Past + Future

“Quando il presente diventa passato? Quando finisce oggi e inizia domani? E come definiamo lo spazio che si trova nel mezzo, prima che uno sia determinato come conseguenza dell’altro?”
Sono le domande che l’artista australiana Sara Morawetz pone per presentare la serie di opere Tenses. I tempi, i tempi dei verbi, la natura dei termini che indicano la percezione condivisa e personale del tempo sono il soggetto di questa serie di opere che risale al 2017 e che costituisce una delle fasi della ricerca, artistica e scientifica, che Sara Morawetz conduce sul tempo e sulla sua misurazione. 


In questa serie di opere, i termini Today, YesterdayPresent, PastFuture sono stampati neri su fondo bianco con la tecnica della stampa lenticolare, una tecnica per cui, muovendosi davanti all’immagine, il visitatore percepisce una forma che sfuma in un’altra. Nel caso delle parole, lo stato di transizione fra l’una e l’altra produce sovrapposizioni, stati indeterminati, in cui la leggibilità e il senso diventano eventi casuali, effimeri e mutanti mentre l’occhio trascorre sulla superficie.


In questi passaggi, capita che le lettere creino delle sequenze sensate, del tutto inaspettate: per chi parla italiano, nello scatto che si vede riprodotto in questo post, la somma dinamica di PAST e FUTURE produce a un certo punto la sequenza leggibile PAURE, che apre a suggestioni e interpretazioni impreviste dall’autrice, ma cariche di senso per chi parla appunto italiano.

Il tema del passaggio fra uno stato attuale, il presente dell’ora, e un prima, rimanda il pensiero all’opera del fotografo Duane Michals, Now becoming Then (1978), corredata di una legenda che coniuga le neuroscienze (il momento presente è una costruzione della mente) e i pensieri sul tempo di Sant’Agostino: “When I say, ‘this is now’, it becomes then. There is no now, it appears to us as a moment, but the moment itself is an illusion. It is and isn’t, and this illusion is a series of about-to-be’s and has-beens, that put together seem an event. It is a construction, an invention of our minds”.


Il procedimento concettuale di una parola che sfuma nell’altra lasciando una traccia comune ricorda poi la fusione algebrica di A GUEST + A HOST = A GHOST di Marcel Duchamp. Anche gli anni fatti di giorni in trasparenza nei calendari compositi di Alighiero Boetti si affacciano in questi accostamenti che cercano di catturare lo “space in-between“, l’istante di passaggio fra prima, adesso, dopo. Abituati ad esistere nel flusso, fermarsi a ragionare sui punti di passaggio fra le immense misure del passato e del futuro, del PAST e del FUTURE,  può ragionevolmente suscitare le PAURE che i due termini contengono a un certo stadio della loro fusione.

Il sito dell’artista: http://saramorawetz.com

Su Diconodioggi si parla di Sara Morawetz in occasione della sua opera-ricerca How the Stars Stand  e della conferenza tenuta alla Sapienza di Roma nel corso di Antonella Sbrilli.

a.s.

Con Casa Lettori a Più libri più liberi 2019

Che cosa vuol dire aprire e mantenere un blog dedicato ai libri; che efficacia ha diffondere le proprie riflessioni e proposte tramite Twitter, nell’epoca del dilagare di Instagram; come si può coniugare la forma della scrittura con la presenza delle immagini; e perché dedicare tempo della propria vita quotidiana a un impegno non direttamente remunerativo. 
Intorno a queste domande si è svolta la conversazione di giovedì 5 dicembre 2019, nell’accogliente spazio dell’Arena Robinson di Repubblica, allestita a Più libri Più liberi.
Maria Anna Patti, collaboratrice di Robinson e fondatrice/animatrice di Casa Lettori – un dispositivo di promozione della lettura e della partecipazione culturale che conta col solo account Twitter più di 76.000 follower – ha scelto gli ospiti e condotto il dialogo  su questi temi, davanti a un pubblico composto per la maggior parte di giovani studenti, e poi di fedelissimi della lettura, di curiosi, di visitatori e operatori della fiera. 

Con molto piacere, Diconodioggi – nella persona della fondatrice Antonella Sbrilli – ha partecipato a questo incontro, insieme con gli altri blog (e account Twitter) invitati: Corsi e rincorsi di Sara Durantini, che si occupa – come dice il sottotitolo – di “Arts. Literature. More”, in una visione integrata delle espressioni creative;  Un libro, una tazza di lè e il camice bianco di Marzia Giansante, psichiatra che considera l’apporto umanistico indispensabile alla cura e alla stessa professione medica; “Giuditta legge. Il blog di lettura di Giuditta Casale” che fa della lettura personale di un singolo libro un punto per osservare le dinamiche relazionali della società; Letteratume. Spunti di letture con leggerezza di Vincenzo Barometro, che predilige ironia e auto-ironia per le sue incursioni editoriali. 
Anche Sololibri,net ha contribuito al talk, con dati sulla presenza dei blog letterari in rete e sulla consistenza degli scambi sui social, mentre Maria Di Cuonzo ha twittato l’evento in diretta.
Il filo rosso delle considerazioni espresse negli interventi è stato quello della necessità di comunicare il proprio modo di leggere, in cerca di interlocutori affini, di riscontri, di collegamenti.
Il dialogo può crearsi con gli autori, con gli editori (e in questo Twitter è assai più efficace di altri social), con una nicchia di appassionati su temi molto specifici – come nel caso di chi arricchisce giornalmente @diconodioggi con le date trovate nei racconti – oppure con un gruppo molto vasto di persone, come accade proprio a Casa Lettori, che considera ogni tweet inviato al suo account un segno importante della presenza di ciascuno.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)

 

 

