Darren Almond: tra orologi e pleniluni, di Elena Lago

 

“E sono ormai convinto da molte lune / dell’inutilità irreversibile del tempo” canta Rino Gaetano in una sua canzone del 1974. Seppur reso nella sua “inutile irreversibilità”, il tempo è atteso, osservato, narrato, fotografato da Darren Almond, artista inglese, nato a Wigan nel 1971. Sin all’infanzia è affascinato dagli orari, dallo scorrere del tempo, dalle distanze geografiche. È un pendolare, un trainspotter, guarda i treni come se fosse un modo per fuggire dalla sua piccola città. Ecco la premessa al mondo degli orari e degli orologi. Gli eventi temporali sono “spazializzati” con mezzi cinematografici, si gioca tra la distanza spaziale e la presenza temporale, nell’opera del 1996 A Real Time Piece, un’istallazione video che prevedeva la proiezione dell’immagine dello studio londinese dell’artista sul muro di un negozio abbandonato, in un’altra parte della città. Un tavolo, una sedia e un orologio appeso al muro. Nessuno entra nella stanza, non accade nulla, unica eccezione, ogni sessanta secondi lo scorrere dei numeri del flip-clock che provoca un rumore sorprendente. L’opera dura 24 ore e il rumore sopraggiunge 1440 volte. Intanto, dalla finestra entra la luce che ci fa percepire non soltanto il tempo come durata, ma anche come variazione atmosferica. Gli spettatori prendono parte ad un grande orologio ambientale, un’intensa esperienza in cui il tempo viene trasformato in un evento teatrale immersivo. Questo lavoro conduce poi a Tuesday (1440 Minutes), del 1997, opera costituita da 1440 fotografie che documentano il cambiamento naturale della luce nello studio ogni minuto per ventiquattro ore (di un martedì), disposte in ventiquattro cornici con sessanta foto ciascuna.
tideTutte le opere di Almond, probabilmente, sono dei cronometri in cui diverse temporalità si fanno sentire: il tempo della memoria, il tempo del corpo umano, il tempo cosmico, il tempo misurato dagli orologi. Nel 1997 alla mostra Sensation, alla Royal Academy of Arts di Londra, espone A Bigger Clock, lavoro ispirato dagli orologi digitali nelle stazioni della British Railway. Non appena le palette dei numeri ruotano nell’orologio, il meccanismo produce un rumoroso e amplificato suono che ricorda il passaggio di ogni minuto. Lo stesso meccanismo viene ripreso circa dieci anni dopo con l’opera Tide, del 2008. Questa volta non è un solo orologio ad essere appeso alla parete, ma seicento, sincronizzati alla stessa ora. Il muro, o meglio la marea (Tide) di orologi ci ricorda con più forza che il tempo passa inesorabilmente (o irreversibilmente!), sempre tramite il suono alla fine di ogni minuto, quasi a creare una musica eterna e simultanea, come se il tempo invadesse lo spazio.
Almond non lavora solamente con il tempo numerico e meccanico dell’orologio ma anche con i tempi della natura. Sin dal 1999, si dedica ad un progetto intitolato Fullmoon, una serie di fotografie a colori che mostrano diversi paesaggi con la luna piena. La vera originalità di quest’opera sta nel fatto che Almond ha utilizzato un tempo di esposizione molto lungo, circa di quindici minuti. Un quarto d’ora capace di trasformare scenari notturni in panorami diurni. Il chiaro di luna conferisce alle immagini una qualità spettrale, infondendo nelle foto una versione contemporanea del concetto di sublime. È qui che il tempo, tramite la fotografia, dimostra di essere eterno, immutabile, ma allo stesso tempo infinitamente cangiante. L’artista afferma: “every four weeks there’s another chance to make a photograph” e segue i passi di altri artisti del passato, come Turner, Constable o Friedrich. Come lui, si reca infatti ad ammirare le scogliere dell’isola di Rügen sul Mar Baltico e le fotografa al chiaro di luna, creando un’atmosfera sospesa nel tempo.
Nel 2012, Almond si è dedicato a una serie di lavori su tela, in cui la superficie è divisa in diversi pannelli, distribuiti secondo una griglia, ciascuno dei quali riporta la metà di un numero che non coincide mai con l’altra metà. Queste opere quindi si riferiscono a un tempo che subisce una sorta di interruzione, come se il suo naturale passaggio, tanto presente nelle precedenti opere, sia inciampato in qualcosa che non gli permette di scorrere, ma lo fa tornare indietro o lo fa andare “troppo avanti”, creando una specie di vortice confuso o di diverse Possibilità di incontri (il titolo delle opere è, infatti, Chance Encounter). Questi incontri casuali generano alfabeti diversi e combinazioni variabili, nuovi modi di misurare la realtà, fatta di numeri e parole calati nel tempo.
Elena Lago

L’immagine: Darren Almond, Tide, 2008, 600 digital wall clocks, Perspex, electro-mechanics, steel, vinyl, computerized electronic control system and components, courtesy of White Cube Gallery, London.
I link alle gallerie che rappresentano Darren Almond: http://whitecube.com/ http://www.matthewmarks.com/

