Date a colori: in ricordo di Oliver Sacks

Scomparso il 30 agosto del 2015, il grande neurologo e scrittore Oliver Sacks – nella sua lunga e prolifica carriera (era nato a Londra nel 1933 e aveva insegnato alla Columbia University di New York) – ha avuto modo di occuparsi anche delle date.
Con il suo inconfondibile stile narrativo, che rende accostevoli i labirinti del cervello e delle emozioni, della memoria e dei comportamenti, attraverso il racconto di casi clinici e di esperienze personali, Sacks lascia delle pagine anche sul tema dei giorni. Si trovano negli studi raccolti col titolo Musicofilia. Racconti sulla musica e il cervello (2007, ed. it. Adelphi 2010), dove lo scienziato riporta l’esperienza del compositore Michael Torke che, sin da piccolo, associa la musica ai colori. Si tratta di una forma di sinestesia, per cui i brani musicali sono percepiti simultaneamente con sfumature cromatiche.

sacks
Nel ripercorrere l’esperienza di Michael Torke, Sacks rivela che questa “istantanea congiunzione di sensazioni” riguardava anche esperienze non musicali: “per lui le lettere dell’alfabeto, i numeri e i giorni della settimana hanno tutti il loro particolare colore e anche una topografia o un paesaggio peculiari”.
E prosegue, in nota, con l’elenco delle associazioni (dal verde lunedì alla domenica nera) e con l’esempio eloquente: “Non appena si fa riferimento a una data, immediatamente nella mente di Michael appare il suo correlato cromatico e topografico. Domenica 9 luglio 1933 (la data di nascita di Sacks! n.d.r.),  per esempio, genererà  all’istante l’equivalente cromatico della domenica, e poi quello del giorno, del mese e dell’anno, spazialmente coordinati”.
Tale capacità è messa in relazione, infine, con la mnemotecnica: “questo tipo di sinestesia ha una certa utilità come aiuto per la memoria”.
Più avanti nel capitolo, Sacks racconta anche il caso dello psicologo e musicista Patrick Ehlen, dotato di una “sinestesia molto estesa” che riguardava – oltre ai suoni e ai rumori – le lettere, i numeri e ancora una volta i giorni della settimana. Una caratteristica che si riscontra sin dall’infanzia quando –  alla maestra che gli chiedeva che cosa stesse fissando – rispose di stare “contando i colori fino a venerdì'”.
www.oliversacks.com
Antonella Sbrilli @asbrilli

31 Agosto

31 agosto 2015

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Il 31 agosto, sabato, in casa Rostov tutto era sottosopra. Tutte le porte erano spalancate, tutti i mobili portati fuori o spostati, specchi e quadri tolti dalle pareti. Nelle camere c’erano ovunque bauli, mucchi di paglia, carta da imballaggio e corde. I contadini e i domestici che trasportavano la roba camminavano a passi pesanti sul parquet. In cortile si ammassavano i carri dei contadini, alcuni già stracarichi e legati, altri ancora vuoti

Lev Tolstoj, Guerra e pace, 1867-69, tr. it.P. Zveteremich, ed. cons. Garzanti, 1985, vol. III, p. 1283

Dopo la battaglia di Borodino, le truppe di Napoleone stanno avanzando verso Mosca e la città è “in subbuglio e in movimento”. Fra notizie incerte, voci e dicerie, gli abitanti si preparano a lasciare le loro dimore. Anche in casa dei Rostov, una delle famiglie di cui si raccontano le vicende in Guerra e pace, ci si prepara alla partenza, imballando porcellane, cristallerie, vestiti e caricando i carri. È il 31 agosto, secondo il calendario giuliano ancora in uso nella Russia ortodossa, e la battaglia di Borodino– sempre secondo questo computo del tempo – è avvenuta il 26 agosto. Per i paesi cattolici che avevano attuato la riforma del calendario di Papa Gregorio XIII, la battaglia cade il giorno 7 settembre 1812. E l’ultimo giorno che i Rostov trascorrono nella loro casa, è contemporaneamente il 12 settembre e il 31 agosto del 1812.

