VisiTag: 20.12.2016 alla Galleria Nazionale di Roma

VisiTag è una parola-composta che unisce la visita con il tag. Che ci fanno insieme un sostantivo italiano e il termine informatico che indica l’etichettatura dei contenuti? Cercano di descrivere quello che accade il 20 dicembre 2016, nelle sale della Galleria Nazionale di Roma (viale delle Belle Arti): una visita al museo, durante la quale gli allievi e le allieve del corso di Storia dell’arte contemporanea della Sapienza osservano le opere d’arte esposte e – per ogni sala – provano a descrivere quelle opere (e le loro relazioni) usando delle parole-chiave, appunto i tag.
L’idea nasce dalla nuova sistemazione del grande museo romano, che dispone le opere della collezione (con aggiunte di prestiti temporanei) non in modo cronologico – dall’Ottocento a oggi – ma per risonanze formali, analogia di contenuti, dialoghi a distanza, nuclei di possibili mostre. Questa nuova sistemazione – che durerà fino al 2018 – è al centro di un acceso dibattito critico e suscita molte curiosità sulla sua efficacia nell’avvicinare il pubblico al piacere e alla riflessione sull’arte contemporanea e su quella del recente passato (ne ho parlato qui).
Poiché alcuni tratti di questa nuova disposizione della Galleria Nazionale rimandano alle caratteristiche degli ipertesti – la mancanza di un percorso lineare e sequenziale prestabilito, la possibilità di accedere a parti del contenuto in modo autonomo, la struttura a collegamenti – ha preso forma il progetto di visitarla appunto come un ipertesto abitabile, dove ogni visitatore marca con tag a sua scelta le singole opere e le loro connessioni.

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(Roma, Galleria Nazionale: screen shot di foto sferica da Google maps)

Del resto, l’uso di queste parole-chiave è diventato via via più comune, diffondendosi nelle comunità social e generando il fenomeno detto folksonomy, la classificazione informale dei contenuti (fra cui anche immagini e didascalie di collezioni museali), fatta dagli utenti. Come si legge nel Lessico del XXI Secolo (Treccani) i tag sono il segno di un sistema di classificazione non gerarchica, reticolare, che tende ad autorganizzarsi in forme che non possono essere del tutto indirizzate o previste dall’alto.
La descrizione per parole-chiave delle sale – il 20 dicembre 2016 – è fatta da un gruppo omogeneo di visitatori (tutti studenti universitari di storia dell’arte), che in parte già conoscono artisti e opere e che hanno in qualche caso già visitato la Galleria nel passato. Si può prevedere dunque l’emergere di termini storici e storico-critici, accanto a descrizioni dell’impatto diretto delle diverse opere nel loro nuovo contesto, e alla ricerca dei collegamenti fra un’opera e l’altra. Un conto – per esempio –  è incontrare in successione, in sale distanti e separate del museo, le sculture di Medardo Rosso e di Lucio Fontana, un altro vederle vicine le une alle altre. La plasticità del lavoro sulle materie investe anche lo spazio fra di esse e lo spazio di chi le osserva collegarsi nel tempo.
Seguendo la pianta del museo, suddivisa in quattro aree principali, la visita del 20 dicembre non segue un percorso lineare, ma procede a stella: ogni partecipante può iniziare da una qualunque delle zone, ripassare per il centro e proseguire nelle altre tre aree.
Chi conduce la visita – ma forse è meglio parlare di chi la facilita e la osserva, facendone parte – può proporre una lettura delle risposte che via via emergono, segnalando la conferma di collegamenti storici o tecnici fra le opere, valutando la ripetizione statistica di termini descrittivi o la presenza di tag isolati. Senza però trarre conclusioni teoriche o di metodo: la visita del 20 dicembre – la VisiTag – è un’esperienza pratica che prova a partire dalle descrizioni dei visitatori per risalire da lì verso i piani della storia e del suo racconto.
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Informazioni pratiche:
– esiste un gruppo chiuso di Facebook – VisiTag – all’interno del quale sono pubblicati in tempo reale i tag della visita del 20 dicembre e dove l’elaborazione dei dati prosegue nei giorni seguenti.