27 Maggio

27 maggio 2015

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Rileggo le righe precedenti e non posso fare a meno di notarvi una certa inquietudine, una certa pesantezza di respiro fin troppo significativa di quello stato d’animo in cui oggi, il 27 maggio 1943, due anni dopo la morte di Leverkühn, vale a dire due anni dopo che da una notte già fonda egli è entrato nella profondissima, io, qui a Freising sull’Isar, nel mio vecchio studio, mi accingo a iniziare la biografia dell’infelice amico che – oh possa esser così – riposa in Dio…

  Thomas Mann, Doctor Faustus, 1947, tr. it. E. Pocar, Mondadori 1984, p.19

La vita del compositore tedesco Adrian Leverkühn narrata da un amico è il sottotitolo del Doctor Faustus, la storia di un musicista la cui esistenza attraversa e riverbera le vicende della Germania della prima metà del Novecento. Dopo studi di teologia, Adrian si è dedicato alla composizione musicale; ha contratto – quasi volontariamente – la sifilide da una prostituta e, durante un soggiorno a Palestrina, ha avuto un allucinatorio incontro col diavolo, con il quale ha stretto, come Faust, un patto sul tempo: ventiquattro anni di creatività straordinaria e poi la dannazione, che arriva già in vita come perdita di sé per i postumi della malattia. La vicenda – dopo la morte di Adrian – è raccontata dall’amico Serenus Zeitblom, che comincia il suo resoconto in data 27 maggio 1943. Un altro musicista legato al diavolo – Niccolò Paganini – era morto poco più di cento anni prima, nel 1840, il 27 maggio. 

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26 Maggio

26 maggio 2015

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Giovedì 26 maggio, per un improvviso cedimento di cardini, la chiudenda del ponte dei Molini si sganciò pericolando sul lago. Il conte Tommaso alzò quegli occhi freddi e mi ingiunse di andare a chiamare maestro Bernardino. Venisse con i suoi strumenti d’ingegnere in cancelleria per disegnare i modi dei ripari e insegnarli agli artigiani. Non poteva esimersi, c’era bisogno di tutti. Con la sua solita maniera allusiva mio padre disse che il momento era venuto e si avviò, portando la sua cassetta di strumenti, verso il Palazzo. Io, sebbene affaticato, andai alla mia consueta ricognizione delle barche sotto Castello, al ponte San Giorgio.
Mi ricordo bene quella mattina di sole che pareva stregato da nuvole basse strisciate di colori plumbei che promettevano tempesta

Maria Bellonci, Delitto di Stato, 1972, in Tu vipera gentile, Mondadori, 1977, p. 80

La vicenda si svolge a Mantova fra il 1627 e il 1637 ed è raccontata da due diverse voci. La prima è quella del conte Tommaso Striggi, consigliere del Duca, che affida alle carte il resoconto delle sue azioni a difesa del ducato, a partire dall’uccisione del nano Ferrandino, che ha portato con sé una catena di altri delitti e conseguenze nefaste. L’altra voce è di Paride Maffei, il suo giovane segretario, che presenta con sguardo diverso i fatti, le persone coinvolte – fra cui i suoi familiari e l’affascinante Flaminia, amante del Duca e poi sposa di Tommaso -, mentre la città di Mantova è alle soglie della decadenza, preda dei lanzichenecchi e della peste. Ricorrono nel racconto diversi giorni di maggio, profumati di gelsomini, volubili o – come questo 26 raccontato da Paride – illuminati da una luce stregata, foriera di colpi di scena.

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25 Maggio

25 maggio 2015

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Questi documenti rivelavano tutto di me, eppure non rivelavano nulla. Rivelavano dov’ero nata. Rivelavano che ero nata il venticinque maggio 1949. Rivelavano quanto ero alta. Rivelavano che la mia pelle e i miei occhi avevano lo stesso colore, marrone, sebbene non chiarissero se avevano la stessa sfumatura. Tutti questi documenti dicevano che mi chiamavo Lucy – Lucy Josephine Potter. Io odiavo tutti e tre questi nomi

Jamaica Kincaid, Lucy, 1990, tr. it. A. Di Gregorio, Guanda, 1992, p. 134

Da una piccola isola dei Caraibi dove ha vissuto fino alla maggiore età, Lucy si è trasferita negli Stati Uniti, come governante di quattro bambine. È arrivata in quella parte della terra “in cui l’anno, con tutti i suoi trecentosessantacinque giorni, si divideva in quattro stagioni distinte”. E un anno ha trascorso in casa della famiglia americana. Quando riflette sulla sua data di nascita –  il 25 maggio, che è anche la data di nascita della scrittrice – ha appena cambiato casa e lavoro, cercando di depurare il presente  dai segnali  e dalle presenze del passato. 

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24 Maggio

24 maggio 2015

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Ci fu comunque un giorno in cui sospetto che non dovetti annoiarmi tanto e quel giorno poteva essere solo il 24 maggio, data in cui non scrissi nulla nel diario che interruppi per sempre.
Cosa poteva essere successo per farmelo interrompere così all’improvviso?
(…)
Ora che sapevo del Giudizio Universale che nel maggio del ’63, a un’età del tutto simile alla mia, Lancastre diceva di avere intravisto da adolescente, non fu strano che mi domandassi se non poteva essere esattamente il 24 maggio di quell’anno il giorno in cui lui pensò di aver assistito a quelle scene. E ciò mi fornì il pretesto per telefonare a Vilnius e domandargli se conosceva la data esatta del giorno in cui suo padre aveva avuto quelle strane visioni bibliche in calle Enrique Granados. Se mi avesse risposto che era il 24 maggio, non sarebbe stata una coincidenza da sottovalutare