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30 Agosto

30 agosto 2015

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Una volta all’anno, ma sempre in un bel mese, mi arrivano per posta dieci cartoline illustrate di Napoli. Le ricevo tutte insieme, un pacchetto di immagini, un piccolo film; dietro ogni cartolina leggo semplicemente la data e una firma: Luigi De Manes. È un mio vecchio amico, fu giovane con me; scrive il mio indirizzo e il suo nome sulle cartoline e per il resto si rimette a ciò che esse presumibilmente resusciteranno nel destinatario, solo che costui voglia degnare di una affettuosa occhiata i luoghi riprodotti. Bene. Dieci “illustrate al platino”, ossia lucide e lisce come i medaglioni; dunque, caro Luigi, ecco i facilissimi pensieri che mi sono derivati dalle tue cartoline del 30 agosto, senti”

Giuseppe Marotta, Cartoline, in L’oro di Napoli, 1947, ed. cons. Bompiani, 1961, p. 79

Il 30 agosto, come ogni anno, il narratore – trasferitosi da Napoli a Milano – riceve dieci cartoline della sua città. Senza messaggi, portano solo la firma dell’amico che le invia e la data estiva, del “bel mese” di agosto, quando “l’aria odora di alberi e di carne giovane, non so, come se le foglie crescessero sul capo di un bambino”.
Tutte insieme, costituiscono un “piccolo film”, fatto di diversi episodi accaduti nelle strade, sulle spiagge, in barca. Memoria e nostalgia si condensano nelle dieci immagini che aprono un varco nel tempo e subito lo richiudono: “il passato non serve a niente e l’avvenire sembra o è altrettanto inutile”.

 

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28 agosto: il compleanno del compleanno

Massimo poeta e drammaturgo tedesco, osservatore della natura e di sé stesso,  Wolfgang Goethe al suo compleanno ci teneva molto.
Era nato a Francoforte sul Meno il 28 agosto 1749 – come gli stesso racconta – “a mezzogiorno, al dodicesimo rintocco della campana”, sotto una congiunzione astrale favorevole e ogni anno faceva attenzione alla ricorrenza, che era per lui occasione di bilanci e previsioni, oltre che di auguri e regali da parte di familiari e amici. Piccoli dolci lievitati, tipici bretzel tedeschi e anche – più avanti nel tempo – la torta di compleanno, che era per allora una assoluta novità.
Goethe Tischbein
Sì, perché il compleanno di Goethe – secondo gli storici – segna l’affermarsi di un nuovo modo, moderno e a noi familiare –  di festeggiarsi.
Dal divieto cristiano di celebrare la propria nascita terrena (in attesa di una nascita ben più importante), all’abitudine di fare gli auguri per ogni anno aggiunto alla linea della vita, ne sono passate di esperienze nei secoli. Le racconta con diversi esempi lo storico Jean – Claude Schmitt nell’Invenzione del compleanno (edizione italiana Laterza) che rintraccia “il lento costituirsi della pratica del compleanno, dei suoi riti – auguri, canzoncina, dolcetti, regali, candeline -” prima fra gli aristocratici, poi nella borghesia del XIX secolo e infine, ma solo nel Novecento, anche nelle classi popolari.

“La storia del compleanno appartiene alla lunga durata” – prosegue Schmitt – “ e bisogna attendere le 53 candeline della torta di compleanno di Goethe nel 1802, per assistere all’invenzione del compleanno più o meno come lo conosciamo oggi”.
Un giorno speciale, che dà un ritmo al tempo individuale e di gruppo, il giorno del compleanno: con i suoi riti ha preso via via sempre più forza e ora sono i social network ad allertarci sulle scadenze e a ricordarci quest’obbligo, allargandolo dalla cerchia di parenti e amici a tutti i contatti, fino agli elenchi dei “nati oggi”.
Su twitter l’hashtag di compleanno di artisti e personalità pubbliche è una presenza rilevante e riguarda sia i vivi, che effettivamente compiono gli anni, sia i morti di cui ricorre l’anniversario: come una calamita, l’hashtag del compleanno invita a unirsi a una celebrazione diffusa, lasciando il proprio contributo nel flusso dei retweet e delle menzioni. Non per niente “compleanno” è una delle parole discusse dall’antropologo Marino Niola nel suo libro Hashtag. Cronache di un paese connesso (Bompiani), per descrivere come cambia l’esperienza di “fare gli anni”, quando è comunicata e condivisa in rete e accompagnata da fette di torta e candeline immateriali.
Alla radice delle quali c’è – non dimentichiamolo – la torta di Goethe, #natooggi.