Muri fuori sincro in un libro di Stefano Scialotti

Stefano Scialotti è un regista di documentari che affrontano i temi – per lui sempre intrecciati – dei diritti umani, dell’infanzia, del gioco e dell’arte in tutte le sue variegate espressioni. Chi vuole conoscere alcune delle sue realizzazioni può seguirlo sul canale Vimeo, dove i video caricati mantengono una traccia, quasi un diario, delle sue tante imprese in giro per il mondo. Dai sogni onirici dei bambini, alla liberazione dei cortili, passando per la documentazione alternativa delle Biennali (non solo quella di Venezia), Scialotti si muove sempre come un creatore di situazioni collettive, director di incontri e di fenomeni il cui racconto filmato è solo uno degli esiti possibili e sperati.
Uno dei temi a cui Scialotti sta dedicando da anni energie, viaggi e impegno è quello dei muri che separano le frontiere calde del panorama geopolitico attuale: manufatti edilizi che condensano materialmente e metaforicamente l’esclusione, anche violenta.
Dal confine fra Stati Uniti e Messico, al campo Aida di Betlemme, in collaborazione con volontari, ricercatori, artisti, attivisti, Scialotti trasforma lo spazio desolato prossimo ai muri in un luogo di avvenimenti inaspettati, che coinvolgono i bambini del posto in partite di calcio e altri giochi in virtuale dialogo con i bimbi dell’altra parte.
All’origine di questo interesse profondo, c’è un’esperienza condotta da Scialotti davanti al muro per antonomasia, quello di Berlino, eretto nel 1961 e smontato nel 1989. A questo muro, Scialotti ha dedicato riflessioni e azioni, fotografando – nel corso degli anni ’80 – il palinsesto di scritte di cui la sua facciata occidentale si copriva, immaginandone la parete nascosta verso Berlino est, organizzando performance e spettacoli (fra cui uno al Piper di Roma, nei primi anni Ottanta).
Tutto questo materiale, rielaborato con un estro fantastico e tecnologico che rivela la formazione di Scialotti – ingegnere elettronico appassionato di fantascienza – e la sua attitudine alla ricerca creativa, è diventato Lennon not Lenin. Il muro di Berlino erano due, un libro pubblicato dall’editore Fausto Lupetti e collegato alla campagna iorompo.it del quotidiano “il manifesto”. 
Tutto è doppio in questo racconto: le facce del muro, nella città dal “cielo diviso”, così come le realtà, quella corrente in cui si svolge la storia  e quella virtuale del dispositivo di Intelligenza Artificiale (anzi di Vita Artificiale, il cui nome è Continua-Mente), che interagisce con i protagonisti. Le vicende raccontate – in capitoli brevi e dallo spirito ipertestuale – si srotolano fra il 13 agosto 1981 (vent’anni esatti dopo l’inizio della  costruzione del muro),  quando un gruppo di artisti, “reduci un po’ disadattati del ’68”, fonda il collettivo utopico No Future Project, e il 25/26 marzo del 1991, quando il gruppo si ritrova in cerca di uno dei componenti, Ario, che è scomparso. La strategia investigativa adottata nella ricerca scatena un corto-circuito di tecnologie, culture e tempi, che è il fulcro della narrazione:  procedendo nella lettura, ci si accorge che i nomi dei protagonisti sono connessi alla Divina Commedia, a cui alludono anche le date di marzo in cui si ambientano le vicende; e così il viaggio di ricerca si riflette e si raddoppia nei versi del poema dantesco che Continua-Mente cita in risposta alle domande che le vengono poste. L’aldilà e l’aldiquà, la storia e la finzione, la realtà e la virtualità,  lungi dall’essere per forza domini separati da muri e confini, rivelano – a saperli trovare – tanti ponti e punti di connessione, fatti di parole e giochi con le parole, immagini fisse, spezzoni di video, telepatie, frammenti “fisici e grafici”. Come spiega Francesco Antinucci nella prefazione al libro, le storie che lo compongono “corrono parallele ma a un certo punto scivolano l’una rispetto all’altra, così che i loro personaggi vanno fuori sincro o nel tempo o nello spazio, creando e vivendo realtà inesistenti (né mai esistite) fatte di pezzi rigorosamente esistenti (o esistiti)”.
Il fuori sincro funziona anche in queste pagine di Scialotti come un modo di raccontare gli strati non lineari delle storie e della storia, ripescando dal magma del tempo segnali ancora trasmissibili, fra cui emergono – ancora potenti e argute come Lennon, not Lenin – alcune delle  scritte del muro di Berlino.

a.s.

Il video Lennon not Lenin di Stefano Scialotti con Davide Canazza

Il codice delle date: Marcello De Angelis

Time Frame è una tipologia di opere di Marcello De Angelis (Villafranca VR, 1977), un artista la cui ricerca è rivolta – come dichiara egli stesso in apertura del suo sito – ad “imbrigliare la materia pittorica entro un ordine razionale”, utilizzando schemi, griglie, procedure, regole, codici. 
Le opere del ciclo Time Frame, per esempio, si presentano come tele di 15×20 cm, su cui sono raffigurate, su righe sovrapposte, due sequenze di segni di colore diverso, stanghette verticali in leggero rilievo, il cui ritmo sottende un mistero da risolvere. E infatti si tratta  della traduzione in codice binario di due date: il giorno di nascita del committente dell’opera, e il giorno in cui l’opera viene commissionata. I colori variano, a seconda del gusto e del caso (oro e verde su fondo azzurro nell’esemplare qui riprodotto). 

Dietro questa configurazione tattile, visiva e matematica, c’è un certosino lavoro sul rapporto fra il codice e le date (e dunque il tempo), a cui De Angelis si dedica dal 2016, quando introduce l’uso del codice binario per la serie di opere CODEX (CDX), dapprima per codificare i colori e poi – via via che la serie procede –  per rappresentare pittoricamente in codice binario l’anno, il mese, la settimana e il giorno in cui l’opera è stata dipinta, con i suoi colori. 
Memore delle sequenze ipnotiche di tele nere con date bianche di On Kawara, De Angelis si applica a studiare la disposizione per esporre la sua serie: “in alto a sinistra una tela isolata con la codifica del primo e dell’ultimo giorno dell’anno. Accanto, dodici righe di tele a rappresentare i 12 mesi dell’anno. Per ogni riga 4 o 5 tele a rappresentare le settimane  di ogni singolo mese… e gli spazi vuoti quando non ho dipinto”.

A sua volta, dietro la serie CODEX, c’è una ricerca procedurale che risale alla formazione di De Angelis, laureato in Industrial Design al Politecnico di Milano. 
“Punto di partenza dei miei lavori è un disegno, un bozzetto che viene successivamente rielaborato al computer mediante un programma di modellazione grafica. Nascono così delle griglie vettoriali costituite da linee e curve tangenti, forme geometriche che vengono successivamente trasferite sulla tela. Da questa struttura ordinata creo una fitta trama di tratti di colore allineati”. 
Su questa base, si inserisce una tecnica particolare, che De Angelis affina con gli anni e che consiste nell’iniettare il colore acrilico sulla superficie della tela utilizzando l’ago di una siringa (strumento di cura, ma anche di morte, allusione alle polarità, agli ossimori, ai paradossi dell’esistenza e del linguaggio).
Da un punto di vista tecnico, l’injection painting produce effetti cangianti che variano con la luce, arricchendo le superfici di spessore e dinamismo. 
È con questa procedura che De Angelis realizza una serie di ritratti non fisiognomici, ma digitali, nel senso che raffigurano l’impronta del dito pollice del committente.
Ognuno di questi ritratti è una sorta di sineddoche, come spiega lo stesso artista, poiché l’impronta digitale è una piccola zona che identifica l’intera persona.
“Attraverso l’impronta – così altamente personalizzante e al contempo apparentemente priva di personalità – pongo l’attenzione sia sul singolo individuo che sulla collettività, senza distinzione di sesso, età, colore della pelle o tratti somatici.

Da questi ritratti deriva una sorta di paradosso analogico-digitale, se si considera il significato originario dei termini digitale e analogico e la loro contrapposizione: digitale poiché  attiene alle dita e alla loro rappresentazione attraverso il segno dell’impronta; analogico in quanto testimonianza della reale presenza dell’individuo nel momento in cui ha lasciato la sua impronta, la sua orma, traccia del suo passaggio nella vita, costante nel tempo, senza cambiare col passare degli anni, sempre uguale dalla nascita alla morte”.

