12 Novembre | 12 Novembre

12 novembre 2025

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Lorsqu’il eut derrière lui refermé la porte de sa chambre, il constata qu’il n’y avait là que lui-même. Il essaya de détruire sa solitude en rangeant ses objets de toilette, ses vêtements, ses livres. Il tenta de s’exalter en pensant qu’il logeait rue de Caboul et que cette ville est la capitale de l’Afghanistan, mais sans y réussir. Il entendait tout le temps fonctionner la chasse d’eau. Il installa une petite table sous la lampe, prit un cahier tout neuf et s’assit devant la page blanche qu’il égratigna de son écriture. Vincent Tuquedenne savait que ce jour était un grand jour et qu’il inaugurait une nouvelle période de sa vie. Il lui fallait donc un cahier neuf pour son journal. Il inscrivit tout simplement sur la première feuille Journal depuis le 12 novembre 1920

Raymond Queneau, Les derniers jours, 1936

Quando ebbe richiuso la porta della stanza dietro di sé, si rese conto che lì non c’era altri che lui. Cercò di distruggere la sua solitudine mettendo in ordine gli oggetti da toeletta, i vestiti, i libri. Tentò di entusiasmarsi pensando che abitava in Rue de Caboul e che questa città è la capitale dell’Afghanistan, ma senza riuscirvi. Sentiva lo sciacquone scaricare di continuo. Collocò un tavolino sotto la lampada, prese un quaderno nuovo di zecca e si sedette di fronte alla pagina bianca che graffiò con la sua scrittura. Vincent Tuquedenne sapeva che quel giorno era un gran giorno e che inaugurava una nuova fase della sua vita. Perciò gli serviva per il suo diario un quaderno nuovo. Sul primo foglio annotò, molto semplicemente, Diario del 12 novembre 1920

Raymond Queneau, Gli ultimi giorni, 1936, tr. it. F. Bergamasco, ed. cons. Newton Compton, 2012, p. 42

A partire da ottobre, un ottobre del 1920 che, per colpa della prima guerra mondiale, non è più come prima (“le granate hanno mandato le stagioni a gambe all’aria”) compaiono via via i protagonisti del romanzo Gli ultimi giorni. Prima il signor Brabbant, poi il vecchio  professore di storia Tolut, che ritroviamo nel salotto di casa Brennuire qualche giorno dopo, l’undici di novembre (“due anni e due giorni dopo che Guillaume Apollinaire è morto”),  insieme al giovane studente Rohel. Il giorno successivo, il dodici novembre, arriva a Parigi da Le Havre un altro studente, Vincent Tuquedenne, per iscriversi al primo anno del corso di Lettere alla Sorbona. Dopo aver trascorso la giornata camminando, torna nella modesta stanza dell’albergo vicino alla stazione Saint-Lazare e si accinge a raccontare quella prima giornata. Una poesia Novembre 1920 e un tentativo di Diario del 12 novembre 1920 sono il risultato del suo primo impatto con Parigi, dove si muovono, insieme a lui e alle stagioni che ciclicamente ritornano, diversi destini. 

La citazione letta da Stefano Bollani (Dimmi Quando, DeeJay TV, 12.11.2014)

Dicono del libro
 

Altre storie che accadono oggi

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“… Il giovedì dodici novembre, il commendatore Visanio e la signora Trigliona celebrarono in gran pompa il battesimo del piccolo Nivasio…”
Alberto Savinio, Infanzia di Nivasio Dolcemare

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“… Quando Fernand de Beaumont si suicidò, il dodici novembre del 1935, Bartlebooth era nel Mediterraneo…”
Georges Perec, La vita istruzioni per l’uso