Sul tema del compleanno, in diconodioggi, leggi il post di Gianluca Giraudo, Compiere gli anni.

Antonella Sbrilli @asbrilli

28 Agosto

28 agosto 2015

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La creatura, in qualche modo, provvide ad aiutarla, con l’anticipare di alcune settimane la propria nascita, che era prevista per l’autunno, ma invece fu alla fine di Agosto, mentre Nino si trovava a un campeggio di avanguardisti. Il 28 di agosto, quando avvertì le prime doglie, Ida era sola in casa; e, presa dal panico, senza nemmeno preannunciasi con una telefonata, si mise su un tram verso l’indirizzo della levatrice

Elsa Morante, La Storia, 1974, Einaudi, p. 94

Concepito nel gennaio del 1941, dalla maestra Ida Ramundo e da un soldato tedesco di passaggio, il 28 agosto nasce – in anticipo – il figlio di quell’unione consumata nel quartiere romano di san Lorenzo. Ida è preoccupata di come dire del suo stato al figlio grande Nino, ed è sollevata dal fatto che il parto avvenga in anticipo, mentre il ragazzo è fuori. Quando il bambino nasce, “piccirillo”, “caruccio” e “con l’intenzione di sopravvivere”, malgrado le difficoltà del momento in cui è venuto al mondo, Ida deve superare lo scoglio di dichiararlo figlio di padre ignoto. Così, scrive su un foglio a lettere stampatello “Giuseppe Felice Angiolino nato a Roma il 28 agosto 1941 da Ida Ramundo vedova Mancuso e da N. N.”

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27 Agosto

27 agosto 2015

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Era il 27 agosto 1926, alle quattro del pomeriggio, i negozi erano affollati, nei magazzini le donne facevano ressa, nelle case di moda le mannequins giravano su se stesse, nelle pasticcerie chiacchieravano gli sfaccendati, nelle fabbriche sibilavano gli ingranaggi, lungo le rive della Senna si spidocchiavano i mendicanti, nel Bois de Boulogne le coppie d’innamorati si baciavano, nei giardini i bambini andavano in giostra. A quell’ora il mio amico Franz Tunda, trentadue anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nella piazza davanti alla Madeleine, nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui al mondo non c’era nessuno

Joseph Roth, Fuga senza fine, 1927, tr. it. M. G. Paci Manucci, ed. cons. Adelphi 2010, p. 151

Il 27 agosto del 1926 si chiude il racconto di dieci anni di vita del tenente austriaco Franz Tunda. Le vicende narrate hanno inizio nell’agosto del 1916, quando Tunda è fatto prigioniero dai russi, riesce a fuggire dal campo con l’aiuto di un polacco, vive dimenticato nella taiga, cerca di tornare a Vienna, è catturato, liberato, coinvolto nella rivoluzione bolscevica. Senza dimenticare la sua fidanzata viennese, conosce diverse donne, si sposa anche, nella città di Baku. Ma ogni sosta – com’è stato detto – “è solo un momento di sospensione nel turbine di una fuga senza fine”, che si ferma a Parigi, dove – “gli pareva, era il suo posto e la sua fine” e dove il narratore della sua storia lo incontra il 27 agosto.

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26 Agosto

26 agosto 2015

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– Niente è accaduto, i fatti sono sempre quelli. I fatti sono lì; – era tornato alla tavola e premeva con le palme aperte sullo scartafaccio del Diario – quel che importa, che mi sconvolge, non sono i fatti, tutti li sanno; sono i rapporti, le concorrenze, la interpretazione; è qui – e con l’indice, lungo e secco che pareva un bastone, picchiava sui margini coperti di note minutissime in inchiostro rosso.
Maurizio ricordò i vaneggiamenti sul ventisei di agosto, che a suo tempo Carmela gli aveva raccontati, e respirò. Carmela uscì in un riso ebete, ma l’abate la fulminò. Narcisa rimaneva fredda e attenta. Poiché ora lo sguardo febbrile dell’abate era arrivato su lei, ella disse rigidamente:
– Per conto mio, le prometto il più rigoroso segreto.
– Ecco; lo confesso, io m’ero ingannato allora, quando ho trovato quella coincidenza di date