Il tempo con le sue scansioni collettive e private, il tempo del lavoro in atelier, lento e laborioso, sono le cornici concettuali e procedurali delle opere di questo artista, che ha dedicato riflessioni creative al tema dello scarto, della stratificazione, della durata, del diario. 
Ex libris è il nome che raccoglie – in una sorta di libro d’artista – le tracce quotidiane lasciate a margine del suo lavoro, schizzi, piccoli disegni, semplici macchie di colore. 
“Queste tavole, raccolte ogni mese in un cofanetto in plexiglass, rappresentano un diario intimo e personale, la storia evolutiva dei miei quadri, lo scorrere lento del tempo mescolato alle vibrazioni dei colori che di giorno in giorno ho usato per dipingere”. 
Nel percorso di De Angelis, ogni serie di opere risponde a un nucleo di regole, che in parte variano e in parte permangono, appoggiate sulla griglia dei giorni e sulla filigrana dei segni. 

Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Immagini: courtesy Marcello De Angelis

 

Calendar Houses: il tempo costruito

Grazie a un tweet inviato all’account Twitter @diconodioggi da Sandra Muzzolini, esperta di letteratura e di cultura inglese, veniamo a conoscenza di una rara tipologia di case, costruite nel Regno Unito dalla fine del XVI secolo, che hanno a che fare con la scansione calendariale del tempo. 
Nel tweet, è riportata una citazione dal libro della scrittrice britannica Natasha Solomons, The House of Gold (2018, tradotto in italiano da Laura Prandino per l’editore Neri Pozza col titolo I Goldbaum):
“Era l’ultima delle calendar houses costruite in Inghilterra; aveva 365 finestre, 52 stanze principali, 12 scale, 7 torri e 4 ali”.


Una casa calendario è un edificio complesso in cui gli elementi architettonici (porte e finestre, stanze, camini, torri, cortili) sono modulati in quantità che rappresentano i giorni della settimana, le settimane e i mesi dell’anno, le stagioni.
La genesi delle case calendario risale – come si legge nell’articolo 
Make a date: the strange world of the calendar house – al fervido clima intellettuale del periodo elisabettiano, attraversato da interessi per le scienze della natura, per la matematica, per l’astronomia e da una attrazione per il “device” which in the 16th-century meant any ingenious or original shape or concept”.
Il dispositivo concettuale sotteso alle calendar houses consiste dunque nell’incorporare le misure convenzionali del tempo nel progetto architettonico: una contrainte che, oltre a vincolare eventuali sviluppi successivi dell’edificio, produce un’attitudine al computo e alla verifica
della regola. Fra i non molti esempi di questa tipologia di dimora – che collega porzioni di spazio e di tempo –  è annoverata – almeno miticamente -anche Knole House nel Kent, proprietà della famiglia Sackville-West, evocata nel libro di Virginia Woolf Orlando.

a.s.

Mappe nel tempo globale: Cristina Lucas

Una storia dell’arte estesa quanto il mondo, che cerchi di raccontare la molteplicità delle espressioni artistiche che si sono sviluppate – nel tempo – nelle diverse aree del globo. Mentre scuole e università affrontano questa nuova prospettiva modificando metodi, libri di testo, pratiche didattiche, le opere d’arte stesse possono rivelarsi efficaci strumenti, come dimostrano le reazioni dei visitatori davanti alle mappe geo-politiche di Alighiero Boetti: i planisferi colorati dalle bandiere cangianti delle nazioni attirano l’attenzione e inducono a percorrere la superficie per un tempo ben maggiore dei pochi secondi che le statistiche indicano come standard nelle visite museali.
Un’opera d’arte che si presenta come una interessante visualizzazione di questo vasto tema è visibile fino al 3 novembre 2019 a Roma, nella mostra collettiva dal titolo Kronos Kairos. I tempi dell’arte contemporanea, a cura di Lorenzo Benedetti, allestita negli spazi dell’area archeologica del Palatino.

L’opera è dell’artista spagnola Cristina Lucas (Jaén, 1973) e si intitola Pantone -500 +2007. Si tratta di una video-installazione che mostra in modo dinamico l’emergere – nella conoscenza geo-politica occidentale – delle diverse zone del mondo in un arco di tempo compreso fra il 500 avanti Cristo e il 2007, anno di realizzazione dell’opera stessa.
L’artista spagnola, che ha all’attivo diverse creazioni che indagano le convenzioni narrative della storia ufficiale, esplorando con i mezzi del video e dell’installazione le fonti secondarie e critiche, per l’opera Pantone -500 + 2007 ha condotto un lungo lavoro di ricerca storico-geografica e cartografica, avvalendosi della consulenza di esperti internazionali.

Ha poi inserito i dati in un programma: ogni secondo che passa nel video corrisponde a un anno nella storia del mondo: 2507 anni in 40 minuti circa. All’aumentare del tempo (il tempo reale che trascorre per chi guarda e quello collegato, proporzionalmente, nella linea ella storia), la superficie bianca dello schermo si anima di zone colorate. E qui si spiega il titolo, che fa riferimento a Pantone, l’azienda che ha creato un sistema standardizzato internazionale per effettuare e condividere selezioni di colore. Nel video in continua mutazione di Cristina Lucas, “ogni colore rappresenta una specifica identità nazionale”, come scrive la curatrice Ghila Limon, “il movimento di macchie di colore rappresenta guerre, invasioni o migrazione della popolazione. Pantone standardizza la rappresentazione di tutti gli eventi storici, senza alcun ordine gerarchico”.

Chi osserva questa mappa in continua trasformazione è coinvolto nella ricostruzione della forma del mondo (così come siamo abituati a vederla negli atlanti), si interroga sulla mancanza di alcune zone, sul loro comparire in corrispondenza della loro “scoperta”, sul loro mutare di colore a seconda della travagliata storia coloniale, fino a che – anno dopo anno – il planisfero si completa, senza che i colori si assestino mai definitivamente. Storia, geografia, politica, rappresentazione sono messe in una prospettiva dinamica e relativa, che dialoga con chi la segue guardando il video, desiderando fermarlo in alcuni anni cruciali, per approfondire una zona, colorata o vuota che sia.
La mappa di Cristina Lucas potrebbe scorrere proficuamente nelle classi scolastiche e universitarie, come traccia mobile su cui interagire per cogliere cromaticamente la dimensione spazio-temporale della storia e riempirla di contenuti e collegamenti inter-disciplinari.

Mostra Kronos Kairos. I tempi dell’arte contemporanea, a cura di Lorenzo Benedetti, Roma, Palatino, fino al 3 novembre 2019

(a.s.)