“La mole bianca della Galleria /D’Arte Moderna, con le sue attempate /Decorazioni e i motti tutti intorno: / Questo sol m’arde e questo m’innamora; / Non ci si pensa quanto sangue costa./ Al sommo della grande scalinata / Entrava nel museo. Luce di vetro / Piovuta dagli ampi lucernai”
Ruggero Savinio, La  Galleria d’Arte Moderna (Le Lettere, 2003)

Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Il Tempo val bene due mostre, alla Galleria Nazionale di Roma

La Galleria Nazionale di Roma presenta due mostre nelle sale di viale delle Belle Arti, entrambe incardinate sul tema del Tempo.
La prima, curata da Saretto Cincinelli e aperta fino al 29 gennaio 2017,  si intitola The Lasting. L’intervallo e la durata. Occupa la grande sala centrale e allestisce – intorno a opere di Fontana, Calder e Medardo Rosso, appartenenti alla collezione permanente – una scelta di artisti coinvolti nei termini del titolo, che mette in risonanza i concetti di persistenza e passaggio.
The Lasting rivendica l’emergenza del tempo, l’importanza del suo fluire, della durata, dell’intervallo, della sedimentazione, della latenza…” si legge nel catalogo, dove gli artisti sono raccolti in sezioni dai titoli evocativi: Il tempo della creazione e l’impronta del tempo; Il tempo della metamorfosi; Il tempo dell’interpretazione, dell’attesa e della collaborazione.
Al visitatore il compito di rintracciare questi caratteri nelle opere e fra di esse, davanti alle teche, alle miniature, alle tende sbiadite, alle lastre di cera e paraffina, alle foto di vecchi cinema, alle tracce di lumache, ai bronzi che ricalcano i legni della laguna veneziana e prendono la forma di clessidre.
La misurazione del tempo è una invenzione e una convenzione, scrive in catalogo Francesco Piccolo in uno dei 24 bellissimi appunti del suo Tentativo di catalogare il tempo, ma “il tempo che passa non è inventato”.
Nel suo fregarsene degli orologi e dei calendari, nel suo costringere il linguaggio a cercare sempre nuove metafore e acrobazie per avvicinarvisi, il tempo pervade l’arte in maniere continuamente nuove.
Bonito Oliva definisce portatori del tempo i protagonisti della sua Enciclopedia delle arti contemporanee; l’urgenza del tempo è evocata dalla XVI conferenza dell’International Society for the Study of Time (Time’s Urgency, Edimburgo 2016); il tempo, i tempi, l’oggi, il domani, il qui e ora, il tempo-reale, i fusi orari, sono ubiqui nelle ricerche, nelle mostre, negli esperimenti relazionali in corso. Per fare un esempio, l’esposizione di Manfredi Beninati (ottobre 2016, Firenze Galleria Poggiali) ha per titolo Domenica 10 dicembre 2039, una data che non esiste nel calendario, poiché quel 10 dicembre sarà un sabato.
Nel catalogo di The Lasting, la direttrice della Galleria, Cristiana Collu – che pure desidera lasciare da parte il tempo convenzionale e lineare – cita, con una sorta di affetto, due date: la festa di Ognissanti, giorno in cui ha preso in carico la Galleria e il Solstizio d’estate, giorno di inaugurazione della mostra.
Diconodioggi non può non notarle, seguendo le trame del tempo finzionale: il primo novembre è scandito dalle citazioni formidabili di tre scrittrici, Virginia Woolf,  Antonia S. Byatt, Jennifer Egan; mentre il Solstizio di giugno è ancorato alla pagina della Montagna incantata (o magica) di Thomas Mann, che ricama sul paradosso di un giorno che segna insieme il culmine della luce e l’inizio del suo decrescere.