Massimo Bontempelli, Gente nel tempo, 1937, ed. cons. Mondadori 1942, pp. 114-115

“È a forza di anniversari che il tempo se ne va tanto presto, invece gli uomini ci hanno una vera passione”. Nella storia della famiglia Medici, le date hanno una fatale importanza, scandendo la successione della scomparsa dei componenti, a partire dalla nonna delle due protagoniste (le sorelle Nora e Dirce), la “Gran Vecchia”, morta il 26 agosto del 1900. È una suggestione collettiva che coinvolge, oltre alla famiglia, l’intero paese e soprattutto l’abate Clementi, che registra su un Diario il ritmo “astrale” delle date di famiglia, a partire da quel 26 agosto di inizio secolo, per poi ammettere che “non importa morire, importa non sapere quando”. “Se uno quando c’è ci pensasse forte, ma ben forte, mi pare che il tempo non dovrebbe andarsene a questo modo”.

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25 Agosto

25 agosto 2015

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“Che strano” diceva, “siamo due e siamo la stessa persona. Ma nulla è strano nei sogni. “
Chiesi sgomento: “Allora, tutto questo è un sogno?”
Con la mano mostrò il flacone vuoto sul marmo del comodino.
“Tu avrai molto da sognare, però, prima di giungere a questa notte. In che data sei?”
“Non saprei con precisione” gli dissi confuso, “Ma ieri ho compiuto sessantun anni.”
“Quando la tua veglia arriverà a questa notte, ne avrai compiuti ieri ottantaquattro. Oggi è il 25 agosto 1983.”
“Tanti anni bisognerà aspettare” mormorai

Jorge Luis Borges, 25 agosto 1983, 1977, tr. it. G. Guadalupi, Franco Maria Ricci, 1980, ora anche in Tutte le opere, I Meridiani Mondadori, 1985, vol. II, p. 1122

Uno sdoppiamento del tempo (e del sogno) mette accanto due date: il 25 agosto del 1960 che è il presente del viaggiatore sessantunenne che entra nell’Hotel Las Delicias del paese di Adrogué e il 25 agosto del 1983, che è il presente del vecchio che il viaggiatore trova nella stanza 19. Hanno lo stesso nome e si somigliano, sono la stessa persona – lo scrittore Borges – presente contemporaneamente in due tempi diversi, che entrano in contatto. Nel dialogo fra i due personaggi, lo scrittore fa riferimento al suo giorno effettivo di nascita, il 24 agosto: “ieri”, rispetto alla data del 25, in cui il racconto si svolge.

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24 Agosto

24 agosto 2015

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Ma in quale epoca della vita di Pompei era stato trasportato? Un’iscrizione edile scolpita su un muro gli fece capire, dal nome dei personaggi pubblici, che si era all’inizio del regno di Tito, cioè nell’anno 79 della nostra era. Un pensiero improvviso attraversò la mente di Octavien: la donna di cui aveva ammirato l’impronta al museo di Napoli doveva essere viva perché l’eruzione del Vesuvio nella quale era morta era avvenuta il 24 agosto di quell’anno. Poteva dunque ritrovarla, vederla, parlarle… Il desiderio folle che aveva provato vedendo quella cenere modellata su forme divine poteva essere soddisfatto, perché nulla doveva essere impossibile a un amore che aveva avuto la forza di far tornare indietro il tempo e di far passare due volte la stessa ora nella clessidra dell’eternità

Théophile Gautier, Arria Marcella, 1852, in Il vello d’oro e altri racconti, tr. it. L. Binni, Giunti 1993, p.155