Enrique Vila-Matas, Un’aria da Dylan, 2012, tr. it. E. Liverani, Einaudi 2012, pp. 269-70

L’idea che il Giudizio Universale sia già avvenuto e che tutti facciano finta di non saperlo è antica ed è richiamata dal narratore di questa intricata storia, dopo aver saputo che lo scrittore Juan Lancastre (di cui sta scrivendo una biografia), ha sostenuto di aver assistito ai preparativi per il Giudizio Universale. La scena si sarebbe svolta a Barcellona, nel maggio del 1963, quando Lancastre aveva quattordici anni. Colpito da questo racconto, il narratore ricorda di aver tenuto un diario, in quella stessa primavera, e di averlo interrotto alla data del 24 maggio, una data in cui può essere accaduto a Barcellona qualcosa di straordinario. Una rivelazione della natura del tempo, o dei tempi, che si infiltrano nella mente di chi inventa storie e le mescola con la realtà. La verifica dell’esattezza della data con il figlio di Lancastre non porta a nulla di sicuro, e il tempo si conferma coerente col nome della piccola orologeria Tempus Fugit, situata in calle Buenos Aires, all’angolo con Villaroel.
Il 24 maggio (del 1941) è la data di nascita di Bob Dylan, l’artista che risuona nel titolo e a cui il figlio di Lancastre somiglia sorprendentemente.

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23 Maggio

23 maggio 2015

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  La donna cominciò a contare sulle dita. Continuò a contare per un poco.
– Cosa state contando? – egli domandò. Ma ella continuava a contare.
– Era il 23 maggio.
– State contando i giorni, vero? Non dimenticate che luglio e agosto sono due mesi lunghi uno dopo l’altro.
– È il centonovantanovesimo giorno. Esattamente centonovantanove giorni.
– Come ricordavate che era il 23 maggio?
– Non ho che da guardare nel mio diario.
– Tenete un diario?
– È sempre divertente leggere un vecchio diario. Ma io non nascondo niente quando lo scrivo, e talvolta mi vergogno io stessa a rileggerlo

Yasunari Kawabata, Il paese delle nevi, 1934-1947, tr. it. L. Lamberti, Sawa Nakamura Deangelis, Einaudi, Torino, pp. 39-40

Dalla città di Tokyo, Shimamura è tornato in una località termale sui monti. Nell’albergo ritrova Komako, una geisha conosciuta in un suo precedente soggiorno alle terme, esattamente 199 giorni prima, il 23 di maggio. Tanto è importante la cognizione del tempo per la donna, che nei suoi diari annota a matita, su due colonne, tutto quello che le accade, dal mattino fino al momento in cui si addormenta. Anche l’uomo, complice l’atmosfera sospesa del viaggio e della montagna,  si trova a riflettere sul passato e si domanda se “il fuggevole paesaggio non si potesse intendere come un simbolo del trascorrere del tempo”.

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22 Maggio

22 maggio 2015

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Infine ritornarono Natale, Capodanno… la primavera, e il 22 maggio lasciai l’isola con il kayak carico di provviste; il mare appariva ormai piuttosto sgombro, e il ghiaccio era così levigato, che a un certo punto riuscii a farci scivolare sopra l’imbarcazione, spinto abbastanza velocemente dal vento

Matthew P. Shiel, La nube purpurea, 1901, tr. It. R. Wilcock, Adelphi, 1967, pp. 65-66

175 milioni di dollari sono il premio che verrà assegnato al primo uomo che raggiungerà il Polo Nord, i 90° gradi di latitudine. La solida nave Boreal si è messa in viaggio con diciassette uomini di equipaggio, fra cui il medico Adam Jeffson, esperto di botanica e meteorologia. La spedizione è in viaggio da più due anni e sono accaduti diversi fatti inquietanti, fra i quali è difficile distinguere quali siano allucinazioni: aurore boreali, presenze animali, colonne di ghiaccio intorno a cui pare di vedere una scritta in caratteri misteriosi e addirittura “una lunga data”. Ma il fenomeno più strano è un vapore purpureo profumato di peschi che accompagna l’esplorazione di Adam Jeffson, rimasto via via solo, in mezzo a distese di ghiaccio coperte di carcasse di animali. Il 22 maggio, piena primavera, si avventura col suo kayak sulla strada del ritorno, piena di sorprese apocalittiche.

 

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21 Maggio

21 maggio 2015

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“E poi, il 21 di maggio, Flush seppe che il giorno era venuto. Poiché quel martedì, il 21 di maggio, Madamigella Barrett si scrutò attentamente allo specchio; con arte squisita si adornò dei suoi scialli indiani; disse alla Wilson di accostar la poltrona, ma non troppo accosto; diede un tocco a questo, a quest’altro e a quest’altro ancora; e si levò a sedere eretta fra i suoi cuscini. Flush le si accucciò ai piedi, zitto zitto. Soli, insieme, attesero”

Virginia Woolf, Flush, 1933, tr. it. A. Scalero, La Tartaruga edizioni, 1991, pp. 42-43

Da quando Elizabeth Barrett ha conosciuto quello che diventerà suo marito, Robert Browning, le giornate del cocker spaniel di nome Flush non sono più le stesse. Arrivato in casa Barrett nel 1842, Flush si è adattato a vivere nella camera della Barrett, la quale, cagionevole di salute, non esce quasi mai. Rinunciando alla sua natura di cane cacciatore, Flush ha imparato a capire la sua padrona, che ricambia l’affetto con attenzioni e poesie. Da qualche mese, le lettere del signor Browning hanno portato dei cambiamenti nella routine sempre uguale delle giornate, cambiamenti che preoccupano Flush (“E che cosa avrebbe portato con sé quell’orrida primavera?”) e che preludono alla prima visita dell’uomo in casa Barrett, alle due e mezzo del pomeriggio di martedì 21 maggio. 