La seconda contemporanea mostra della Galleria Nazionale si intitola Time is out of joint e si presenta come una sistemazione temporanea (fino al 2018) delle collezioni, in dialogo con alcune opere in prestito.
Anche qui una data: l’avvio della mostra è caduto il 10 ottobre, “due giorni prima della scoperta dell’America” (come si legge in un racconto di Tabucchi, Il gatto dello Cheshire), ma soprattutto il giorno in cui nell’incompiuto romanzo di René Daumal, Il Monte Analogo, il gruppo di esploratori – fra cui il narratore – si imbarca su uno yacht a due alberi dal nome L’Impossibile, diretto verso una montagna sfuggita fino ad allora all’osservazione e la cui cima è inarrivabile “con i mezzi finora conosciuti”.
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Ha un sentore di spedizione verso spazi inconsueti anche l’apertura di questa mostra, che sceglie come titolo una battuta dell’Amleto, “il tempo  [in alcune traduzioni ‘il mondo’] è fuor dei cardini; ed è un dannato scherzo della sorte ch’io sia nato per riportarlo in sesto”.
Anche in questo caso, e in modo ancora più pervasivo che in The Lasting, la mano da giocare passa subito al visitatore, che negli spazi completamente bianchi della Galleria  incontra opere accostate non per vicinanza storica, ma per analogie, collegamenti, rimandi, affinità, buon (o problematico) vicinato.
Un imponente ipertesto navigabile in grandezza naturale che, in ogni sala, invita a decifrare i nessi fra le opere che lo compongono. La linea diritta della storia che scorre da un prima a un dopo è messa da parte e il suo posto è preso dall’idea della compresenza e dell’intreccio.
Del resto, la citazione della tragedia di Shakespeare, “Time is out of joint”, è anche il titolo di un racconto distopico dello scrittore statunitense Philip K. Dick. Pubblicato nel 1959, il racconto (tradotto in italiano come Tempo fuori luogo e Tempo fuor di sesto) è uno straordinario trattato sulla natura della realtà.
In una cittadina americana, in un periodo che somiglia alla fine degli anni ’50, il protagonista è il campione di un concorso a premi, in cui bisogna indovinare in quale zona di una mappa quadrettata apparirà un omino verde. È un gioco. O almeno così sembra, fino a quando alcuni indizi portano il protagonista a dubitare che la normalità della sua vita quotidiana (compreso il concorso) sia autentica. Dettagli fuori posto, brevi allucinazioni, elenchi telefonici anacronistici: la realtà è in sincrono con chi la percepisce? è un continuo compatto, consecutivo e condiviso? o non presenta invece delle crepe – non visibili a tutti nello stesso modo e momento – attraverso cui trapelano segnali dal passato o dal futuro, strati di altri tempi?
Questa seconda mostra nella Galleria Nazionale mette decisamente in opera l’idea dello scardinamento dei tempi e del loro riversarsi nel presente.
Ogni sala si presenta  a sua volta come una mostra a tema, un’arena di collegamenti, un invito a decifrare gli indizi che collegano due o più epoche distanti, richiamate nell’attualità dello stesso luogo e del visitatore che vi si trova in quel momento. Ogni opera una porta d’uscita e d’ingresso nel tempo di chi la guarda e la ricolloca; ogni gruppo di opere un nodo di reti orizzontali e diacroniche.

Roma, Galleria Nazionale: Canova, Pascali, Penone. Ph: Stella Bottai

Roma, Galleria Nazionale: Canova, Pascali, Penone. Ph: Stella Bottai

Questo tipo di disposizione è una sfida per la didattica e anche un invito a nozze per progettare quella che attualmente si chiama gamification, cioè l’applicazione di forme di gioco in contesti non ludici.
Quanti gradi (o quadri) di separazione dividono un’opera dall’altra? per quali vie sono arrivate vicine, attraversando la storia, la rilettura critica, l’immaginazione letteraria, la serendipity? (un gioco simile è stato proposto alla Gnam nel 2015 in occasione dei Giochi di Sala).
E un gioco d’artista partecipativo è effettivamente già in corso alla Galleria Nazionale: si tratta del Museum Beauty Contest, un concorso di bellezza fra le più belle figure femminili e maschili rappresentate nelle opere della Galleria; inventato dall’artista Paco Cao, coinvolge il pubblico per diversi mesi, fino alla finale nel marzo 2017.
Ma questa proposta di disposizione è un invito a nozze anche per la progettazione di realtà aumentate che raccontino – oltre alla vita delle opere – anche le forme delle precedenti sistemazioni delle sale o per il rilascio di app (o l’avvio di laboratori) che consentano di ricreare una propria parziale configurazione temporanea. Ritrovare il pavimento specchiante di Alfredo Pirri che introduceva nella Gnam, ricostituire le quadrerie, spostare, ricombinare, fermare una configurazione.
Il tempo come linea, il tempo come cerchio, il tempo come rete, il tempo come blocco dove tutto continua ad avvenire nel momento in cui lo si racconti di nuovo, emergono come artifici paralleli di rappresentazione.

Antonella Sbrilli (@asbrilli)