In un anno dell’Ottocento, Octavien, un giovane francese in viaggio a Napoli con due amici, visita il Museo e s’incanta di fronte alla vetrina, dove è conservato un pezzo di lava nera che reca l’impronta di un seno e di un fianco femminili. Arrivato a Pompei e trovata la casa da cui proviene l’impronta, Octavien vive – o immagina di vivere – un’esperienza prodigiosa. Mentre i suoi amici dormono sotto i fumi del vino Falerno, Octavien visita di nuovo, da solo, le rovine. Per lui “la ruota del tempo era uscita dalla sua carreggiata” , riportandolo a un giorno che precede di poco il 24 agosto del 79 dopo Cristo, data dell’eruzione del Vesuvio che seppellì la città. Un’ondulazione del tempo, un ritorno del passato – o una sincope, come apparirà agli amici che lo ritrovano svenuto – gli permette di trovarsi di fronte ad Arria Marcella, in un punto nodale della storia antica.

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23 Agosto

23 agosto 2015

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Il ventitré agosto del 1964 fu l’ultima giornata felice che il farmacista Manno ebbe su questa terra. Secondo il medico legale, la visse fino al tramonto; e del resto, a suffragare la constatazione della scienza, c’erano i pezzi di caccia che dal suo carniere e da quello del dottor Roscio traboccavano: undici conigli, sei pernici, tre lepri. Secondo i competenti, quella era messe di tutta una giornata di caccia, e considerando che la località non era di riserva, e non proprio ricca di selvaggina. Il farmacista e il dottore la caccia amavano farla con fatica, mettendo a prova la virtù dei cani e la propria: perciò andavano d’accordo e sempre uscivano insieme, senza cercare altri compagni. E insieme chiusero quella felice giornata di caccia, a dieci metri di distanza

Leonardo Sciascia, A ciascuno il suo, 1966, ed. cons. Adelphi, 1994, p. 18

Domenica 23 agosto 1964 (mentre nella realtà – a Roma – si preparano i funerali di Togliatti), nella campagna siciliana vengono uccisi due amici, il dottor Roscio e il farmacista Manno. Quest’ultimo, uomo senza nemici, lontano dalle discussioni politiche, pochi giorni prima aveva ricevuto in farmacia una lettera anonima con una minaccia di morte. Il messaggio non lo aveva spaventato più di tanto e il 23 agosto è andato a caccia con l’amico e i cani, che torneranno in paese da soli, verso le nove di sera, “misteriosamente ululando”. Del caso si occuperà – oltre che il maresciallo dei carabinieri – anche il professor Laurana, l’unico ad accorgersi che la lettera anonima – guardata dal rovescio – rivela una parola latina (unicuique, dal motto unicuique suum che compare sulla testata dell’Osservatore romano, e che, tradotto come “a ciascuno il suo”, dà il titolo al romanzo). Un indizio, questo, che porterà Laurana fatalmente vicino alla spiegazione degli omicidi e alla catena di fatti che li ha determinati, diversa da come poteva apparire – collegando la lettera con il farmacista – in quel giorno di agosto.

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22 Agosto

22 agosto 2015

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Così arrivò il ventidue di agosto e così vennero le tre Notti di Ferro.
La prima Notte di Ferro. Alle nove il sole tramonta. Sopra la terra si stende un’ombra opaca, si vedono alcune stelle e, due ore dopo, appare un barlume di luna. Col fucile e col cane me ne vado nel bosco, accendo un focherello e il bagliore della fiamma si insinua fra i tronchi dei pini. Non c’è brina.
La prima Notte di Ferro! dico fra me. E una gioia violenta per il tempo e il luogo mi confonde e mi scuote stranamente

Knut Hamsun, Pan, 1894, tr. it. E. Pocar, in Pan. L’estrema gioia, Mondadori, 1941, p. 88-89

Il tenente Glahn ricorda l’estate del 1855 , quando “il tempo passava molto veloce, senza confronto più veloce di adesso”. Nella foresta norvegese di betulle, popolata di animali ma anche carica di silenzi, Glahn ha trascorso un tempo speciale, in ascolto della natura e di sé stesso. Più adatto alla vita solitaria che alle relazioni umane e amorose, Glahn è sensibile a ogni manifestazione della natura, alle lievi variazioni di luce e calore che accompagnano il cambiamento della stagione. La notte del ventidue agosto – la prima delle notti di agosto in cui comincia ad apparire il primo ghiaccio – il sole tramonta alle nove e Glahn si prepara a passarla all’aperto, mentre un aurora boreale “passa sopra il cielo del Nord”. Lo scrittore norvegese Knut Hamsun – premio Nobel nel 1920 – era nato nel 1859, il 4 agosto.