 

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20 Maggio

20 maggio 2015

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Il venti di maggio, alle otto della sera, tutt’e sei le batterie della brigata d’artiglieria di stanza a N., in via di trasferirsi al campo, sostarono a pernottare nel paesino di Mjestèčki. Proprio al colmo della baraonda, mentre alcuni degli ufficiali s’affancendavano intorno ai cannoni, e altri, radunati così a cavallo sulla piazza presso il sagrato, ascoltavano le indicazioni dei furieri d’alloggiamento, di dietro alla chiesa apparve un cavallerizzo in panni borghesi, su una strana cavalcatura. Era una cavallina color isabella, di piccola statura, bella di collo e corta di coda, la quale non incedeva diritta, ma un po’ di sbieco, e scandiva con le zampe certi piccoli movimenti di danza, da parer che le battessero le zampe col frustino. Quando fu accosto agli ufficiali, il cavallerizzo si sollevò il cappello, e disse: “Sua Eccellenza il luogotenente generale von Rabbeck, proprietario di queste terre, invita i signori ufficiali a favorire immediatamente in casa sua, per una tazza di tè…”. La cavallina fece un inchino, si rimise a danzare e, sempre di sbieco, tornò sui suoi passi; il cavaliere, ancora una volta, si sollevò il cappello, e, di lì a un istante, lui e la sua strana cavalcatura dileguavano là di dietro alla chiesa.

Anton Čechov, Un bacio, 1887, tr. it. A. Villa, in Racconti, Einaudi 1974, vol. II, p.282

Il timido capitano Rjabòvič, in sosta con la sua compagnia, si trova a vivere un’avventura inaspettata in casa del luogotenente von Rabbeck, che ha invitato a cena tutti gli ufficiali, la sera del 20 di maggio. Mentre si aggira per la vasta casa, cercando di tornare dalla sala del biliardo al salone, il capitano entra per sbaglio in una stanza buia, dove una donna gli getta le braccia al collo e lo bacia, per poi ritrarsi subito, appena si accorge che egli non è la persona che stava aspettando. Da quell’incontro, la scialba vita di Rjabòvič – almeno per un po’ – cambia. Con la curiosità di indovinare chi possa essere la sconosciuta, ripercorre i dettagli della serata di maggio, finestre aperte, cognac, musica, profumi di lillà, di rose, di pioppi.  È maggio anche all’inizio della vicenda di un’altra opera di Čechov, Il giardino dei ciliegi.

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19 Maggio

19 maggio 2015

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Erano calendari molto comuni, di quelli con i paesaggi che certi bottegai regalano ai clienti per Natale. Intorno a molte date si ammassavano appunti sbiaditi in una sorta di stenografia domestica che mi fu impossibile decifrare, e ogni giorno del mese era coperto dalla sua bella X. Sette anni erano stati cancellati in quel modo. Le X si interrompevano il diciannove di maggio, dieci giorni prima della morte di mia madre, piùo meno quando dalla fattoria, mi avevano portato in città a casa di mia zia. Mi pareva che neppure Iddio, avvolgendo la terra nelle tenebre e assicurando al creato il sonno ristoratore, avesse dimostrato maggiore autorità e controllo sul finire del giorno di quanto la marcia inesorabile delle X di mia madre sembrasse proclamare nel corso di quegli anni

John McGahern, Il pornografo, 1979, tr. it. S. Basso, Einaudi 1994, pp.203-4

Nel momento in cui il protagonista della storia – un giovane irlandese che per mestiere scrive racconti pornografici – si trova a riflettere sul tempo, la vicenda narrata è quasi al termine.  La zia con cui è cresciuto sta per morire; la ragazza con cui ha una relazione, relazione che vorrebbe chiudere, è incinta. Il pensiero va al mucchio di calendari trovati in casa alla morte della madre, che cancellava con una X tutti i giorni trascorsi, e a un calendario in particolare, in cui la sequenza arriva fino alla data del 19 maggio. È il grafico della marcia inesorabile del tempo, che ha portato “ciascuno di noi al punto in cui eravamo, ora e per sempre”. 

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18 Maggio

18 maggio 2015

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18.5.1930 […] Quest’alba è la prima alba del mondo. Questo colore rosa, che attraverso il giallo volge verso un caldo bianco, non si è mai posato prima sulla facciata occidentale che il caseggiato con i suoi occhi vitrei punta sul silenzio che sopraggiunge dalla luce crescente. Mai c’è stata quest’ora, o questa luce, o questo mio essere. Ciò che sarà domani sarà un’altra cosa e ciò che vedrò sarà visto da occhi ricomposti, pieni di una nuova visione. Alti monti della città! Grandi architetture che i pendii scoscesi reggono e ingrandiscono, slittare di edifici raggrumati in varie forme che la luce intesse di ombre e di ustioni: siete l’oggi, siete me

Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine, 1982 (post.), tr. it. M. J. Lancastre, A. Tabucchi, Feltrinelli 1987, p.72

Il diario di Bernardo Soares, contabile in una ditta di Lisbona, è “un’autobiografia senza fatti di un personaggio inesistente”, pieno di “riflessioni, di appunti, di impressioni, di meditazioni, di vaneggiamenti e di slanci lirici”. La registrazione continua di sensazioni minime si avvale di una sottile competenza sul tempo, sull’antichità del presente e sulle singole date, distinte dalla luce sempre mutevole dei giorni.