 

Visualizing Time: Time’s News 2019

Mentre a Los Angeles (Marymount Loyola University) si svolge Time in Variance, il 17° simposio sul tempo organizzato dall’International Society for the Study of Time (ISST), il cinquantesimo numero del magazine dell’ISST,  “Time’s News”, esce a cura di Emily Di Carlo. 
Contiene notizie sulle attività della Società, recensioni, segnalazioni di eventi ed esperienze, call for papers, approfondimenti, interviste e una sezione, dal titolo Visualizing Time, dedicata ad opere d’arte che – nel corso del 2018-19 – hanno fatto emergere una riflessione  sul tempo, attraverso tecniche e strumenti diversi. 
La selezione di questa scelta di “time focused art”, curata da Antonella Sbrilli e Laura Leuzzi, segnala una serie di artisti internazionali, da Olafur Eliasson e Minik Rosing con il loro Time Watch a Tracey Emin (I Want My Time With You), passando per Aiko Miyanaga (Waiting for Awakening – Clock), Marco Godinho (Every Day a Poem Disappears in the Universe), Zhao Zhao (One Second) e due artiste italiane: Daniela Comani che nel 2019 ha realizzato Planet earth 21st Century (ne abbiamo parlato qui), e Mariagrazia Pontorno, con Everything I Know, un progetto che ripercorre il viaggio di Leopoldina d’Austria – appassionata di scienze – verso il Brasile, nel 1817: un diario che rintraccia, aggiorna, rimodula lo sguardo scientifico, le atmosfere geografiche, i passaggi di spazio e di tempo.


Nell’anno in cui si celebra il  cinquantenario del primo sbarco sulla Luna, non poteva mancare l’eloquente opera di Peter Liversidge, From home – how far the moon has, and is, moving away from the Earth since the moon landing, July 20th, 1969


Il numero di “Time’s News” riporta anche un interessante esperimento di Emily Di Carlo,  I Need To Be Closer To You, parte del progetto Daylight Saving Time, che indaga il concetto di “time-specificity” nell’arte contemporanea, lavorando sui fusi orari, sull’ora legale, sulla percezione della distanza temporale e delle sue variazioni. 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Time in Variance – Los Angeles, 23-29 giugno 2019

L’International Society for the Study of Time (ISST), fondata nel 1966 da Julius T. Fraser (ne ho parlato qui), organizza triennalmente dei simposi multidisciplinari sul tema del Tempo. Quest’anno – 2019 – il 17° incontro si svolge dal 23 al 29 giugno presso la Loyola Marymount University di Los Angeles. Il titolo è Time in Variance: il tempo considerato in rapporto con il concetto di “varianza”,  intesa come variabilità e come modifica. L’intento è quello di indagare le trasformazioni nella valutazione e nella condivisione di scale temporali diverse che producono – concettualmente ed esperenzialmente – forme diverse di tempo “alcune oscillanti, altre circolari, altre ancora lineari”. La frase Time in Variance suggerisce però anche il suono della parola “invarianza”, evocando così la compresenza del flusso delle trasformazioni e della presenza di costanti, la necessità delle misure e la condizione dell’instabilità.
Come sempre, il simposio presenta interventi teorici e laboratori, mostre e workshop creativi, che abbracciano vaste e variegate regioni disciplinari, che includono e intersecano le scienze, la filosofia, la psicologia, la narrativa, il cinema. A questo link si possono leggere gli abstracts degli interventi e dei poster.


Le sessioni di Time in Variance  si svolgono nella Hannon Library della Loyola Marymount University, nelle cui Special Collections è conservata parte dei materiali d’archivio dell’International Society for the Study of Time donati dal fondatore J.T. Fraser.

Il programma del simposio 2019 include fra le altre attività multidisciplinari anche la visita a The Garden of Slow Time, giardino di meditazione progettato da Paul Harris di cui la foto mostra una veduta d’insieme e un dettaglio. 

 

 

Notte bianca #24: Firenze, Museo Marino Marini

Durante l’estate a San Pietroburgo si assiste al fenomeno delle notti bianche, quando la luminosità, per quanto soffusa, permane anche a notte fonda. Sono queste ventitré notti bianche ad aver ispirato la Notte Bianca #24 del Museo Marino Marini di Firenze: un “festival di una sola notte dedicato alla creatività, alla cultura, all’arte e ai sogni”.
Dalle 21,30 di sabato 4 maggio all’alba di domenica 5 maggio 2019, nel museo che ospita le sculture di Marino Marini – l’ex chiesa di San Pancrazio – si avvicendano performance, musiche, dialoghi, esplorazioni, sui temi intrecciati del tempo, dello spazio, del museo, dell’immaginario.

La Notte Bianca #24 fa parte di Accents, Accenti, Акценты, il programma  allestito da Dimitri Ozerkov, visiting director del museo Marino Marini per il 2019. Ozerkov (San Pietroburgo, 1976), storico dell’arte, filosofo, curatore di numerose mostre (da ultima Futuruins a Palazzo Fortuny, Venezia),  è responsabile del Dipartimento di arte contemporanea dell’Ermitage. 

La parola accenti, modulata in tre lingue, evoca la pluralità di voci e di ritmi del programma, che vede tre artisti in residenza, Irina Drozd, Andrey Kuzkin e Ivan Plusch e la mostra Le Tre donne, allestita  nella Cappella Rucellai e dedicata a tre figure femminili del racconto biblico, Giuditta, Giaele e Dalila. 
A questo link il programma

 

Planet Earth: 21st Century di Daniela Comani

Ci voleva un’artista residente a Berlino – e proveniente da un’altra città che inizia con la B, Bologna – per portare nel nuovo millennio l’immagine della città, le immagini delle città. Quelle Städtebilder che un nativo berlinese, Walter Benjamin, aveva descritto seguendo i labirinti delle strade, gli spiazzi fra i blocchi degli edifici, i monumenti, le colonne che si levano sulle piazze “come la data sul blocco di un calendario”.
Ci voleva un’artista che si era immersa profondamente nel Tempo, raccontando in prima persona il periglioso Novecento nella sua opera Sono stata io. Diario 1900-1999, dove – non per caso – Benjamin è evocato alla data del 27 settembre “mi tolgo la vita a Portbou, sulla frontiera tra Francia e Spagna”.
È stato scritto che la descrizione della città è un viaggio nel tempo piuttosto che nello spazio, un viaggio nella familiarità che diventa straniera, nel presente che lascia trapelare il passato, nella lontananza che si alterna alla prossimità.
Se queste osservazioni valgono ancora nell’epoca dei viaggi veloci, dei blog turistici, dei satelliti, delle webcam, allora la nuova opera di Daniela Comani, Planeth Earth: 21st Century, ne è l’espressione più esattamente straniante, la più vicina alle trasformazioni delle tecnologie e dei punti di vista.


Il punto di partenza di Planet Earth è una raccolta di immagini di città, un materiale visivo proveniente dalle applicazioni di cartografia tridimensionale Apple Maps e Google Earth Virtual Reality. Basate su programmi 3D di rendering che creano un mondo tridimensionale grazie a immagini satellitari e fotografia aerea, queste tecnologie consentono di sorvolare le città in 3D, girando intorno a edifici e monumenti, strade, svincoli, ponti e ogni genere di infrastrutture. 
Nel corso di queste esplorazioni virtuali, Daniela Comani ha “catturato” centinaia di foto, manipolando le immagini prodotte dalle mappe di Apple e Google Earth,  in modo che ne risulti un panorama privo di presenze umane, ma denso di pattern murari, di ombre e profondità.


