Un giorno su Marte, di Roberta Aureli

Ispirata da un passo delle Cronache Marziane (1950) di Ray Bradbury, l’artista australiana Sara Morawetz ha vissuto per trentasette giorni consecutivi adattando il suo orologio, la sua routine quotidiana e i suoi ritmi biologici al Tempo di Marte. Una sorta di Life on Mars, per citare il titolo di una canzone di David Bowie, l’artista da poco scomparso che ha anche lui attinto all’immaginario marziano.
I ventotto racconti fantascientifici di Bradbury sono ambientati in uno scenario futuro compreso tra il gennaio 1999 e l’ottobre 2026; Morawetz ha tratto spunto in particolare dall’episodio dell’agosto 2002 intitolato “Night Meeting”, dove si legge la frase “Where is the clock to show us how the stars stand?”.
E How the stars stand è appunto il nome della performance che ha eseguito nell’estate 2015 vivendo per l’intera durata presso la Open Source Gallery di Brooklyn: lungi dal restare reclusa nello spazio espositivo a lei destinato, Morawetz si è impegnata a uscire, a fare la spesa, a vedere i suoi amici, a compiere insomma le normali occupazioni quotidiane ma con un occhio sempre puntato sulle lancette dell’orologio di Marte.

aureli morawetz
La genesi dell’opera è legata a una riflessione sulla durata del giorno marziano: chiamato sol, dura 24 ore, 39 minuti e 35,24 secondi, circa il 2,7% in più rispetto a quello terrestre. Una differenza apparentemente minima che non è più tale sul lungo periodo: se il primo giorno lo scarto è di soli quaranta minuti, già al terzo sarà di due ore e così via fino a confondere irrimediabilmente il giorno e la notte. Un anno su Marte dura 668,5991 sol, cioè 686,98 giorni terrestri.
Sul suo ‘diario di bordo’ online Morawetz ha documentato le difficoltà riscontrate nel portare a termine il lavoro, dai disturbi del sonno a quelli, di ordine pratico, nella sua routine. Qualora avesse avuto un appuntamento con i suoi amici ma le lancette marziane avessero segnato le otto del mattino, per esempio, avrebbe dovuto portarli a colazione e non a cena; assai suggestive ed esplicite in tal senso sono le fotografie del cielo azzurro accompagnate dal titolo “My Night Sky”. In questo modo l’opera arriva a mettere in discussione la nozione stessa di Tempo, le nostre convenzioni e le consuetudini nel rapportarci ad esso, pertanto l’artista ammette che “l’idea di vivere secondo un altro tipo di tempo mi sembrava un esperimento che valesse la pena di essere compiuto al fine di comprendere meglio non soltanto il tempo di Marte ma anche il nostro”.
Mentre è impegnata a completare la tesi di dottorato presso il Sydney College of the Arts, Morawetz ha scelto di spostare l’indagine sulle interrelazioni tra l’arte e la scienza dal piano teorico a quello pratico. Già il 30 giugno dello stesso anno, in seguito alla decisione dell’International Earth Rotation and Reference Systems Service di aggiungere un ‘secondo intercalare’ (leap second) per permettere agli orologi atomici di sincronizzarsi con l’effettiva rotazione della Terra sul suo asse, l’artista aveva preparato 61/60, una performance di un solo secondo da compiere alle 19:59:60 in Times Square a New York. How the Stars Stand ha dato a Morawetz la possibilità di avviare una più stretta collaborazione con il dottor Michael Allison del Goddard Institute of Space Studies della NASA.

aureli morawetz 2
Il lavoro è iniziato il 15 luglio alle 9 del mattino per far coincidere l’ora della posizione occupata dall’artista sulla Terra (a Brooklyn) con l’ora di quella che avrebbe idealmente occupato su Marte (alle coordinate 189.400°E 40.670°N). Il tempo del pianeta rosso è stato misurato grazie all’applicazione Mars24 fornita dall’agenzia spaziale americana (http://www.giss.nasa.gov/tools/mars24/) mentre due orologi da polso e due da parete sono serviti a Morawetz per orientarsi giorno dopo giorno tra i differenti orari.
Quest’ultimo dettaglio ricorda l’installazione Timepieces (Solar System) della scozzese Katie Paterson, sviluppata nel 2014 con l’aiuto di Ian Robson del Royal Observatory di Edimburgo e di Stephen Fossey della University of London Observatory: una sequenza di nove orologi da parete permette di leggere l’ora dei pianeti del sistema solare e della Luna e di metterla in relazione con quella terrestre, oltre che di conoscere la diversa durata del giorno su ciascuno di essi (dalle 9 ore e 56 minuti di Giove alle 4223 di Mercurio).
How the Stars Stand è terminata alle 18 del 21 agosto, quando l’ora terrestre e l’ora marziana sono tornate a coincidere. In un appunto sul blog Morawetz ha lasciato una traccia suggestiva della propria esperienza: “I have been in another time – another place – somewhere in between Earth and Mars // awake and asleep… transitioning through thoughts – ideas – feelings in a real time that is entirely of my own creation…”.
Roberta Aureli (PlaychesswithMarcel)

18 Gennaio

18 gennaio 2016

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Era il diciotto gennaio del trentasette. A tarda sera, su una neve scrocchiante indurita dai passi, mentre il cielo sembrava promettere ancora neve, tanta neve quanta ne può desiderare solo chi sa come essa gli sia propizia, vidi Jan Bronski attraversare la strada e, a monte del mio appostamento, passare senza levare lo sguardo davanti alla gioielleria, poi, dopo un attimo di esitazione, fermarsi come obbedendo a un richiamo; si voltò – o meglio fu voltato – ed ecco Jan fermo davanti alla vetrina, sotto i silenti aceri dai rami carichi di neve