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21 Agosto

21 agosto 2015

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Presa in consegna dal “braccio secolare”, Antonia fu trasferita, il 21 agosto, nella Torre dei Paratici che era l’antica torre del Broletto, cioè del palazzo del Comune di Novara prima che questo si riducesse ad essere com’è ora: soffocato dagli edifici che gli sono cresciuti addosso nel corso dei secoli, e senza torre. All’epoca della nostra storia, invece, il Broletto era un palazzo indipendente, attorno a cui correvano le strade; e la Torre dei Paratici, che s’alzava a sud, nella sua parte superiore era una prigione… aerea, di due stanze sovrapposte e raggiungibili per mezzo di una scala esterna, piuttosto ardimentosa. Speciali immagini devote, in quelle due stanze, avevano il compito di redimere i detenuti. Al piano superiore, destinato alle donne, era dipinto un Cristo morto in braccio alla Madonna, mentre al piano di sotto, dov’erano tenuti prigionieri gli uomini, c’era il patrono dei carcerati, San Leonardo: entrambi gli affreschi, però, erano ricoperti di nomi, date, graffiti osceni, ed entrambi si vedevano poco, perché non c’erano finestre in quelle due stanze, soltanto feritoie che d’inverno venivano chiuse con la paglia, e allora buonanotte! Si restava al buio. D’estate poi le feritoie si riaprivano, e ci si tornava a vedere: ma chi entrava ai Paratici, qualunque fosse la stagione in cui ci arrivava, doveva attendere un po’ di tempo prima che i suoi occhi s’adattassero alla penombra; e così anche successe a Antonia

Sebastiano Vassalli, La chimera, 1990, Einaudi 1990, p.282

In un agosto senza pioggia, col sole che “riaffiorava all’alba da un mare di vapore” , trascorrono gli ultimi giorni di vita di Antonia, una ragazza di vent’anni vissuta al principio del Seicento in un piccolo centro agricolo della “bassa”, di cui non resta traccia. Trovatella lasciata alla Casa di Carità di San Michele fuori le Mura a Novara, adottata da una coppia di contadini del paese di Zardino, Antonia si è rivelata troppo bella e intelligente per non suscitare invidie, maldicenze e infine l’accusa di stregoneria, in quell’estate di siccità e paura. Processata, torturata e dichiarata colpevole, il 21 agosto è condotta in prigione dove, in attesa dell’esecuzione, perde il conto dei giorni e delle notti e si rifugia nei sogni, dove nessuno la chiama strega e dove il tempo non si è ancora richiuso.

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20 Agosto

20 agosto 2015

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Il dì 20 di agosto del 1849 all’una e mezza del pomeriggio l’Austria doveva essere distrutta: così era stato deciso nel “Circolo della pistola”. Non so più neanche di che cosa si fosse resa colpevole l’Austria allora, ma posso affermare senza il minimo dubbio che la decisione era stata presa dopo matura riflessione. Non c’era ormai niente da fare, la cosa era stata deliberata e giurata e l’esecuzione era stata affidata alle mani esperte di Jan Zizka da Trocnov, di Prokop Holy di Prokupek e di Mikulas da Husi, ossia a me, a Peppino Rumpal, il figlio del salumaio, a Cecchino Mastny, il figlio del calzolaio, e a Tonino Hochmann, quello che veniva dai dintorni di Rakonikov e studiava a spese del fratello, contadino benestante. […] Racconto con perfetta sincerità: mi sentivo proprio male. Veramente un certo malessere mi serpeggiava in corpo già da parecchi giorni e cresceva in proporzione di quanto si avvicinava il 20 di agosto

Jan Neruda, Come fu che il dì 20 di agosto 1849, all’una e mezza del pomeriggio, l’Austria non fu distrutta, 1878, tr. it. J. Vesela Torraca, in I racconti di Mala Strana, Marietti, 1982, pp.105, 112