Una volta ottenute queste vedute – souvenir di un pianeta antropico dove gli esseri umani non compaiono – l’artista le ha stampate nel formato tradizionale della cartolina. Un formato che permette anche – agli interlocutori di quest’opera – di accettare la suggestione narrativa delle immagini e di scrivere sul lato bianco del cartoncino la propria storia per quell’immagine, per quella città, per il proprio viaggio, per la propria memoria. 
Da una raffinata tecnologia geolocalizzata al ricordo da spedire via posta, dall’occhio planetario allo sguardo privato, Planeth Earth: 21st Century è anche una inaspettata opera partecipativa, story-telling postale all’insegna di un lieve disorientamento condiviso, dove la sorpresa è continuamente dietro l’angolo delle strade.


Durante il National Geographic Festival delle Scienze 2019 di Roma (Auditorium Parco della Musica, Foyer Petrassi, 8-14 aprile 2019), Planet Earth: 21st Century diventa una mostra, allestita nella forma più consona al suo tema: chi la visita può infatti curiosare fra le cartoline sistemate in una serie di espositori girevoli, tipici oggetti del turismo globale. 
E sempre presso l’Auditorium Parco della della Musica di Roma, nello spazio di passaggio tra il foyer della Sala Petrassi e il Teatro Studio Borgna, il Sound Corner permanente ospita la versione audio di Sono stata io. Diario 1900-1999.

Il sito dell’artista Daniela Comani.
Antonella Sbrilli

Ingannare il Tempo. Un incontro al Museo di Roma in Trastevere

Nell’ambito del programma Educare alle mostre / Educare alla città della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, il 6 marzo 2019 si svolge un incontro dal titolo “Ingannare il tempo. Giorni inventati fra arte e racconto”, a cura di Antonella Sbrilli.
L’incontro al Museo di Roma in Trastevere prende avvio dalle illusioni ottiche, gli inganni visivi legati alla percezione dello spazio e si inoltra nel tema degli inganni temporali. Qualche esempio: un artista che retrodata un dipinto sta ingannando la visione storica della sua produzione; uno scrittore che segna una data inesistente (37 ottobre, 31 aprile) sta inserendo nella sequenza del calendario un ostacolo sul quale la lettura inciampa e l’immaginazione prende una sua strada.

Nel pomeriggio del 6 marzo 2019 – che fra l’altro è il Mercoledì delle Ceneri (e il pensiero corre all’opera in versi di T. S. Eliot che porta il titolo della ricorrenza) – vedremo una serie di opere che si intromettono con diversi espedienti nella durata temporale, concerti lunghi secoli, orologi annuali, opere che termineranno nel 2114, periodi trascorsi su una scansione del tempo parallela, consapevoli che, come scrive Carlo Rovelli, il tempo è “la sorgente della nostra identità”, la forma con cui noi esseri “il cui cervello è fatto essenzialmente di memoria e previsione interagiamo con il mondo”.

Educare alle mostre / Educare alla città
Ingannare il tempo. Giorni inventati fra arte e racconto
a cura di Antonella Sbrilli
Museo di Roma in Trastevere
Piazza Sant’Egidio, Roma
Mercoledì 6 marzo 2019 ore 16
L’immagine è tratta da http://www.iferridisbrilli.eu

Storia millimetrata del tempo: Art’s Birthday 2019

Diconodioggi ha dato spesso notizia negli anni scorsi della ricorrenza del “compleanno dell’arte”, l’Art’s Birthday inventato dall’artista francese Robert Filliou: correva l’anno 1963 quando, nel poema intitolato L’Histoire chuchotée de l’Art (La storia sussurrata dell’Arte), Filliou incluse il racconto di come “tutto ebbe inizio il 17 di gennaio di un milione di anni fa. un uomo prese una spugna asciutta e la intinse in un secchio pieno d’acqua. non importa chi fu quell’uomo. egli è morto, ma l’arte è viva.”
La data del 17 gennaio corrisponde al compleanno di Filliou stesso  e diventa la data originaria a cui far risalire la prima traccia della capacità creativa del genere umano. Dal 1973, prima in Germania e in Francia e poi in una rete più ampia di paesi, l’Art’s Birthday è festeggiato con iniziative disparate, concerti, feste, azioni. La pagina artsbirthday.net raccoglie le partecipazioni all’anniversario di quello che quest’anno 2019 è  il 1.000.056° compleanno dell’arte.


Quest’anno, il  il Macro Asilo di Roma – su iniziativa di Antonella Sbrilli – organizza una giornata celebrativa che si svolgerà dalle ore 10.00 alle ore 18.00 nella Sala Media e proseguirà con i festeggiamenti fino alla chiusura.
Il centro creativo della giornata è affidato all’artista milanese Aldo Spinelli, che darà vita alla sua Storia millimetrata dell’arte. Ecco di che cosa si tratta.
Il progetto di Aldo Spinelli – come lo descrive egli stesso – prende spunto dalla pretesa di visualizzare il numero 1000056 (unmilionecinquantasei) nella sua vasta estensione che tuttavia può essere riconducibile a dimensioni umane se l’unità di misura scelta è più o meno contenuta e minuscola. Come si potrebbe presentare, per esempio, una superficie di unmilione e poco più centimetri quadrati? Beh, occorrerebbe un mezzo campo da tennis. Allora i millimetri: 56 millimetri in più di un metro quadro, lo spazio minimo che ci è necessario anche in un posto affollato.
Scomponendo 1000056 nei suoi fattori primi si ottiene 2 x 2 x 2 x 3 x 41669 in cui i divisori più piccoli del numero, se moltiplicati tra loro, possono suggerire un’altra idea: 2 x 2 x 2 x 3 = 24 proprio come le ore del giorno.


In 24 ore (o in 24 giorni) si possono dunque realizzare altrettante immagini ognuna delle quali ha la superficie di 41669 millimetri quadrati: 24 x 41669 = 1000056. Quali immagini? Delle semplici forme che richiamano, alludono a 24 “soggetti” tipo che hanno caratterizzato la storia dell’arte: dalle impronte dell’uomo primitivo al ritratto, dal quadrato nero di Malevic al taglio di Fontana, dalla pop art all’arte concettuale.
Queste immagini saranno prodotte in presenza del pubblico e con tecniche varie avendo come unico comun denominatore la carta millimetrata. Da qui il tiolo della manifestazione: L’Histoire millimétré de l’Art.
L’evento è aperto a tutti ed è a ingresso libero.
Aldo Spinelli: Art’s Birthday 2019
Macro Asilo, Roma, via Nizza 138, Sala Media dalle 10 alla chiusura.