Günter Grass, Il tamburo di latta, 1959, tr. it. L. Secci, V. Ruberl, ed. cons. Feltrinelli 1974, p. 126

Decenni di storia europea sono ripercorsi in questo romanzo, dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra, osservati dalla città di Danzica (la città dello scrittore Grass) e narrati dal personaggio di Oskar Matzerath. Nato, nella narrazione, i primi di settembre del 1924, forse frutto della relazione adulterina della madre con il cugino Jan Bronski, Oskar ha deciso di fermare la sua crescita all’età (e all’altezza) dei tre anni, coltivando un antagonismo nei confronti del mondo, che si esprime nell’ossessione verso un tamburo di latta, da cui non si separa mai, e nella capacità di spaccare i vetri con la voce. Nell’anno 1937, in pieno regime nazionalsocialista, Oskar si dedica a far cadere in tentazione concittadini e parenti, aprendo – con la sua voce potente – delle fessure nei vetri delle gioiellerie, attraverso cui le persone, inevitabilmente, sottraggono preziosi e si trasformano in ladri. La sera del 18 gennaio, in un paesaggio innevato, Oskar sta per tentare il suo presunto padre Jan, che ruberà una collana di rubini per la mamma.
La data del 18 gennaio richiama, nella storia germanica, la proclamazione di Gugliemo I imperatore, nel 1871. 

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17 Gennaio

17 gennaio 2016

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Il giorno diciassette gennaio dello stesso anno, qualche ora prima di iniziare la celebrazione solenne per San’Antonio Abate, ovvero il santo patrono del paese, il parroco aveva ricevuto una lettera consegnata a mano dal fattore delle tenute Palla. Nella lettera si rendeva noto al signor parroco che, da un numero di anni superiore a quelli con cui si misurano le cose umane, nella parrocchia di Sant’Antonio Abate le celebrazioni solenni avevano inizio solo quando la persona più importante del paese, e cioè il marchese Palla, aveva potuto prendere posto a sedere con comodo sulla panca a lui riservata.
Don Icilio, ricevuta la lettera, attese fino alle undici in punto, con la chiesa gremita

Marco Malvaldi, Milioni di milioni, 2012, Sellerio, pp. 56-57

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1.000.053 anni al 17 gennaio 2016: l’età dell’arte

Secondo i calcoli dell’artista francese Robert Filliou (1926-1987), il 17 gennaio del 2016 l’arte arriva a compiere 1.000.053 anni. Un milione di anni – misura remota che ci porta indietro nell’indistinto della preistoria – e 53 anni: un periodo più circoscritto, che segna il tempo trascorso da quando l’artista (vicino al movimento Fluxus) fissò la ricorrenza della nascita dell’arte, l’Art’s Birthday.
Era infatti il 1963 (cinquantatré anni fa) quando Robert Filliou diede l’input a questa ricorrenza, basata su un calendario personale, “fantastico e sovversivo” (Aldo Spinelli).
artsbirthdayLa data del 17 gennaio corrisponde al compleanno di Filliou stesso e diventa la data originaria a cui far risalire la prima traccia della capacità creativa del genere umano. Geniale inventore di opere giocabili, di paradossi e di progetti partecipativi, Filliou elabora – nella sua vita cosmopolita e imprevedibile – le idee di Création permanente, Fête permanente, Eternal network, visioni laterali e alternative dei sistemi economici, dell’organizzazione sociale, della scansione del tempo feriale e festivo.
Dal 1973, prima in Germania e in Francia e poi in una rete più ampia di paesi, l’Art’s Birthday è festeggiato con iniziative disparate: la pagina artsbirthday.net raccoglie le partecipazioni all’anniversario e il programma delle iniziative. (a.s.)

16 Gennaio

16 gennaio 2016

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Il 16 gennaio, alle sei e trenta, il Marchica uccise, in ogni particolare seguendo il piano preparato dal Pizzuco, Salvatore Colasberna. Ma ci fu un intoppo nell’incontro, a metà della via Cavour, mentre il Marchica fuggiva, col suo concittadino Paolo Nicolosi, il quale nettamente lo riconobbe, e anzi lo chiamò per nome. Ne ebbe inquietudine: e questa sua inquietudine comunicò al Pizzuco quando, subito dopo, venne a raggiungerlo nella casa di campagna. Il Pizzuco si agitò, bestemmiò; poi, calmatosi, disse: “Non ti preoccupare, ci pensiamo noi”. A bordo di un camioncino di sua proprietà, il Pizzuco lo accompagnò fino alla contrada Granci, a poco meno di un chilometro da B.: ma prima gli consegnò, a saldo, altre centocinquantamila lire, che con quelle dell’anticipo facevano le trecentomila pattuite

Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, 1961, ed. cons. Einaudi 1972, p. 73

Il giorno della civetta inizia, in un paese indicato solo con l’iniziale S., con l’omicidio di un uomo alla fermata dell’autobus per Palermo, alle sei e trenta, “nel grigio dell’alba”. Alla stessa ora un altro uomo, che si è imbattuto per caso nel sicario in fuga, scompare e verrà ritrovato morto anch’egli.  Solo verso la metà della narrazione, viene indicata la data del delitto, il 16 gennaio. Nei giorni successivi, si svolgono le indagini, guidate dal capitano Bellodi, originario di Parma. Malgrado reticenze e depistaggi, l’inchiesta arriva a individuare assassini e mandanti degli omicidi, ma protezioni politiche, che dalla Sicilia giungono a Roma, ne “sfasciano”, con falsi alibi, i risultati. 