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Giorni e ore di Marisa Volpi

Il tempo va avanti e niente come un diario segue l’accumularsi successivo dei giorni, una data dopo l’altra. Niente però come un diario può anche cogliere – insieme alla successione – le anomalie dello scorrere del tempo, le ripetizioni e i ritorni, l’emergere imprevedibile dei ricordi, il presente inspiegabile dei sogni, la forza sospensiva dello sguardo. È quello che fa il lunghissimo diario, scritto su decine di quaderni scolastici, da Marisa Volpi, storica dell’arte, critica e curatrice di mostre, insegnante universitaria e scrittrice, scomparsa il 13 maggio 2015 (era nata a Macerata nel 1928). Sono pile di quaderni che risalgono il tempo, dall’ultimo presente fino agli anni Quaranta, riempiti di annotazioni scritte di getto o in differita, che parlano di tutto: incontri, letture, viaggi, relazioni, sogni, “cose viste”, tutti i giorni di una vita raccontata contemporaneamente durante, dopo, a volte prima che accada. Queste pile di quaderni, con le loro migliaia di pagine (in parte pubblicate in riviste e poi nel volume Le ore, i giorni. Diari 1978-2007, Medusa Edizioni 2010), sono uno dei lasciti preziosi di Marisa Volpi.
Immagine 1Nata professionalmente come storica dell’arte, esperta sia della grande pittura classicista del Seicento e Settecento, sia dell’avanguardia novecentesca; sostenitrice degli artisti americani ed europei dell’Informale, del Pop, del concettuale, Marisa Volpi dal 1978 inizia a scrivere racconti, pubblicandoli su riviste e  in raccolte. Con una di queste, Il Maestro della betulla (Vallecchi), nel 1986 vince il premio Viareggio. I racconti si distinguono fra quelli di pura finzione e ambientazione attuale e quelli ispirati alle vicende biografiche e alle opere di artisti e artiste (soprattutto romantici, simbolisti, impressionisti) fra cui vengono in mente Monet e Manet, la pittrice Berthe Morisot, lo svizzero Arnold Böcklin, i Preraffaelliti inglesi.
Il gioco del tempo, in questi racconti, si svolge su tanti piani interpolati: il presente storico dei protagonisti, il  presente di lei, la scrittrice che racconta, il  passato dei fatti avvenuti e di nuovo il presente sempre rinnovato delle opere d’arte, osservate attraverso la scrittura.
Il tempo sta lì, intorno e dentro i desideri, gli amori e le perdite, le umiliazioni, i trionfi dei personaggi e della narratrice; il tempo è il quesito invisibile da cui comincia e ricomincia ogni pagina, dove non è raro incontrare il nome di Sant’Agostino, con i brani dalle Confessioni sulla consapevolezza indicibile del tempo, e quello di Emily Dickinson, la poetessa statunitense che ha accostato nei suoi versi  l’attimo e l’eternità.
Anche nel romanzo autobiografico La casa di via Tolmino (Garzanti 1993), in cui Marisa Volpi ricostruisce gli anni di formazione, fra la città natale di Macerata, Roma, in cui la famiglia si trasferisce, Firenze, dove va a studiare e diviene amica di Carla Lonzi, i tanti luoghi dei viaggi, l’andirivieni temporale è continuo, con sbalzi – nel giro di pochi capoversi – dalla “fine degli anni Quaranta” a “un giorno d’inverno”, per poi tornare indietro a “Sette anni prima”. E iperboli, come “Era in via Tolmino, forse un secolo fa”.
Anche nei saggi di storia dell’arte, anche in quelli più fedeli a un formato storico, la capacità di evocare diversi affacci temporali dà una dimensione narrativa alla lettura storico-artistica, che la rende inconfondibile e a suo modo esemplare. Ed entrambe le attività di Marisa Volpi, quella di storica dell’arte e quella di narratrice, si appoggiano alla stesura costante dei diari, che porta con sé, e affina, una competenza nei fenomeni del tempo. Il tempo percepito internamente, il tempo atmosferico, il tempo misurato da calendari e orologi, convergono nella casa romana della scrittrice, nella sua camera che, come “la cabina di lusso di un Concorde”, vola “verso ovest”, nel tempo che arriva e che passa,  e che si ripete, anche quando pare interrompersi per sempre.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Il sito www.marisavolpi.it con le notizie delle iniziative in corso 

 

17 Maggio

17 maggio 2015

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Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito, che serviva a dividere gli spazi assegnati ai due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell’ufizio, avendo visitato l’assito, le panche, le pile dell’acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico, avesse, per compiacere all’immaginazione altrui, e più tosto per abbondare in cautela che per bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all’assito. Quel volume di roba accatastata produsse una grand’impressione di spavento nella moltitudine

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 1827-40, Garzanti, 1981, p. 435

La peste ha già cominciato a diffondersi nella zona di Milano e le autorità la affrontano in modi incerti, affidandosi all’iniziativa di pochi volenterosi, mentre gli abitanti ondeggiano fra la paura, la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza e la superstizione.  Nel maggio del 1630, quando già i lazzaretti sono pieni di malati, si diffonde la voce che il morbo sia portato a Milano da persone straniere (gli untori) che avrebbero contaminato con sostanze tossiche diversi luoghi, fra cui addirittura –  all’interno del duomo – le panche e l’assito, cioè il tramezzo di assi che separa gli uomini dalle donne. Tutto è portato all’esterno, in un giorno reso infausto da false credenze, mentre il morbo si diffonde per altre ragioni e altre strade. 