Foglietti di tempo a Montevideo

“Camminando per le strade di Montevideo il 31 dicembre, sono stata sorpresa da una pioggia di foglietti che, come piccoli fuochi d’artificio, sbocciavano da diversi palazzi istituzionali”,  racconta Sara De Chiara, storica dell’arte in viaggio in Uruguay.  “Sono riuscita a catturare il lancio dal palazzo della presidenza della repubblica e a capire la natura dei foglietti: calendari spezzettati, pagine di agende strappate, un vero e proprio azzeramento dell’anno agli sgoccioli”. 
È un’usanza della capitale dello stato sudamericano,  riportata anche nelle guide turistiche, quella che accompagna il passaggio da un anno all’altro.  Il 31 dicembre, dai palazzi del centro, una pioggia bianca di foglietti di carta ricade sulle strade, si ammucchia ai bordi dei marciapiedi, si disperde sul selciato. Chi si avvicina ai foglietti, si accorge che si tratta di pagine di agende e calendari, lanciati fuori delle finestre degli uffici, in un rito che – al netto del disagio della ripulitura delle strade – mantiene un valore simbolico eloquente. E non stupisce che il rito si affacci letteralmente dalle finestre nella terra di Eduardo Galeano (1940-2015), l’autore  che ha saputo raccontare il tempo e le sue misure, oscillando fra narrazione lunga e frammento, pagine e foglietti (Bocas del tiempo). 

 

 

 

Passaggi di tempo

Siamo arrivati al 30 dicembre, comincia il conto alla rovescia per l’anno nuovo e si affollano i calendari del 2019.
Per il conto alla rovescia, è d’obbligo citare Ice Watch, l’installazione che l’artista Olafur Eliasson ha realizzato insieme con il geologo Minik Rosing a Londra.
Trenta piccoli iceberg – il peso di ciascuno varia da una tonnellata e mezzo a sei tonnellate – raccolti alla deriva in un fiordo in Groenlandia sono collocati in due zone della città, 24 nei pressi della Tate Modern e altri sei, in cerchio, all’esterno della sede europea di Bloomberg (che finanzia l’operazione). Già due volte, nel 2014 e poi nel 2015, Eliasson aveva trasportato enormi pezzi di ghiaccio in mezzo a due capitali, Copenaghen e Parigi, in concomitanza con incontri internazionali sul cambiamento climatico. Disposti a cerchio, come in un quadrante di orologio, o sfalsati sull’asfalto cittadino come bianchi dolmen fra cui muoversi, i pezzi di ghiaccio si liquefanno giorno dopo giorno, con un chiaro – per alcuni fin troppo didascalico – monito sugli effetti del riscaldamento globale, sul futuro delle calotte polari e del livello dei mari.
L’installazione, inaugurata a dicembre, dura finché i blocchi non saranno sciolti, scandendo il tempo con un ritmo imprevedibile.
Chi cerca invece un calendario con la sua griglia regolare di caselle che accompagnano il 2019 con citazioni e anniversari, può dare un’occhiata a quello creato da Ethics in Bricks. Il calendario presenta per ogni mese un pensiero-guida, su temi di filosofia morale, illustrato da una scena allestita con mattoncini e altri componenti Lego. Ethics in Bricks è attivo su Instagram, Facebook e Twitter, dove posta ammirevoli ricostruzioni di uffici, strade trafficate, aule – tutte fatte di Lego – e ognuna collegata a un tema filosofico, declinato al presente: il dilemma etico dell’auto senza guidatore, il rapporto formatore-discente, le differenze di genere, i big data e così via.
Le scene sono popolate anche dalle figure di filosofi, riconoscibili per dettagli, come la barba scura di Nietzsche, la parrucca bianca di Kant, o per il contesto, come il fiume di Eraclito, fatto con mattoncini piatti celesti e trasparenti.
La copertina del calendario si ispira alla Scuola di Atene di Raffaello e raccoglie in ordine sparso, ma motivato da una legenda, 14 filosofi antichi e moderni, da Socrate ad Hannah Arendt, da Diogene a Martha Nussbaum, e non manca Žižek.
Il mese di gennaio 2019 inizia all’insegna di Platone e ricorda le date di nascita di Simone de Beauvoir, il 9 gennaio, di Gramsci, il 23 e di san Tommaso, il 28.
Il calendario si può scaricare e in cambio fare una libera donazione all’Unicef.

Su Twitter @EthicsInBricks – Plastic philosophy

(a.s.)

 

 

Duemila pagine di anni: Isidoro Valcárcel Medina

L’opera 2.000 años d. de J.C. dell’artista spagnolo Isidoro Valcárcel Medina è un viatico perfetto per il tempo di passaggio della fine d’anno. Si tratta infatti di un libro (in due tomi) che affronta il Tempo: racconta duemila anni di storia, selezionando per ogni anno un evento particolare, “scelto in quel modo intelligentemente arbitrario concesso soltanto agli artisti di sostanza”, come nota Sara De Chiara della galleria Madragoa (Lisbona).
Nato a Murcia negli anni Trenta, Isidoro Valcárcel Medina si è mosso fra diversi mezzi, linguaggi, tecniche, situazioni, attraversando le atmosfere del minimalismo e del concettuale, l’estetica della recezione, la mail art, l’arte pubblica.
L’interesse per gli invisibili nessi fra tempo e spazio lo ha condotto spesso ad allestire interventi furtivi, “circostanze” – come vengono definite – che ruotano intorno alle opere e alle modalità della loro esposizione o all’incursione del tempo-reale nello spazio del museo.
In vista del passaggio di millennio, l’artista ha realizzato – cominciando il suo lavoro nel 1995 – questo libro enciclopedico, che si sviluppa in due tomi rilegati in tela rossa, composti di duemila pagine di carta velina, una per ogni anno che va dallo zero al 2001. In ciascuna pagina Valcárcel Medina ha riportato – in rappresentanza dei due millenni dell’era cristiana – una storia, un aneddoto laterale, trascurato, eppure preciso, oppure un fatto noto restituito da un dettaglio minore. Non mancano un indice tematico, un indice dei nomi e dei luoghi e una bibliografia delle fonti.
In un lungo saggio consultabile qui, Beatriz Herráez ripercorre l’origine di questa cronologia fatta di ritagli, collage di cronache variegate in cui si ritrovano l’eruzione del Vesuvio del 79 e il furto della Gioconda del 1911, accanto a fatti marginali, scartati, secondari.
Chi la sfoglia, si interroga sui criteri di selezione, immagina la difficoltà di riempire le pagine di anni reconditi e lontani, in apparenza vuoti di avvenimenti documentati, valuta l’impresa di tempo personale che la ricerca ha richiesto. Una massa di ore e giorni spesi in archivi, biblioteche a volte poco collaborative, motori di ricerca, si insinua a ritroso nel computo convenzionale delle ere, frantumando la piramide della storia in migliaia di accumuli di storie. 

(a.s.)

Il tempo nello spazio di Kurokawa, a Modena

Transitorie, soggette al mutamento, fragili eppure resistenti, immerse nel flusso e nelle intermittenze del tempo, le percezioni visive e sonore  generate dalle sculture audio-visuali dell’artista giapponese Ryoichi Kurokawa (Osaka, 1978) invitano a un’attenzione multipla, diretta verso il ritmo, il colore-luce, l’intervallo, il margine. Queste “sinfonie di suoni che, in combinazione con paesaggi digitali generati al computer, cambiano il modo in cui lo spettatore percepisce il reale” sono in mostra dal 14 settembre 2018 al 24 febbraio 2019 alla Galleria Civica di Modena (Palazzo Santa Margherita), presentate da Fondazione Modena Arti visive in occasione del festivalfilosofia 2018. L’esposizione – la prima in Italia di Kurokawa –  è collegata a NODE – festival internazionale di musica elettronica e live media che si svolgerà a Modena dal 14 al 17 novembre 2018. 