 

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15 Gennaio

15 gennaio 2016

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Il 15 gennaio la Fortuna II, insieme alla corsara Three Friends, aveva catturato sei legni nemici, e con essi faceva rotta verso Drogden, per metterli in vendita a Copenaghen, quando una delle navi andò a incagliarsi sul Middelgrund. Era un grosso brigantino carico di tela da vele, valutato sui centomila risdalleri; al mattino di quel giorno i corsari lo avevano tagliato fuori da un convoglio inglese. I vascelli inglesi li inseguivano tuttora e di fronte all’incidente inviarono subito in soccorso al brigantino un forte distaccamento composto di sei scialuppe. I corsari, dal canto loro, non erano affatto disposti a cederlo, e attaccarono gli inglesi, i quali furono ricacciati da un fuoco di mitraglia, e dovettero rinunciare al recupero. Ma il brigantino era perduto in tutti i modi. Il capitano d’una delle corsare che l’aveva abbordato, alla vista delle scialuppe nemiche, le cui forze erano in soprannumero, vi aveva appiccato il fuoco affinché non tornasse a ricadere nelle mani degli inglesi. L’incendio divampò così violento che la nave non poté essere salvata, e per tutta la notte quelli di Copenaghen poterono vedere lo smisurato terribile falò, lassù al nord

Karen Blixen, La cena a Elsinore, 1934, tr. it. A. Scalero, A. Motti, in Sette storie gotiche, ed. cons. Bompiani, 1985, p. 218, (altra ed.: Adelphi)

Nella quinta delle sue Sette storie gotiche, Karen Blixen racconta le vicende dei tre figli della famiglia De Coninck: le gemelle Fanny ed Eliza, invecchiate senza sposarsi, e l’avventuroso Morten, che ha perso la vita lontano dalla Danimarca, e torna come fantasma nella casa di Elsinore. Da ragazzo, come altri marinai della sua nazione, ha armato un battello corsaro, la Fortuna II, che ha ingaggiato diverse battaglie contro le navi inglesi. “Grandi tempi erano quelli, per chi aveva coraggio” e le date delle sue gesta sono memorabili. Fra queste, il 15 gennaio di un anno al principio dell’Ottocento, il cui ricordo permane mentre la pendola prosegue con il suo ticchettio “come per andare avanti, tanto per far qualcosa, per tutta l’eternità”.

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14 Gennaio

14 gennaio 2016

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Il quattordici gennaio del 1922, Emma Zunz, di ritorno dalla fabbrica di tessuti Tarbuch e Loewenthal, trovò in fondo all’ingresso una lettera, col timbro del Brasile, dalla quale seppe che suo padre era morto. La ingannarono, a prima vista, il francobollo e la busta; poi, la inquietò la calligrafia sconosciuta. Nove o dieci righe scarabocchiate cercavano di riempire il foglio

Jorge Luis Borges, Emma Zunz, 1949, tr. it. F. Tentori Montalto, I Meridiani, Mondadori 1985, I, p. 813

Uno dei racconti della raccolta L’AlephEmma Zunz  narra l’elaborata e dolorosa vendetta di una figlia che vuole rendere giustizia al padre ingiustamente accusato di un furto. Lo “splendido argomento” – così lo definisce lo stesso Borges – del racconto si intreccia con il tema del tempo e del trovarsi nei giorni.  Quando il 14 gennaio la giovane Emma viene a sapere che il padre è morto il 3 dello stesso mese, la notizia le fa desiderare di “trovarsi già al giorno dopo”, desiderio inutile “perché la morte di suo padre era la sola cosa che fosse accaduta al mondo e che sarebbe continuata ad accadere, senza fine”.  E ancora “i fatti gravi stanno fuori del tempo, sia perché in essi il passato rimane come scisso dal futuro, sia perché le parti che li formano non paiono consecutive”.
Il 14 gennaio compare anche nel racconto 
L’anziana signora (Il manoscritto di Brodie)

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13 Gennaio

13 gennaio 2016

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Il tredici gennaio del milleottocentosessantacinque, a mezzogiorno e mezzo, a Elena Ivanovna, la consorte di Ivan Matveič, mio colto amico e collega e in parte anche lontano parente, venne il desiderio di vedere il coccodrillo che veniva mostrato, dietro pagamento di una certa somma, nel Passage. Avendo già in tasca il biglietto per un viaggio all’estero (che voleva intraprendere non tanto per motivi di salute, quanto per curiosità) e avendo di conseguenza già ottenuto un congedo dal servizio ed essendo dunque quel mattino assolutamente libero, Ivan Matveič non solo non si oppose alla realizzazione del desiderio della sua consorte, ma anzi fu anch’egli infiammato da quella curiosità. “Splendida idea” disse tutto contento “andiamo a vedere il coccodrillo! 

Fëdor Dostoevskij, Il coccodrillo, 1865, tr. it. C. Moroni, in RaccontiMondadori, 1991, p. 667

Molti racconti cominciano con una data e Dostoevskij  esordisce con una data precisa, radicata  nel tempo-spazio dell’inverno russo; introduce così il lettore nel patto di finzione, presentando uno dopo l’altro l’ora, la città di San Pietroburgo, la galleria detta Passage, gli antefatti dell’avvenimento. Poi la storia prende una piega singolare e lo straordinario si introduce nella trama. 

Dicono del libro
“Un avvenimento insolito, o un passaggio nel Passage, racconto veritiero di come un signore, di una certa età e di un certo aspetto, fu inghiottito vivo e tutto intero dal coccodrillo del Passage, e di ciò che ne seguì”
(Dostoevskij)

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12 Gennaio

12 gennaio 2016

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Il vecchio vestito con pelliccia interna di castoro e una lobbia nera lo prese per mano ed entrarono dal cartolaio: era il giorno 12 di gennaio del 1944, in una calle oscura e fumosa di Venezia, accanto a una friggitoria. Qualcosa scendeva dal cielo, non si sa se pioggia o fumo, o microscopica fuliggine di tubi di stufe o la prima nebbia del pomeriggio. Piero non capiva ancora quel che stava per succedere. Era quello che si dice un momento di massima epoché, di sospensione. 