Gironi di giorni e balzi di tempo

“…tremo nella trama del tempo…”
Cercare il tempo, nell’antologia di Antonella Antonia Paolini (Il macello moderno, Nino Aragno Editore), porta in zone impervie e offre dei regali.  Intanto, la raccolta di poesie, con un prologo, inizia “in questo novembre” del 2018, e prosegue fino al 2019, anno nel quale muore Nanni Balestrini, a cui l’autrice dedica due composizioni, datate con precisione 19 e 20 maggio. Una pausa di anni – affidata alla pagina 71 del libro – conduce poi alla parte finale (“e altre poesie”) del 2023 – 2024. 
E questi sono i dati, e le date, che delimitano un tempo ben più lungo e denso, non registrabile come un diario; un tempo telescopico che va dall’infanzia al presente, incorpora esperienze vissute e lette, di dolore e di riviviscenza. 
Durante gli sbalzi di questo tempo, la “mente-corpo” dell’autrice (così la definisce Laura Pugno nella quarta di copertina) va incontro a metamorfosi profonde, i cui agenti sono i suoni e le sillabe, le lettere-formiche da cui si sente invasa e che diventano, per necessità e con grande studio, scrittura e letteratura.
“Io m’intrido di letteratura / Poi mi spremo / Scrivo, / Mi disannero”, scrive Paolini nel 2023, inventando un verbo cromatico che indica graficamente il passaggio dei segni scuri dal corpo-mente alla pagina. E subito dopo, a distanza di qualche interlinea: “Non riesco nemmeno a muovermi / incastrata nello spazio tempo”.
Una delle zone impervie esplorate da A.A. Paolini, intensa studiosa di Leopardi, sceneggiatrice e scrittrice, è la consistenza del tempo che si manifesta nel corpo, e quella del corpo che si srotola nel tempo, in intervalli di durata che includono e accostano la vita e la morte, la carne e i fantasmi, gli antichi e i moderni che vanno al medesimo macello materiale e immateriale.

In questa trama di pensieri nutriti di letteratura e di scienza, Paolini fa intravedere stati di sovrapposizione, luoghi impercepibili come il tesseratto (l’ipercubo cosmico di Interstellar), spazi mentali latenti in cui miriadi di testi sono presenti nello stesso istante:

“tremo nella trama del tempo che s’ingolfa / sempre / tante voci nella mia voce / voci vivissime di morti / li intuisco li leggo li ascolto / dacché ero bambina / La mia è un’astronave di carta”.


Tra i regali dell’antologia, le pagine di sequenze verbali e tipografiche che rimandano a paesaggi, notti, luci, atmosfere, pomeriggi, stagioni. I giorni compaiono anagrammati in gironi e a pagina 64 si allude al compleanno di un “umorista profeta” e di “un poeta profeta” nati lo stesso giorno (il 5 di marzo?). 

A. Antonia Paolini, Il macello moderno, Nino Aragno Editore, Roma 2025

(a.s.)

17 Maggio

17 maggio 2025

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Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito, che serviva a dividere gli spazi assegnati ai due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell’ufizio, avendo visitato l’assito, le panche, le pile dell’acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico, avesse, per compiacere all’immaginazione altrui, e più tosto per abbondare in cautela che per bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all’assito. Quel volume di roba accatastata produsse una grand’impressione di spavento nella moltitudine

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 1827-40, Garzanti, 1981, p. 435

La peste ha già cominciato a diffondersi nella zona di Milano e le autorità la affrontano in modi incerti, affidandosi all’iniziativa di pochi volenterosi, mentre gli abitanti ondeggiano fra la paura, la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza e la superstizione.  Nel maggio del 1630, quando già i lazzaretti sono pieni di malati, si diffonde la voce che il morbo sia portato a Milano da persone straniere (gli untori) che avrebbero contaminato con sostanze tossiche diversi luoghi, fra cui addirittura –  all’interno del duomo – le panche e l’assito, cioè il tramezzo di assi che separa gli uomini dalle donne. Tutto è portato all’esterno, in un giorno reso infausto da false credenze, mentre il morbo si diffonde per altre ragioni e altre strade. 

 

Dicono del libro
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17 Maggio

17 maggio 2015

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Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito, che serviva a dividere gli spazi assegnati ai due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell’ufizio, avendo visitato l’assito, le panche, le pile dell’acqua benedetta, senza trovar nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico, avesse, per compiacere all’immaginazione altrui, e più tosto per abbondare in cautela che per bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all’assito. Quel volume di roba accatastata produsse una grand’impressione di spavento nella moltitudine

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 1827-40, Garzanti, 1981, p. 435

La peste ha già cominciato a diffondersi nella zona di Milano e le autorità la affrontano in modi incerti, affidandosi all’iniziativa di pochi volenterosi, mentre gli abitanti ondeggiano fra la paura, la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza e la superstizione.  Nel maggio del 1630, quando già i lazzaretti sono pieni di malati, si diffonde la voce che il morbo sia portato a Milano da persone straniere (gli untori) che avrebbero contaminato con sostanze tossiche diversi luoghi, fra cui addirittura –  all’interno del duomo – le panche e l’assito, cioè il tramezzo di assi che separa gli uomini dalle donne. Tutto è portato all’esterno, in un giorno reso infausto da false credenze, mentre il morbo si diffonde per altre ragioni e altre strade. 


Dicono del libro

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