Il titolo della mostra è al-jabr (algebra) e raccoglie opere audiovisive, installazioni, e anche sculture e stampe digitali sperimentali: una scelta delle ricerche di quest’artista nato in Giappone e residente a Berlino, che unisce competenze musicali, visuali, tecniche e pratica un’estetica collaborativa con scienziati esperti di astrofisica o di nanotecnologie, senza dimenticare elementi della tradizione artistica e filosofica orientale.
Erede della tradizione sinestetica che indaga il legame fra percezioni di norma intese come separate e che possono invece innescarsi reciprocamente, Kurokawa descrive i suoi lavori come sculture “time-based”, incastonate nel tempo e nelle sue misure. 
Nella mostra di Modena si incontrano – come si legge nel comunicato stampa –  “concetti e metodologie quali la decostruzione e la ricostruzione di elementi naturali (elementum, lttrans, renature), la riunione di strutture divise (oscillating continuum), la rielaborazione di leggi e dati scientifici (ad/ab Atom, unfold.alt, unfold.mod)”. 
Come si intuisce dalla terminologia che accompagna l’artista, la dimensione delle sue opere è la complessità indistricabile delle percezioni sonore e visive e della loro natura, allo stesso tempo interna ed esterna, individuale e comune, macro e microscopica, armonica e dissonante.  

a.s.

Ryoichi Kurokawa, al-jabr
Galleria Civica di Modena
Palazzo Santa Margherita
Corso Canalgrande, 103 – Modena
14 settembre 2018 – 24 febbraio 2019
Il sito dell’artista a questo link 

 

Exploring the Mystery of Time: a Pari (GR) settembre 2018

Dal 6 al 12 settembre 2018 a Pari (Grosseto), si svolge un convegno dal titolo multidisciplinare:
Exploring the mystery of time from different perspectives: art, science, philosophy, psychology, literature, film, mystical experience.
La presentazione pone in apertura una citazione dell’Ulisse di Joyce “I hear the ruin of all space, shattered glass and toppled masonry, and time one livid final flame” e prosegue con la domanda, centrale e diagonale: “What is time?”.

Qui il link e questi gli interventi in programma:
Julian Barbour, The Janus Point: A New Theory of Time’s Arrows and the Big Bang
Mauro Bergonzi, Time and Consciousness
Warwick Fox, Language, Time, and the Value of Lives
Christopher Hauke, Film and Time: How Movies Make the Impossible Real, or, How Reality Makes the Unreal Possible
Alison MacLeod, Making Time: Writers, Time and Literary Creation
Hester Reeve, Time in Contemporary Art
Shantena Augusto Sabbadini, Being and Becoming in Modern Physics
David Schrum, Time, the Psyche, and Timeless Mind
Gordon Shippey and James Peat Barbieri, Time Travel: The Physics, Philosophy & Fiction behind Doctor Who

 

La Terra è l’orologio della Terra: Chronogeoscope

“The Earth is its own Clock”, “La Terra è l’orologio della Terra”: è questa l’idea sottesa a una app che visualizza – con un’interfaccia chiara e attraente –  la presenza implicita, in ogni quadrante di orologio,  della rotazione del nostro pianeta sul suo asse. L’app si chiama Chronogeoscope, si scarica facilmente sui dispositivi mobili ed è spiegata nei dettagli e nelle implicazioni sul sito dedicato
Ideata e realizzata da Robero Casati, filosofo cognitivista (“Penso che non siano molti i filosofi che producono app, così sono orgoglioso di annunciare l’uscita di Chronogeoscope” ha scritto in un tweet dei primi di luglio 2018) e dal ricercatore Glen Lomax,  Chronogeoscope è un modellino godibile della rotazione della Terra, che consente di visualizzare “in tempo reale” il suo movimento rispetto alla propria posizione geografica. Consente anche di riflettere su diverse convenzioni che riguardano la rappresentazione di tempo e spazio, nord e sud, centro e periferia, orario e antiorario. 

Un cerchio esterno suddiviso in 24 ore avvolge una mappa rotante della Terra, impostata in modo che compia un giro completo in 24 ore. La mappa è centrata sul Polo Sud, poiché in questo modo la rotazione può essere rappresentata in senso orario (quello che, per convenzione, seguono da secoli gli orologi). Da quel centro partono tutti i meridiani, mentre i paralleli sono rappresentati da cerchi concentrici e il Polo Nord è collocato sulla circonferenza più esterna.
L’area in ombra rappresenta la notte, mentre il sole si trova in direzione del mezzogiorno.
La propria posizione è geolocalizzata da un punto rosso sulla lancetta delle ore, mentre una seconda lancetta, più sottile,  indica il tempo convenzionale effettivo, suscettibile dell’ora legale e dell’altrettanto convenzionale suddivisione in fusi orari.
Se si è pazienti, come raccomandano gli autori, e si guarda a distanza di ore la propria posizione, ci si accorge che la mappa  gira lentamente, il doppio del tempo impiegato dalle lancette di un orologio che indica le 12 ore. 

Shadows, il sito di Roberto Casati.

(a.s.)

Su temi affini, vedi nel blog il post sull’opera di Olafur Eliasson Daylight Map.

 

 

Memoria per le date e tempo ciclico

Luglio 2018: diversi articoli riportano la ricerca di Valerio Santangelo e Patrizia Campolongo  su un gruppo di persone – donne e uomini di varia età – dotate di una formidabile memoria autobiografica. Come Funes nel racconto di Borges, i dettagli delle giornate trascorse, anche molto lontane nel tempo, tornano in superficie in modo vivido e inarrestabile.
“Non ho bisogno di un’agenda e non ho mai avuto il diario a scuola. È un dono che non riesci a spiegare agli altri. Per me il tempo è circolare: le cose successe 10 anni fa, le vivo come se fossero accadute oggi” – racconta una delle persone coinvolte in questa ricerca (fonte un articolo de La Stampa, 12 luglio 2018).
“Con il tempo ho imparato a scindere i ricordi del passato da quelli di oggi. La mia mente gli dà la stessa importanza. è come se vivessi un eterno presente. Se mi sveglio la mattina e vedo che è l’11 luglio mi vengono in mente tutti i compleanni di chi è nato quel giorno e quello che ho fatto l’11 luglio di ogni anno della mia vita”.
Le date funzionano come una griglia su cui appoggiare le esperienze, per poi  richiamarle, e non solo quelle macroscopiche, ma anche quelle minuscole, in apparenza ininfluenti e cancellabili.
Chi segue Diconodioggi sa che il repertorio di racconti organizzati per giorno in cui la storia si svolge nella finzione risponde a suo modo alla forza mnemonica della data: la data incontra – nel momento della lettura – il tempo presente, scatenando in chi legge una catena di ricordi anche autobiografici. 