Goffredo Parise, Sogno (Sillabari), 2004, Adelphi, Milano 2009, p. 349

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Un giorno, sul finire degli anni Sessanta, Parise vede nella piazza sotto casa un bambino con in mano un sillabario. Gli si avvicina e legge: «L’erba è verde». Sono tempi politicizzati, in cui si fa spesso ricorso a parole «difficili», e quella pagina limpida e colorata acquista il significato di un monito, un richiamo all’essenzialità della vita e della poesia: «Gli uomini d’oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie». Nasce così l’idea di una serie di brevi racconti (o romanzi in miniatura o poesie in prosa, difficile dirlo), dedicati a sentimenti umani essenziali, che disposti in ordine alfabetico compongano una sorta di dizionario”.
(dalla bandella dell’ed. Adelphi cit.)

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100 modi di considerare il Tempo: l’esperienza di Marilyn Arsem

Cento modi di considerare il tempo: l’esperienza di Marilyn Arsem
di Lucrezia Sinigaglia
“If viewers have the time to allow themselves to slow down with me, small details will become visible”, così afferma Marilyn Arsem invitando il pubblico dell’MFA (Museum of Fine Arts) di Boston a prendere parte alle sue performance, in corso fino al febbraio 2016.
Marylin Arsem è un’artista americana, nata nel 1951. Dopo essersi laureata presso l’Università di Boston, ha iniziato a lavorare nel campo dell’arte performativa dal 1975.
Fondatrice del Mobius Artist Group di Boston (1977), un movimento di artisti che fondono assieme più tipologie d’arte all’interno dei loro lavori, ha vinto nel 2015 il “Museum of Fine Arts, Boston’s Maud Morgan Prize 2015”: un premio che viene assegnato ogni due anni a una artista donna del Massachusetts e che consiste in una somma di 10.000$ con la possibilità di un’esposizione o un’esibizione presso l’MFA.
Arsem Sinigaglia 1

Dal 9 novembre 2015 fino al 19 febbraio 2016 è possibile assistere a una serie di sue performances presso la Galleria 261 dell’MFA di Boston. Il lavoro della Arsem prende il nome di 100 Ways to Consider Time ed è un invito a mettere in pausa la vita e vivere il momento presente, fornendo una tregua temporanea al ritmo frenetico della quotidianità moderna. Marylin Arsem e l’MFA offrono al pubblico, per tutto il corso della mostra, la possibilità di partecipare a questo progetto, contribuendo con riflessioni che trattino il tema del tempo nella propria vita per posta, e-mail, o attraverso l’uso dei social network. Le osservazioni delle persone entreranno a far parte della documentazione della performance di Arsem e una selezione sarà pubblicata dall’MFA.
Le sue azioni durano sei ore al giorno per una durata totale di cento giorni. Ogni giorno la Arsem si focalizza su una singola attività che segna il passaggio del tempo; fra le tante proposte dell’artista, elenchiamo come esempi: contare senza interruzioni da uno a 5.800; passeggiare in percorsi circolari fino a raggiungere dieci miglia totali; fissare una sfera di ghiaccio che lentamente si scioglie; frantumare pietre di marmo fino a trasformarle in polvere.
Impegnare sei ore al giorno, tutti i giorni, è dispendioso; la stessa Arsem afferma che lo scorrere del tempo viene percepito in base a quello che sta facendo, al suo stato d’animo, a quello che sta pensando e al tipo di esigenze fisiche di cui risente il suo corpo. Questa operazione artistica rievoca immediatamente alla memoria la grande performance tenutasi al MoMA nel 2010 – dal 14 marzo al 31 maggio – “ The artist is present” di Marina Abramovic, nella quale l’artista, per sei giorni alla settimana, dall’apertura alla chiusura delle porte del museo, seduta immobile all’interno di una grande sala vuota, si è messa a disposizione del pubblico ospitando uno alla volta gli spettatori nella sedia posta di fronte di lei.Arsem Sinigaglia 2
Come possiamo vedere sia la Abramovic che la Arsem puntano ad un tipo di arte dal vivo, spesso partecipativa, ma “effimera”, perchè scompare non appena accade e soltanto la documentazione o un racconto di quello che è successo può testimoniarla.
L’arte invita alla riflessione e il lavoro di Marilyn Arsem, come quello di tanti altri artisti, non solo contemporanei ma anche del passato (basti pensare al famoso dipinto “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” di Gauguin presente proprio presso l’MFA di Bsoton), è di interrogarsi su domande che riguardano la vita e l’esistenza. Tali interrogativi spesso rimangono con noi anche dopo aver visto l’opera d’arte e spesso le risposte che troviamo cambiano a seconda di come cambia la nostra conoscenza del mondo. La Arsem afferma che l’opera d’arte assume tanto più significato quanto più tempo la si passa ad osservare. Come lei stessa afferma nelle risposte a un’intervista del gennaio 2016 “It requires an investment of yourself to ‘receive’ anything in return.  It is a dialogue”. Un “dialogo”, talvolta silenzioso, che offre l’opportunità di prendere in considerazione le proprie preoccupazioni circa il passaggio del tempo.
Lucrezia Sinigaglia