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16 Maggio

16 maggio 2015

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Il 16 maggio 1973
Una delle tante date
che non mi dicono più nulla.

Dove sono andata quel giorno,
che cosa ho fatto – non lo so.

Se lì vicino fosse stato commesso un delitto
– non avrei un alibi.

Il sole sfolgorò e si spense
senza che ci facessi caso.
La terra ruotò
e non ne presi nota

Wisława Szymborska, Il 16 maggio 1973,  La fine e l’inizio (1993), in Vista con granello di sabbia, a cura di P. Marchesani, Adelphi, 2008, p. 201

Dalle piccole misure degli attimi e dei secondi; alle ere geologiche; alle non-misure dell’eternità e dell’infinito: sono tanti i riferimenti che la poetessa polacca Szymborska (Premio Nobel nel 1996) dedica al tempo. Si può incontrare nelle sue poesie l’ora esatta del sorgere e calare del sole in un certo oggi, o la descrizione di quattro precisi minuti fra le 13 e 16 e le 13 e 20. E poi mesi e stagioni, giorni della settimana (“lo scorso martedì”) e anche, come in questo caso, la data completa di una giornata degli anni Settanta, in apparenza del tutto dimenticata.

 

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15 Maggio

15 maggio 2015

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Il 15 maggio Claude, che era rientrato dalla serata da Sandoz alle tre del mattino, stava ancora dormendo, verso le nove, quando Madame Joseph entrò con un mazzo di lillà bianchi, consegnati da un fattorino. Capì subito: Christine festeggiava in anticipo il successo del suo quadro. Era una grande giornata, per lui: si inaugurava il Salon des Refusés, una novità di quell’anno, in cui avrebbe figurato la sua opera, respinta dalla giuria del Salon ufficiale. Quel pensiero delicato, quei lillà freschi e odorosi che lo svegliavano, lo commosse profondamente, come il presagio d’una giornata fortunata

Emile Zola, L’opera, 1886, tr. it. F. Cordelli, Garzanti 1978, p.111

La vicenda raccontata nell’Opera ha avuto inizio a Parigi in una notte di giugno, durante un temporale, che fa conoscere per caso il pittore Claude Lantier, ribelle alle regole dell’Accademia, e la giovane Christine, sperduta nella città che non conosce. Si sono rivisti dopo due mesi e da allora hanno continuato a frequentarsi, prima “senza una data regolare” e poi con sempre maggiore frequenza, finché la ragazza ha acconsentito a posare nuda per un grande quadro a cui Claude sta lavorando. Il 15 maggio si apre la mostra dei pittori rifiutati dal Salon ufficiale. È “una giornata meravigliosa, con un gran cielo sereno” e Claude si avvia pieno di speranza verso la sede dell’esposizione, dove dovrà affrontare critiche, dissensi e successo di scandalo.  

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14 Maggio

14 maggio 2015

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Al largo della costa di Okinawa, il 14 maggio (il giorno dopo che lo Svedese fece quattro su quattro contro la squadra del liceo di Irvington con un singolo, un triplo e due doppi), due piloti kamikaze attaccarono la portaerei ammiraglia Bunker Hill centrando con i loro apparecchi imbottiti di bombe il ponte di volo gremito di aerei americani carichi di munizioni e pronti a decollare. La fiammata arrivò a trecento metri d’altezza, e nell’esplosiva tempesta di fuoco che infuriò per otto ore morirono quattrocento uomini, tra aviatori e marinai. Il 14 maggio 1945 – altri tre doppi per lo Svedese in una partita vincente contro l’East Side – le truppe della sesta divisione catturarono il Pan di Zucchero

Philip Roth, Pastorale americana, 1997, tr. it. Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino, 1998, pp. 210-11

La domenica di Pasqua del 1945 gli Americani invadono l’isola giapponese di Okinawa ingaggiando una battaglia che durerà fino a giugno. Nel New Jersey, il diciottenne Seymour Levov, detto lo Svedese, formidabile giocatore di baseball, segue le azioni dei Marines attraverso il Pacifico, appuntando su una carta le zone degli attacchi. La battaglia di Okinawa corre parallela al suo ultimo anno di liceo: il 14 maggio è una giornata di feroci combattimenti sul fronte e di successi sportivi per il ragazzo Levov, che cercherà di arruolarsi nei Marines, mentre la seconda guerra mondiale sta per concludersi e altri agoni lo attendono al varco della sua vita adulta.