Il calendario come sistema di memoria, la stringa giorno-mese come accesso al passato, che avviene seguendo percorsi profondi e misteriosi, anche sinestetici, come si legge ancora nell’articolo citato: “E la cosa particolare è che associo anche i colori, una sorta di sinestesia mentale:l’11 lo vedo nero, il luglio viola, il 2 rosso e lo 0 grigio”.
E come aveva raccontato nei suoi studi Oliver Sacks: vedi questo post sui colori delle date

2020: la ricerca è andata avanti e ha permesso di “identificare le aree del cervello specificamente deputate a dare una dimensione temporale ai ricordi, organizzando quelle informazioni che nelle persone comuni restano memorie indistinte e sfocate”. I risultati degli studi di Valerio Santangelo, Tiziana Pedale, Simone Macrì, Patrizia Campolongo sono pubblicati sulla rivista Cortex: Enhanced cortical specialization to distinguish older and newer memories in highly superior autobiographical memory (https://doi.org/10.1016/j.cortex.2020.04.029).
Come si legge nella pagina Sapienza che riporta gli aggiornamenti della ricerca “c
omprendere i sistemi neurobiologici alla base dell’iper-funzionamento della memoria – concludono i ricercatori – fornisce importanti indicazioni su quali aree è necessario intervenire per stimolare il ripristino di un funzionamento adeguato della memoria in persone con deficit o lesioni neurologiche”.
(a.s.)

 

Venezia, la griglia del tempo e Madelon Hooykaas, di Laura Leuzzi

Il tempo è una componente fondamentale nell’opera dell’artista olandese Madelon Hooykaas, presentata qui da Laura Leuzzi:
Venezia – Veni etiam, “vieni ancora”, secondo una fantasiosa etimologia di Francesco Sansovino (1581), ci invita a tornare e ritornare in laguna. Questo elemento, ciclico, di ripetizione, permea l’ultimo lavoro dedicato a Venezia della pioniera della videoarte olandese Madelon Hooykaas. Il progetto arriva a Threshold artspace alla Perth Concert Hall in Scozia, come parte della prima personale dell’artista nel Regno Unito.
L’incessante flusso turistico che ogni anno invade Venezia – e altre capitali della cultura – è stato solo uno degli spunti di riflessione per la Hooykaas, che ha iniziato questa ricerca nel 2015 e l’ha sviluppata tramite due residenze veneziane alla Fondazione Emily Harvey.
Risultato di questo lungo lavoro sono le serie di performance Virtual Walls I (Emily Harvey Archive, Venezia, settembre 2017) e Virtual Walls | Real Walls (Berlino, Amsterdam e Perth), che riflettono sul concetto di muro, nella funzione duale di protezione e segregazione, sostenibilità e rigenerazione del tessuto urbano.
Portando questa performance a Perth, peraltro, l’opera fa eco anche alle mura che cingevano in età moderna la città e il cui unico brano, sopravvissuto alla distruzione ottocentesca, si trova probabilmente appena fuori lo spazio espositivo.
Virtual Walls | Real Walls riattiva così la memoria storica della città, su cui riflette in alcuni disegni e un testo d’artista la giovane Tabitha Mckechnie (READ MORE, n. 14, 2018).
Le performance della Hooykaas – in cui confluiscono video e disegno – vedono l’artista intervenire live con un carboncino sulla proiezione delle immagini video girate a Venezia. Come evidenziato dall’artista scozzese Sue Grieson, nel corso dell’opening del 14 maggio 2018, nella performance l’azione “congela il tempo”.
Il tempo, d’altronde – come notato nel testo che accompagna la mostra (sempre in READ MORE, n. 14, 2018) – è una componente fondamentale di questa serie di opere: nella performance, infatti, due piani temporali distinti – quello passato (il video) e quello presente (l’azione) si incontrano, fondendosi. Nel video utilizzato in Virtual Walls I, inoltre, il paesaggio lagunare è visibile attraverso una griglia, che filtra l’immagine, proteggendo e limitando la visione, e marcando con la sua mediazione la distanza del tempo. In Virtual Walls | Real Walls, invece, l’elemento ciclico evoca la memoria storica delle pietre di Venezia, su cui luce e acqua continuano a incontrarsi.
Al termine delle performance, quando la proiezione e l’azione si estinguono, i disegni restano come vestigia di immagini e gesti, tracce che testimoniano il passato, guardando alla rigenerazione futura.

Madelon Hooykaas, Virtual Walls | Real Walls
Threshold artspace, Perth Concert Hall (Scozia)
14 maggio – 26 luglio 2018
A cura di  Laura Leuzzi e Iliyana Nedkova
A questi link il trailer e altre notizie 
Immagine: Madelon Hooykaas, Virtual Walls I, performance at Archivio Emily Harvey, Venice, 2017 (courtesy the artist)

Venice, the Grid of Time and Madelon Hooykaas, by Laura Leuzzi

Venice, Venezia – Veni etiam, “come again”, following a creative ethimology invented by Francesco Sansovino (1581), invites us to come over and over again to the lagoon. This cyclical element, of repetition, permeates the latest work, dedicated to the city of Venice, by the Dutch video pioneer Madelon Hooykaas.  This project arrives to Threshold artspace at Perth Concert Hall in Scotland as part of the first solo exhibition of the artist in the UK.
The incessant touristic flow that every year invades Venice and many other cultural capitals has been one of the points for a reflection for Hooykaas, who started this research in 2015 and developed it through two Venetian residencies at the Emily Harvey Foundation.
The result of this long research is the series of performances Virtual Walls I (Emily Harvey Archive, Venice, September 2017) and Virtual Walls | Real Walls (Berlin, Amsterdam and Perth)– that reflect upon the concept of wall, in its dual function of protection and segregation, sustainability and regeneration of the urban fabric.  
Bringing this project to Perth, the work echos also the walls that used to circle the city in the modern age. What is probably last surviving piece of this wall – that was destroyed in the XIX cen – is just outside the Concert Hall. In some way Virtual Walls | Real Walls riactivates the historic memory of the city, over which the young Tabitha Mckechnie reflect with some drawings and text (READ MORE, n. 14, 2018).
 Hooykaas’s performances – in which video and drawing converge – see the artist intervening live with charcoal on the projection of images filmed in Venice.

As underlined by the Scottish artist Sue Grieson, during the Q&A at the exhibition opening (14 May 2018), the action “freezes the time” in the performance. Time, in any case, as mentioned by myself and the co-curator Iliyana Nedkova in the text that accompanies the exhibition (READ MORE, n. 14, 2018), is a key component of this series of artworks: in the performances two different time lines – that of the past (video) and that of the present (the action) meet, mingling. In the video employed in Virtual Walls I, the lagoon landscape is visible through a grid, that filters the image, protecting and limiting at the same time the vision and marks with its mediation the distance of time.
In Virtual Walls | Real Walls, on the other hand, the cyclical element evokes the historic memory of the stones of Venice, on which the light and the water continue to meet.
At the end of Hooykaas’ performances, when the projection and the action fade, the drawings stay as the vestiges of images and gestures, traces which testify the past and look to a future regeneration.  
 
Madelon Hooykaas, Virtual Walls | Real Walls
Threshold artspace, Perth Concert Hall (Scotland) 
14 May – 26 July 2018
Curated by Laura Leuzzi and Iliyana Nedkova
Trailer  and Daydreaming