Immagini e risposte: courtesy Marilyn Arsem

11 Gennaio

11 gennaio 2016

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11 gennaio, 1955. Per un po’ camminai avanti e indietro attraversando la piazza nella tempesta di neve. Poi tornai nella mia stanza e mi liberai del giubbotto. Volevo cercare le parole sul dizionario. Mi tolsi gli stivali e lanciai il berretto sul lavandino. Volevo cercare le parole. Volevo cercare velleità e quotidiano e impararle a memoria, queste stronze di parole, una volta per sempre, impararne l’ortografia, la pronuncia, ripeterle ad alta voce, sillaba per sillaba – vocalizzare, produrre suoni vocali, emettere suoni, pronunciare le parole per quello che valevano. Questo è l’unico modo di sfuggire alle cose che hanno fatto di te quello che sei

Don DeLillo, Underworld, 1997, tr. it. Delfina Vezzoli, Einaudi, 1999, p.572,580

Questa frase segna la conclusione del lungo incontro che Nick Shay, uno dei personaggi-chiave di Underworld, ha avuto con padre Paulus, nel college sperimentale dei Gesuiti, in campagna, dove si trova, appena maggiorenne, dopo il riformatorio. Una frase di padre Paulus lo aveva particolarmente colpito quell’11 gennaio: “Lo vedi, come restano nascoste le cose di tutti i giorni? Perché non sappiamo come si chiamano”.

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10 Gennaio

10 gennaio 2016

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Né adagio né presto altri tre mesi erano passati. Natale si era già dissolto nella lontananza, anche il nuovo anno era venuto portando per qualche minuto agli uomini strane speranze. Giovanni Drogo già si preparava a partire. Occorreva ancora la formalità della visita medica, come gli aveva promesso il maggiore Matti, e poi sarebbe potuto andare. Egli continuava a ripetersi che questo era un avvenimento lieto, che in città lo aspettava una vita facile, divertente e forse felice, eppure non era contento. Il mattino del 10 gennaio entrò nell’ufficio del dottore, all’ultimo piano della Fortezza

Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, 1940, Mondadori, 1984, pp. 84-85

Finita l’Accademia militare, il tenente Giovanni Drogo è arrivato alla Fortezza Bastiani in settembre, con la sensazione che la sua vera vita avesse inizio allora. Trascorsi tre mesi e le feste, Drogo decide di chiedere un permesso per tornare nella sua città. Per questo si presenta alla visita medica il mattino del 10 gennaio. Ma qualcosa, alla fine, gli fa cambiare idea e resta alla Fortezza, dove il tempo si consuma “con il suo immobile ritmo”, fra abitudini, attese di azioni eroiche di cui non si crea l’occasione, ripetizioni di situazioni simili. Uno dei temi di questo racconto è la scansione irregolare del tempo, che appare continuamente come una risorsa inesauribile e come qualcosa che è sfuggito per sempre. 

 

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9 Gennaio

9 gennaio 2016

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Quattro giorni or sono, il nove gennaio, ricevetti con la posta del pomeriggio una lettera raccomandata il cui indirizzo rivelava la calligrafia del mio collega, e vecchio compagno di scuola, Henry Jekyll. Ne fui sorpreso non poco poiché non avevamo mai avuto l’abitudine di ricorrere a scambi epistolari. Oltretutto l’avevo incontrato la sera prima trattenendomi con lui a cena, e, per quanto potessi immaginare, non c’era nulla nei nostri rapporti che richiedesse una simile procedura formale. Il contenuto della missiva aumentò il mio stupore

Robert L. Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, 1886, tr. it. A. Brilli, Mondadori, 1993, p. 52

Verso le tre di un mattino d’inverno”, “in una tipica notte di marzo gelida e ventosa”, in giornate buie, senza paesaggio, si svolge lo strano caso del medico Henry Jekyll che, sperimentando droghe che alterano la personalità, si trasforma nel pericoloso criminale Edward Hyde. La reversibilità di questa trasformazione diventa via via più difficile e Hyde, verso le undici di una sera d’ottobre, uccide un uomo. Mentre Jekyll è sopraffatto dal suo rovescio, cercano di portargli aiuto l’amico avvocato Utterson e  il collega Lanyon. La data del 9 gennaio è riportata proprio nel memoriale del dottor Lanyon, che sarà testimone in diretta della metamorfosi Jekyll-Hyde e avrà fra le mani il taccuino del dottore, fitto di centinaia di date che riportano i suoi inquietanti esperimenti.

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8 Gennaio

8 gennaio 2016

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Rividi Schlaggenberg nell’anno nuovo, il sabato dopo l’Epifania, l’8 gennaio; e solo per pochi minuti, di notte, fra altra gente. Quella sera c’era una delle solite grandi baldorie o gozzoviglie in massa, preparate dal capitano di cavalleria barone von Eulenfeld, cui partecipava gente presa da tutte le parti e trasportata addirittura in automobile. (…) Era un terribile pandemonio che si scatenava attraverso i piccoli bar e caffè del centro, come attraverso le osterie suburbane e alla fine, dopo un avvicendarsi d’innumerevoli tappezzerie, caffè, bettole, alloggi privati, ateliers, cabarets e locali notturni di ogni specie, il tutto si concludeva in una di quelle perfette nebulose alla Eulenfeld che, anche per la “sbornia” (così la chiamava il capitano) a cose fatte spesso non era facile localizzare

Heimito von Doderer, I demoni, 1956, tr. it. C. Bovero, Einaudi, 1979, vol. I, p.64

 

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“L’opera di Heimito von Doderer (Vienna 1896-1966) segna l’epilogo della grande tradizione narrativa che, sviluppatasi all’ombra dell’impero absburgico in dissoluzione, culmina nei romanzi di Musil e di Broch. Ed è la risposta a quell’esperienza storica, che viene interpretata da Doderer come conseguenza di un predominio sempre piu manifesto della «falsa coscienza» ideologica. Nei «Demoni» l’autore tenta un’interpretazione personalissima – affascinante, anche se talora sconcertante – dell’alienazione che sta alla radice di buona parte della letteratura d’avanguardia. Se ne discosta tuttavia perché conserva nella sua narrazione tutto ciò che manca di solito al romanzo contemporaneo: un mondo ricco di colori e pieno di vitalità, che sprigiona una forza consolatrice e rassicurante, una padronanza assoluta del mondo poetico, una sapiente maestria nel muovere un’imponente schiera di personaggi, i cui destini intrecciati formano il tessuto imprevedibile della vita”