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13 Maggio

13 maggio 2015

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Il sole, puntuale servitore di tutti i mestieri, si era appena levato e aveva cominciato a risplendere sulla mattinata del tredici maggio milleottocentoventisette, quando Mr Samuel Pickwick, destatosi come un secondo sole dal sonno, balzò in piedi, aprì la finestra della stanza da letto e volse lo sguardo sul mondo sottostante. Ai suoi piedi si stendeva Goswell Street, alla sua destra – fin dove giungeva la vista – proseguiva Goswell Street, e di fronte, al di là della strada, ecco l’altro tratto di Goswell Street.
“Anguste”, pensò Mr Pickwick, “anguste sono le vedute di quei filosofi che, paghi dell’apparenza delle cose, non ricercano la verità che vi si cela dietro. Anch’io potrei accontentarmi di contemplare per sempre Goswell Street, senza fare il minimo sforzo di penetrare le contrade nascoste che la circondano da tutte le parti.”
E avendo così tradotto in parole questa bellissima riflessione, Mr Pickwick si accinse a infilar se stesso in alcuni abiti e a infilarne altri nella valigia

Charles DickensIl Circolo Pickwick, 1836-37, tr. It. G. Lonza, Garzanti 1990, col. I, pp. 28-29

Il “primo giorno di viaggio e la prima serata di avventure”  del Circolo Pickwick cadono il 13 di maggio del 1827. Il giorno prima, a Londra, è stata costituita una nuova sezione del Circolo, il cui nome è Inviati speciali e la cui missione è quella di viaggiare – a proprie spese – in cerca di curiosità e conoscenze, riportando all’associazione documenti e rapporti sulle esperienze fatte. Fedele a questa missione, all’alba del 13 maggio Mr Pickwick sta per uscire con valigia e telescopio verso quasi mille pagine di avventure, guai, scoperte e amicizie.  

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12 Maggio

12 maggio 2015

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12 maggio
Non so se spiriti ingannevoli aleggiano su questo paesaggio, o se è la calda, celestiale fantasia nel mio cuore, che rende così paradisiaco tutto quello che mi circonda. Proprio all’ingresso del villaggio c’è una fontana, una fontana alla quale mi sento legato come da un sortilegio, come Melusina con le sue sorelle. Scendi il pendio di un breve colle e ti trovi davanti a una grotta, in cui scendono almeno venti gradini e, in fondo, da rocce marmoree sgorga un’acqua purissima. Il muretto che la recinge in alto, formando un parapetto, gli alberi alti, che ricoprono tutt’intorno lo spiazzo, la freschezza del luogo, tutto è così attraente e così misterioso

Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther, 1774, tr. It. A. Pandolfi, Bompiani 1987, p. 11 (altra ed. Mondadori)

Nei primi giorni del maggio 1771, Werther si trova in campagna, da solo, per sistemare degli affari di famiglia. Quella del dodici maggio è la terza lettera che scrive all’amico Wilhelm per raccontare le sue giornate, durante le quali esplora il territorio, scoprendo luoghi quasi fatati e la bellezza del paesaggio tedesco in primavera. Non ha ancora conosciuto Charlotte, la ragazza di cui si innamorerà senza speranza, poiché lei andrà in sposa ad Albert. Ancora, in quel giorno di maggio, Werther è in grado di “godere del presente”, degli incontri e della natura, incondizionatamente.

 

 

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11 Maggio

11 maggio 2015

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Aprì il giornale. “Un atto di pirateria flagrante veniva consumato l’11 Maggio mercé lo sbarco di gente armata alla marina di Marsala. Posteriori rapporti hanno chiarito esser la banda disbarcata di circa ottocento, e comandata da Garibaldi. Appena quei filibustieri ebbero preso terra evitarono con ogni cura lo scontro delle truppe reali, dirigendosi per quanto ci viene riferito a Castelvetrano, minacciando i pacifici cittadini e non risparmiando rapine, devastazioni… etc. etc….”
Il nome di Garibaldi lo turbò un poco. Quell’avventuriero tutto capelli e barba era un mazziniano puro. Avrebbe combinato dei guai. “Ma se il Galantuomo lo ha fatto venire quaggiù vuol dire che è sicuro di lui. Lo imbriglieranno.”
Si rassicurò, si pettinò, si fece rimettere le scarpe e la redingote. Cacciò il giornale in un cassetto

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, 1957 (1958 post.), ed. cons. Feltrinelli, 1993, pp. 54-44

L’11 maggio del 1860, le due navi partite da Quarto, con a bordo i Mille volontari al comando di Garibaldi, sono approdate a Marsala. È l’inizio della fine

del Regno delle Due Sicilie. Nella sua villa presso Palermo, il Principe Fabrizio Salina apprende la notizia dello sbarco dal giornale che gli viene portato nel pomeriggio e riflette con lucido disincanto su quello che sta per accadere. Si è appena svegliato dal sonnellino, dopo il pranzo di famiglia, concluso con gelatina al rhum e vino, proprio di Marsala. La vicenda narrata dal

Gattopardo inizia nel maggio del 1860, e termina nel maggio del 1910: cinquant’anni durante i quali la Sicilia diventa parte del Regno d’Italia, l’Italia diventa uno stato unitario e tutto si trasforma senza cambiare.

