederlo, e attaccarono gli inglesi, i quali furono ricacciati da un fuoco di mitraglia, e dovettero rinunciare al recupero. Ma il brigantino era perduto in tutti i modi. Il capitano d’una delle corsare che l’aveva abbordato, alla vista delle scialuppe nemiche, le cui forze erano in soprannumero, vi aveva appiccato il fuoco affinché non tornasse a ricadere nelle mani degli inglesi. L’incendio divampò così violento che la nave non poté essere salvata, e per tutta la notte quelli di Copenaghen poterono vedere lo smisurato terribile falò, lassù al nord

Karen Blixen, La cena a Elsinore, 1934, tr. it. A. Scalero, A. Motti, in Sette storie gotiche, ed. cons. Bompiani, 1985, p. 218, (altra ed.: Adelphi)

Nella quinta delle sue Sette storie gotiche, Karen Blixen racconta le vicende dei tre figli della famiglia De Coninck: le gemelle Fanny ed Eliza, invecchiate senza sposarsi, e l’avventuroso Morten, che ha perso la vita lontano dalla Danimarca, e torna come fantasma nella casa di Elsinore. Da ragazzo, come altri marinai della sua nazione, ha armato un battello corsaro, la Fortuna II, che ha ingaggiato diverse battaglie contro le navi inglesi. “Grandi tempi erano quelli, per chi aveva coraggio” e le date delle sue gesta sono memorabili. Fra queste, il 15 gennaio di un anno al principio dell’Ottocento, il cui ricordo permane mentre la pendola prosegue con il suo ticchettio “come per andare avanti, tanto per far qualcosa, per tutta l’eternità”.

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14 Gennaio

14 gennaio 2016

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Il quattordici gennaio del 1922, Emma Zunz, di ritorno dalla fabbrica di tessuti Tarbuch e Loewenthal, trovò in fondo all’ingresso una lettera, col timbro del Brasile, dalla quale seppe che suo padre era morto. La ingannarono, a prima vista, il francobollo e la busta; poi, la inquietò la calligrafia sconosciuta. Nove o dieci righe scarabocchiate cercavano di riempire il foglio

Jorge Luis Borges, Emma Zunz, 1949, tr. it. F. Tentori Montalto, I Meridiani, Mondadori 1985, I, p. 813

Uno dei racconti della raccolta L’AlephEmma Zunz  narra l’elaborata e dolorosa vendetta di una figlia che vuole rendere giustizia al padre ingiustamente accusato di un furto. Lo “splendido argomento” – così lo definisce lo stesso Borges – del racconto si intreccia con il tema del tempo e del trovarsi nei giorni.  Quando il 14 gennaio la giovane Emma viene a sapere che il padre è morto il 3 dello stesso mese, la notizia le fa desiderare di “trovarsi già al giorno dopo”, desiderio inutile “perché la morte di suo padre era la sola cosa che fosse accaduta al mondo e che sarebbe continuata ad accadere, senza fine”.  E ancora “i fatti gravi stanno fuori del tempo, sia perché in essi il passato rimane come scisso dal futuro, sia perché le parti che li formano non paiono consecutive”.
Il 14 gennaio compare anche nel racconto 
L’anziana signora (Il manoscritto di Brodie)

Dicono del libro

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13 Gennaio

13 gennaio 2016

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Il tredici gennaio del milleottocentosessantacinque, a mezzogiorno e mezzo, a Elena Ivanovna, la consorte di Ivan Matveič, mio colto amico e collega e in parte anche lontano parente, venne il desiderio di vedere il coccodrillo che veniva mostrato, dietro pagamento di una certa somma, nel Passage. Avendo già in tasca il biglietto per un viaggio all’estero (che voleva intraprendere non tanto per motivi di salute, quanto per curiosità) e avendo di conseguenza già ottenuto un congedo dal servizio ed essendo dunque quel mattino assolutamente libero, Ivan Matveič non solo non si oppose alla realizzazione del desiderio della sua consorte, ma anzi fu anch’egli infiammato da quella curiosità. “Splendida idea” disse tutto contento “andiamo a vedere il coccodrillo! 

Fëdor Dostoevskij, Il coccodrillo, 1865, tr. it. C. Moroni, in RaccontiMondadori, 1991, p. 667

Molti racconti cominciano con una data e Dostoevskij  esordisce con una data precisa, radicata  nel tempo-spazio dell’inverno russo; introduce così il lettore nel patto di finzione, presentando uno dopo l’altro l’ora, la città di San Pietroburgo, la galleria detta Passage, gli antefatti dell’avvenimento. Poi la storia prende una piega singolare e lo straordinario si introduce nella trama. 

Dicono del libro
“Un avvenimento insolito, o un passaggio nel Passage, racconto veritiero di come un signore, di una certa età e di un certo aspetto, fu inghiottito vivo e tutto intero dal coccodrillo del Passage, e di ciò che ne seguì”
(Dostoevskij)

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12 Gennaio

12 gennaio 2016

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Il vecchio vestito con pelliccia interna di castoro e una lobbia nera lo prese per mano ed entrarono dal cartolaio: era il giorno 12 di gennaio del 1944, in una calle oscura e fumosa di Venezia, accanto a una friggitoria. Qualcosa scendeva dal cielo, non si sa se pioggia o fumo, o microscopica fuliggine di tubi di stufe o la prima nebbia del pomeriggio. Piero non capiva ancora quel che stava per succedere. Era quello che si dice un momento di massima epoché, di sospensione. 

Goffredo Parise, Sogno (Sillabari), 2004, Adelphi, Milano 2009, p. 349

Dicono del libro
Un giorno, sul finire degli anni Sessanta, Parise vede nella piazza sotto casa un bambino con in mano un sillabario. Gli si avvicina e legge: «L’erba è verde». Sono tempi politicizzati, in cui si fa spesso ricorso a parole «difficili», e quella pagina limpida e colorata acquista il significato di un monito, un richiamo all’essenzialità della vita e della poesia: «Gli uomini d’oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie». Nasce così l’idea di una serie di brevi racconti (o romanzi in miniatura o poesie in prosa, difficile dirlo), dedicati a sentimenti umani essenziali, che disposti in ordine alfabetico compongano una sorta di dizionario”.
(dalla bandella dell’ed. Adelphi cit.)

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