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7 Gennaio

7 gennaio 2016

 

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Per le anatre avevo inventato una specie di amo, fatto con spille e con acini di granturco, che mettevo a galleggiare nell’acqua sopra delle foglie che tenevo fissate con una bacchetta infilzata nel fango della riva; ma erano poche le anatre che abboccavano e se una rimaneva prigioniera, le altre andavano via con i loro voli che disegnavano una lettera altissima nel cielo.
Queste lettere delle anatre erano altri segnali del mutare dell’invernata, finché mi trovai al 7 gennaio, giorno del mio compleanno

Paolo Volponi, La macchina mondiale, 1965, Garzanti 1973, p. 206

Dal suo angolo di campagna marchigiana, Anteo Crocioni – scienziato e filosofo autodidatta, fine osservatore della natura – riflette sul sistema dell’esistente, sulle generazioni di individui che, come macchine autopoietiche, producono altri individui, ripetendo autonomamente l’opera dei progettisti dell’universo. Lavora a un trattato sulla “genesi e sulla palingenesi”, per la costituzione di una “nuova Accademia dell’Amicizia”, corredato di schemi e disegni, e ragiona sulla costruzione di macchine esperte in grado di migliorare l’evoluzione dell’uomo stesso. Emarginato e avversato dalla famiglia di origine e da quella della moglie Massimina, che scappa a Roma, Anteo pellegrina fra le Marche e la capitale, sempre inseguendo le sue ricerche e la donna amata, finché viene rimandato a casa con un foglio di via. Il giorno del compleanno, 7 gennaio, è una data immersa nella natura, nella neve, nelle tracce degli animali. Una data naturale, tanto diversa dalle date burocratiche dei verbali dei tribunali, con cui il romanzo si apre, e da quelle di cronaca nera, che si affollano verso la fine della storia. 

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6 Gennaio

6 gennaio 2016

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L’inverno terminò quell’anno sotto il segno di una congiuntura astronomica particolarmente favorevole. I pronostici colorati del calendario fiorivano in rosso sulla neve ai bordi dei mattini. Il rosso fiammeggiante delle domeniche e delle feste gettava il suo riflesso su metà della settimana, e quei giorni bruciavano a freddo in un fuoco falso, di paglia, i cuori illusi battevano per un attimo più in fretta, accecati da quel rosso annunciatore, che non annunciava niente ed era solo un allarme prematuro, una finzione colorata del calendario dipinta in vivace cinabro sulla copertina della settimana. A partire dall’Epifania, sedevamo ogni notte alla bianca parata del tavolo risplendente di calendari e di argenti, facendo solitari senza fine.

Bruno SchulzLa cometa, 1938, Kometa, tr. it. A. Vivanti Salmon, in Le botteghe color cannellaEinaudi, Torino, 2001, p. 281

Dicono del libro
“Il punto di partenza della fantasia visionaria di Bruno Schulz è l’affollata e disordinata bottega di stoffe del padre: un vecchietto-demiurgo che sconvolge in modo imprevedibile tutte le regole della fisica e della ragione. Jacob si arrampica come un ragnetto per gli scaffali, inseguendo i ragni; elabora arzigogolate cosmogonie interpretando a modo suo i segni del cielo; si circonda di specie bizzarre e variopinte di volatili, diventando anche lui una sorta di feroce condor; si trasforma in pompiere con tanto di divisa rosso fiammante e alamari d’oro… Metamorfosi, travestimenti, viaggi nello spazio e nel tempo (basta come pretesto, ad esempio, un vecchio album di francobolli) si accavallano con l’ausilio di una lingua poetica scoppiettante di metafore. Scettico sulle possibilità di conoscenza umana, Schulz aveva dato libero sfogo alla fantasia e alla «mitizzazione» della realtà. Nell’infinita varietà dei suoi aspetti, l’opera di Schulz ha una sua unitarietà. I racconti, assieme ai disegni, costituiscono un Libro: una sorta di Bibbia dell’infanzia perduta”.
(Dalla postfazione di F. M. Cataluccio, ed Einaudi)

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5 Gennaio

5 gennaio 2016

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Volle il fato che in una notte fredda e senza luna, e di insistente e fine pioggia d’alto mare, distante parecchie miglia dalla costa sud di Babàkua, il grande pittore Panizo del Valle, che indossava un impermeabile grigio quasi identico al mio, andasse ad appoggiarsi al parapetto dove stavo appoggiato anch’io, su quella nave così fiera del suo passato (nientemeno il Bel Ami con la sua storica chiglia), che ci portava in quel remoto paese dove io ero così rispettato e amato e dove avevo pilotato – che bei giorni quelli in cui si cammina senza sapere che il tempo cammina con noi – una fantastica baleniera.
Era la notte del cinque gennaio del 1917

Enrique Vila-Matas, Mi dicono che dica chi sono (Suicidi esemplari), 1991, tr. it. L. Panunzio Cipriani, Sellerio, 1994 p. 137

Nella notte nebbiosa del 5 gennaio, su una nave che sta per approdare nell’isola di Babàkua, uno strano dialogo ha luogo fra il narratore  – che si presenta come marinaio – e un pittore, che sta andando per la prima volta nel luogo da cui provengono tanti soggetti dei suoi quadri. Via via che sul ponte della nave  la conversazione prosegue, il marinaio-narratore si rivela insidioso e allarmante per il pittore, presentandogli i difetti del paese in cui stanno per approdare, e la malignità dei suoi abitanti, che il pittore ha ritratto in passato. Le insidie, le ambiguità, gli allarmi si riflettono anche nelle frasi alla rovescia che il narratore pronuncia e nel suo nome e cognome “Satam Alive” in cui risuona il termine diavolo. Intanto la nave raggiunge il porto e la vicenda si avvia a compiersi. 