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Il tempo in bilico di Licini nell’Amalassunta di Brandimarte

Come gli orologi di Alighiero Boetti che in un giro di quadrante, oltre al giorno effettivo, percorrono virtualmente un anno, le pagine dell’Amalassunta di Pier Franco Brandimarte (Giunti, 2015) condensano due fasi del tempo: il tempo in cui il narratore Antonio Accurti racconta il suo avvicinamento al pittore marchigiano Osvaldo Licini e gli anni della vita dell’artista, evocati dai documenti (carte e fotografie), captati dalle immagini dei suoi dipinti, intravisti come in realtà aumentata fra le strade e le case di Montevidone.
giunti

Nel paese di Montevidone (Monte Vidon Corrado, ora in provincia di Fermo), Licini era nato il 22 marzo 1894 e lì sarebbe morto – dopo intervalli trascorsi a Bologna e in Francia, oltre che al fronte – l’undici ottobre del 1958.
22 marzo e 11 ottobre. 22 e 11: due numeri, uno il doppio dell’altro, fatti ciascuno dalla ripetizione di una stessa cifra. Un caso che non vuol dire niente, se non quello che si vede, un gioco di segni che si somigliano, una danza di numeri, come quelli – enigmatici – che Licini ha disseminato nei suoi dipinti, sulla linea dell’orizzonte, fra le colline e sulla faccia degli astri (come nel dettaglio riprodotto in copertina del libro, dove si vedono il 5, il 6 e il 2).

Attirato dalla qualità misteriosa dei dipinti di Licini (i paesaggi, le composizioni astratte, la serie degli Olandesi volanti, degli Angeli, delle Amalassunte), lo scrittore Pier Franco Brandimarte (vincitore con questo testo del Premio Calvino 2014), raddoppiatosi nel personaggio Antonio Accurti, ne offre una lettura intensa e morfologica, che si riverbera anche nell’andamento della narrazione.

Un paragrafo nel passato dell’artista, uno nel presente, uno nel passato più o meno recente del narratore, un altro in un tempo incerto: la linea che si disegna leggendo ricalca la linea degli orizzonti di Licini, spezzata e fluida, o gli innesti instabili di forme che alludono a uno schema, ma non vi restano chiusi.
Fra paragrafi di ricostruzione storica, descrizioni di avvenimenti e di memorie (di Licini, del narratore, dello scrittore), ecco si aprono le vedute sul paesaggio delle Marche e sui suoi abitanti, che aiutano a sciogliere i calligrammi dei dipinti del pittore.

Dietro quei segni – ci fa vedere Brandimarte – ci sono le macchine da pesca simili a palafitte (i trabocchi), ci sono le crepe frastagliate del terreno esplorato dai rabdomanti, ci sono i camminatori eccentrici, ci sono le costellazioni di “piccoli centri disposti come l’Orsa Maggiore”.
Se il riferimento a Leopardi (per le stelle dell’Orsa e per la luna, che è una delle interpretazioni dell’Amalassunta) è d’obbligo, s’intravedono dietro queste pagine anche le Cartoline dalle Marche di Tullio Pericoli, acquerelli di colline vicine e a perdita d’occhio.

tullio

Tullio Pericoli, Cartolina dalle Marche, coll. privata

Scrive Brandimarte: “Da sempre, se penso alle Marche, rivedo questo scorcio preciso, il panorama che spazia dal mare alla sagoma tagliente del monte Ascensione che sta sopra la città di Ascoli e che ricorda un profilo umano dalle labbra protese, in cui alcuni vedono una donna che bacia e altri, chissà come, il Duce che scandisce la enne di noi…”.

Ancora una catena di somiglianze, un palinsesto del paesaggio, su cui si appoggiano storie, simboli e segni: altri indizi convenuti a sciogliere le crittografie a colori di Licini.
La “enne”, per esempio, che chiude la citazione appena trascritta, è richiamata nelle prime pagine del libro, proprio per descrivere il paesaggio marchigiano, lo spazio fra collina e collina, simile a una culla, in dialetto cùnnela, suono (e forma) che “trattiene un istante su in cima e poi ripete enne volte lo scivolo”.

luna

Lorenzo Lotto, dettaglio del Ritratto di Lucina Brembate, Bergamo, Accademia Carrara

Se la N dunque riguarda le colline (e anche  il Narratore, detto Ninì, la sua fidanzata Nina e Nanny la moglie di Licini), la P è la lettera che rappresenta il paese, la M le montagne. E la C è la luna, un semicerchio su cui Licini appoggia altre lettere, come fece nel ‘500 un altro pittore attivo nelle Marche, il veneziano Lorenzo Lotto, che vi nascose il nome di Lucina, tratteggiando le lettere CI dentro il falcetto calante.

Amalassunta è una parola che gioca con le parole, con Amalasunta figlia di Teodorico, con l’Assunzione, con l’avverbio lassù, con la luna e la matassa: dei numerosi dipinti che Licini dedica a questo magnete verbo-visivo, Brandimarte si sofferma su una versione tarda degli anni Cinquanta. Mentre interroga il quadro, che fa tutt’uno con la figura e col suo nome, lo scrittore vi riassume, con notevole sintesi, una vita, un luogo e un universo. E aggiunge un lungo elenco di associazioni che cercano di descriverla (“una meteora / un mostro-sirena in abito da sera / borotalco”) in un esercizio di ecfrasi che non esaurisce mai l’energia della visione che le ha dato origine (ma che ognuno può, volendo, proseguire). (Antonella Sbrilli @asbrilli)

Qui il link al Centro Studi Osvaldo Licini a Monte Vidon Corrado.