Dicono del libro

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4 Gennaio

4 gennaio 2016

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Sono nato il 4 gennaio 1951, nella prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo. Lo si potrebbe quasi considerare un evento da commemorare ed è per questo che i miei genitori mi hanno chiamato Hajime che significa ‘inizio’. A parte questa singolare coincidenza, non ci sono altri particolari degni di nota riguardo la mia nascita. Mio padre lavorava in una grande società di intermediazione mobiliare, mentre mia madre era una comune casalinga. Mio padre era stato mandato a Singapore a combattere insieme agli altri studenti ed era rimasto lì in un campo di prigionia per un po’, anche dopo la fine della guerra. Nell’ultimo anno del conflitto la casa di mia madre era stata completamente distrutta dalle fiamme, dopo il bombardamento di un B29.  Quella dei miei genitori era una generazione che aveva sofferto le ferite di una lunga guerra.
Alla mia nascita, però, non era rimasto quasi nulla che potesse richiamarne alla mente il ricordo…

Haruki Murakami, A sud del confine, a ovest del sole1992, tr. it. M. De Petra, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 9

Dicono del libro

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3 Gennaio

3 gennaio 2016

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Fin da S. Silvestro spirava un forte vento di nord-est, che nei giorni seguenti si accrebbe quasi fino a diventare una tempesta, e il pomeriggio del tre gennaio corse la voce che una nave non era riuscita ad entrare in porto, ed era naufragata a cento metri dal molo; era una nave inglese… Furono tratti in salvo tutti quanti, e mezz’ora dopo, tornando a casa con Innstetten, Effi avrebbe voluto gettarsi sulla sabbia e piangere. Un sentimento puro aveva trovato nuovamente posto nel suo cuore, ed essa si sentiva infinitamente felice che fosse così. Questo era accaduto il tre di gennaio

Theodor Fontane, Effi Briest, 1895, tr. it. E. Linder, Garzanti, 1981, p. 150

Effi è stata una ragazza spensierata, che ha lasciato la casa paterna per seguire il marito nel nord della Germania, in un ambiente desolato e solitario. Gli anni sono trascorsi fra abitudini pedanti e poco calore, malgrado la nascita di una figlia. L’arrivo di un nuovo comandante del distretto, un viaggio notturno in slitta durante le feste di Natale, la trascinano nell’avventura e nell’ambiguità. Il 3 di gennaio di un anno alla fine dell’Ottocento, mentre assiste al salvataggio dei marinai, Effi prova una gioia  pura, così diversa dalla sua condizione. E quel giorno ha come un presentimento, per contrasto, dei giorni infelici che la attendono.

Dicono del libro

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In tre parole – What3words, gioco del 2 gennaio 2016

Gioco del 2 gennaio 2016: Che succede quando la passione per la geo-localizzazione incontra quella per le parole e per le loro combinazioni? E quando una griglia di 57 trilioni (milioni di milioni) di quadrati di 3 metri x 3 metri viene stesa sulla superficie del pianeta e collegata con un vocabolario di decine di migliaia di parole, combinate in gruppi di 3 per ciascuno dei quadrati della griglia?

Succede che ogni punto della terra può essere individuato senza ambiguità – oltre che dalle coordinate classiche di latitudine e longitudine – anche da queste sequenze di vocaboli. Per fare un esempio: l’indirizzo da cui questo blog viene scritto corrisponde, in questo sistema, a SOGNATA.ONESTA.MELA.
what 3 wordsTre parole semplici, certamente più facili da ricordare di lunghe stringhe di numeri e caratteri, e in grado, con la loro combinazione, di fissarsi nella memoria di chi usa questo singolare sistema di localizzazione.
Stiamo parlando di what3words, il prodotto di un’azienda britannica  fondata un paio di anni fa da Chris Sheldrick e Jack Waley-Cohen, che definiscono il risultato della loro ricerca un’interfaccia umana per latitudine e longitudine, in grado di fornire letteralmente un indirizzo a ogni punto della terra.
Si tratta di un app per dispositivi mobili (ma si può usare anche dal browser), che non ha bisogno di connessione una volta scaricata e quindi funziona anche offline, pesa meno di 10 MB e si rivolge sia a chi un indirizzo fisico ce l’ha, sia – soprattutto – a quei tre quarti della popolazione mondiale che vivono in zone o in situazioni non identificate da un sistema viario.
La natura di questa applicazione intercetta la geografia e la combinatoria, i grandi database di vocaboli e la mnemotecnica, la logistica e le iniziative sociali e umanitarie.
Massimo Lancellotti, che l’ha approfondita per lavoro, la racconta a diconodioggi – come in un diario –  dal parco marino di Mafia Island, in Tanzania,  località a cui corrispondono le terne di parole nel testo:

<TESTER.PREDICTIONS.SOPHISTICATION
Di fuori il sole equatoriale diventa ogni ora più rovente. Sono contento di non vivere in una città affollata e caotica. Qui non ho nessuna finestra da cui osservare un fattorino che impreca (OBSERVING.SWEARING.DELIVERYMAN), semmai posso mettermi a guardare un airone che passeggia lungo la linea dove rompono le onde sulla barriera corallina, esposta durante la bassa marea (HERON.BREAKERS.VERGE).
Ma il paradiso non esiste e sono SCIUPATO. (da) UMORI.ESITANTI.
Mi sento un po’ solo e cerco compagnia, SIRENETTA.CONCEDIMI.CONTATTARti(MI)!
Ma alla fine mi dico: ZITTO.ESILIATO.SISTEMATI da qualche parte, e soprattutto esci da questo delirio di luoghi e parole in cui ti sei andato a cacciare.
Ma luoghi e parole cominciano a turbinare e il gioco mi prende la mano, chissà se da qualche parte Perec e Queneau mi osservano e se la ridono, oppure invidiano il nuovo giocattolo che la tecnologia ci ha regalato: http://what3words.com
Per qualcuno non è un gioco.
Lo spiegano con estrema precisione e affabilità Chris Sheldrick, Jack Waley-Cohen e il team che lavora con loro al progetto what3words.com. Non saprei come sintetizzare di cosa si tratta meglio di quanto abbiano fatto loro stessi nella presentazione del progetto che riprendo quasi letteralmente: “Il 75% per cento della popolazione mondiale, in 135 diversi paesi, non ha un un sistema affidabile di indirizzi. Si tratta di circa 4 miliardi di persone che di fatto sono ‘invisibili’ e incontrano difficoltà enormi a ricevere consegne o aiuto, e a volte anche ad esercitare diritti civili elementari, perché non possono comunicare con esattezza dove vivono.
what3wAccesso all’acqua, segnalazione di guasti a infrastrutture, interventi di riparazione, sono resi complicati dalla mancanza di un sistema semplice di trasmissione delle coordinate e le persone che vivono in insediamenti informali, come i campi di nomadi e rifugiati, rimangono di fatto senza indirizzo”.
Facciamo un piccolo sforzo di immaginazione, noi che abbiamo cap e numeri civici, pensiamo a chi fugge da guerre o vive in favelas e slum. Con un po’ di fortuna i telefoni cellulari permettono di comunicare con parenti e amici lontani, ma come ricevere un pacco, delle medicine, un oggetto qualsiasi?
what3words prova a rispondere a questa esigenza con un sistema estremamente semplice e lineare che sostituisce (traduce) le note (e quasi impossibili da memorizzare) coordinate di longitudine e latitudine, con una sequenza unica e non ambigua di tre parole. Sì, con tre sole parole (dall’elenco sono state omesse le parole offensive e omofone), si riesce a individuare in maniera univoca ognuno dei quadrati di 3 metri x 3 in cui è stata suddivisa la superficie terrestre; e in inglese, che di parole ‘utili’ ne ha 40.000, anche quella marina; altre lingue coprono solo le terre emerse.
Provate a sperimentare quanto sia preciso il sistema dandovi appuntamento con un amico in un parco o a un concerto affollato usando le ‘coordinate’ di what3words.
L’assegnazione delle sequenze è del tutto casuale e non gerarchica, l’algoritmo crea un database ‘leggero’ che funziona anche offline, proprio per tenere conto dei problemi di connessione delle persone che più ne hanno bisogno.
Il tutto può sembrare un po’ tecnico (e consiglio vivamente una visita al loro sito a chi voglia capire meglio come funziona il sistema) ma in realtà è anche straordinariamente semplice, divertente e in fondo poetico.
Come risuonano queste sequenze di parole che avrebbero sicuramente affascinato Borges e gli operai artefici di letterature potenziali?
Per me, come frammenti di haiku, o meglio una forma compressa, zippata, di haiku. O come soluzioni di rebus che non sono mai soluzioni, ma una sorta di oracoli, di sibille.
Basta aprire l’app di what3words su uno smartphone o usare il loro sito (senza neanche registrarsi) ed ecco che la nostra casa e i suoi dintorni, i luoghi che frequentiamo, i percorsi che facciamo ogni giorno o le remote terre che raggiungiamo nei nostri viaggi, diventano passeggiate in boschi narrativi, frammenti di discorsi più o meno amorosi, inviti, suggerimenti, brandelli di pagine strappate dai libri nella biblioteca di Babele.
Oppure si possono cercare i luoghi individuati da parole che esprimono gli stati d’animo o l’idea di un momento, come YESTERDAY.NEVER.HAPPENED (al largo della Liberia), o ISLAND.AFTERNOON.BLUES (costa algerina).
Sì, noi abbiamo il lusso di giocare con le parole, il lusso che chi cerca un pozzo in una zona desertificata o ha medicine da consegnare in una certa baracca o tenda in un campo dove vivono decine di migliaia di persone, spesso non si può permettere.
Ma proprio per questo, vale la pena di parlare e far parlare di questo sistema, di farlo conoscere perché, come per molte tecnologie, è necessario raggiungere una massa critica di utenti affinché il progetto si diffonda e venga adottato da chi ne può fare la fortuna, come Google, gli sviluppatori di software e i produttori di sistemi di navigazione.>

Proprio per far conoscere a un pubblico più ampio questo interessante sistema, abbiamo pubblicato una versione breve di questo post sul settimanale Pagina99 del 2 gennaio 2016, (p. 49,) dove è proposto un gioco, a cui si può partecipare anche via Twitter con l’hashtag #what3words.

Il gioco: Geografie di letterature potenziali
Una volta andati sul sito what3words.com e scelta la lingua preferita, cliccare su Esplora la mappa.
Spostarsi sulla mappa, cercando e trascrivendo le terne di parole che individuano i proprio luoghi, casa, lavoro, amici, mète di viaggio, ma anche i dintorni dei posti che frequentiamo, perché a pochi metri ci può essere una combinazione suggestiva.
Costruire brevi storie o composizioni con le terne di arrivo e partenza di un percorso.
Le storie e i percorsi composti con questi metodi di esplorazione possono essere inviati a segreteria@pagina99.it.

Massimo Lancellotti e Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Risposte al gioco qui.