Quattro ragazzini di Praga, amici che trascorrono insieme le giornate di un anno di metà Ottocento, decidono di organizzare – per il 20 di agosto – l’insurrezione della città e la distruzione dell’Austria. Con nomi di battaglia presi dai condottieri hussiti del Quattrocento, predispongono un piano d’attacco, a cui manca solo la polvere da sparo, che deve arrivare da fuori, portata da un venditore ambulante. Quando sorge la mattina “del memorabile giorno”, il narratore – angosciato di fronte a un gioco troppo serio – si ritrova a desiderare che “non albeggiasse, che la luce non venisse e che la natura lo saltasse addirittura, quel solo, quell’unico giorno!”. La polvere da sparo non arriverà e il 20 agosto passerà in effetti senza avvenimenti memorabili, se non l’attesa e l’agitazione dei ragazzi nella giornata estiva.

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19 Agosto

19 agosto 2015

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19 agosto 17**

Ieri lo straniero mi ha detto: “Avrete senz’altro capito, capitan Walton, che ho sofferto grandi e incomparabili disgrazie. In un primo tempo ero determinato a portare la memoria di questi dolori nella tomba; ma voi mi avete convinto a mutare proposito. Voi cercate sapienza e saggezza, come anch’io ho fatto un giorno; spero ardentemente che l’esaudimento dei vostri desideri non si trasformi in un serpente che vi aggredisca, come è accaduto per me.” […] Aggiunse che avrebbe iniziato il racconto il giorno successivo, quando fossi stato libero. Lo ringraziai con calore. Ho deciso di registrare ogni sera, quando i miei doveri non mi reclamano imperiosamente, ciò che mi narra durante il giorno, riportando per quanto possibile le sue stesse parole. Se sarò troppo impegnato, ne prenderò almeno degli appunti. Il manoscritto ti darà sicuramente grande piacere; ma anch’io, che lo ascolto dalle sue stesse labbra, con quale interesse e affetto lo rileggerò un giorno, nel futuro! Già ora, all’inizio di questo compito, la sua voce ben modulata mi risuona all’orecchio; i suoi occhi lucidi si fissano su di me, con dolce malinconia

Mary Shelley, Frankenstein, 1818, tr. it. M. P. Saci, F. Troncarelli, Garzanti 1991, p.29

Scritto in Svizzera nell’estate inclemente del 1816, umida e piovosa, Frankenstein di Mary Shelley (che il 30 agosto di quell’anno avrebbe compiuto diciannove anni), è un romanzo che si compone di lettere, resoconti, confessioni di tre personaggi: l’esploratore e scienziato Robert Walton, il dottor Frankenstein e la creatura. Walton, in viaggio verso il Polo Nord, si imbatte fra i ghiacci in un naufrago che gli racconta le terribili esperienze che lo hanno condotto fin là. È il dottor Frankenstein, colui che ha creato la vita componendo membra di uomini morti. Il 19 agosto è la data dell’ultima lettera che Walton scrive alla sorella raccontandole dell’incontro con Frankenstein, prima che la parola passi a questi e alla “strana, ossessiva storia” della sua creazione.

 

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18 Agosto

18 agosto 2015

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Quella domenica 18 agosto è, fra i giorni della mia vita, uno dei tre o quattro che mi recito da cima a fondo, quando voglio cercare di raggiungere l’estasi di rivivermi. Mi spiego: io col passato ho rapporti di tipo vizioso, e lo imbalsamo in me, lo accarezzo senza posa, come taluno fa coi cadaveri amati. Le strategie per possederlo sono le solite, e le adopero tutt’e due. Dapprincipio mi visito da forestiero turista, con agio, sostando davanti a ogni cocciopesto, a ogni anticaglia regale; bracconiere di ricordi, non voglio spaventare la selvaggina. Poi metto da parte le lusinghe, l’educazione, lancio a ritroso dentro me stesso occhi crudeli di Parto, lesti a cogliere e a fuggire. Dagli attimi che dissotterro – quanti ne ho vissuti apposta per potermeli ricordare!- non so cavare pensieri, io non ho una testa forte, e il pensiero o mi spaventa o mi stanca. Ma bagliori, invece… bagliori di luce e ombra, e quell’odore di accaduto, rimasto nascosto con milioni d’altri per anni e anni in un castone invisibile, quassopra, dietro la fronte… Sento a volte che basterebbe un niente, un filo di forza in più o un demone suggeritore… e sforzerei il muro, otterrei, io che il Non Essere indigna e l’Essere intimidisce, il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere

Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, 1981, ed. cons. Bompiani, 1992, p. 75

 

I giorni dell’estate del 1946, al sanatorio della Rocca nei pressi di Palermo, passano come i gradini della “scala mobile di una Rinascente”, che si assottigliano inesorabilmente e spariscono uno dopo l’altro. Di tutti i giorni che il narratore trascorre nella casa di cura, in compagnia di altri ammalati di tubercolosi – ai quali è destinato a sopravvivere – uno, in particolare, torna nei suoi ricordi. Domenica 18 agosto è la data dell’incontro con la giovane Marta per una passeggiata in città, fra chioschi di granite, viali di palme e confidenze via via più intime, che porteranno ad altri rari ma intensi appuntamenti. Una giornata degna di essere rivissuta, richiamata al presente come un bis a teatro.

Vai a Cartolina per un 18 agosto

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17 Agosto

17 agosto 2015

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Joan rovistò nella sua valigia aperta e tornò a galla con una manciata di ritagli di giornali. Il primo mostrava l’ingrandimento fotografico di una ragazza con occhi ombreggiati di nero e labbra nere aperte in un largo sorriso. Non riuscivo a immaginare dove mai fosse stata presa una simile fotografia, poi notai gli orecchini e la collana di Bloomingdale che mandava raggi bianchi e splendenti a imitazione di stelle.
Scomparsa una studentessa universitaria. Angosciata la madre.
L’articolo sotto la fotografia diceva che questa ragazza era sparita di casa il 17 agosto, che indossava una gonna verde e una camicetta bianca, che aveva lasciato un biglietto in cui diceva di andare a fare una lunga passeggiata

Sylvia Plath, La campana di vetro, 1963, tr. it. D. Menicanti, Mondadori 1979, pp.174-5

Nell’estate afosa del 1953 – iniziata negli Stati Uniti con l’esecuzione dei coniugi Rosenberg, accusati di spionaggio a favore dell’Unione Sovietica– la giovane Esther è tornata nella casa materna, alla periferia di Boston, dopo un mese passato a New York con una borsa di studio. Non è stata ammessa alla scuola per scrittori e, una volta a casa, non riesce a dormire né a leggere; vede gli anni della sua vita “lungo una strada come pali telegrafici collegati da fili, diciannove pali”, dopo i quali i fili pendono nel vuoto. L’incertezza sul suo talento di scrittrice e la mancanza di sonno – con i giorni “abbaglianti come un lungo viale bianco di infinita desolazione” – la trascinano nella depressione. Dalla campana di vetro in cui si sente rinchiusa, finisce nello studio di uno psichiatra, sul lettino dell’elettroschock, finché non tenta il suicidio – camuffandolo da fuga – in un giorno di quell’estate: la vicenda è riportata dai giornali del 17 agosto, in cui Esther, nella clinica dove è ricoverata, si vede ripresa in una vecchia foto.

L’attrice Daria Nicolodi legge questo brano per una puntata-pilota del programma I Librivori (1995, Videomusic)

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24 ore di fotografie: Erik Kessels

L’installazione di Erik Kessels, 24 Hours in Photos, materializza la porzione di un giorno della quantità di immagini presenti sui social. Inserita nella grande mostra itinerante Big Bang Data (partita da Barcellona nel 2014) è attualmente visibile a Buenos Aires. Ne parla in questo post Camilla Federica Ferrario:

Una giornata: 24 ore, 1440 minuti, 86400 secondi. Ma quante fotografie? A porsi questa domanda, nel 2011, è stato l’olandese Erik Kessels. Per dare una risposta – anziché limitarsi a un semplice calcolo astratto – ha deciso di scaricare e poi stampare in formato 10×15 tutte le foto condivise su Flickr durante l’arco di 24 ore. Ha poi riversato fisicamente queste immagini nelle sale del Foam di Amsterdam e successivamente in varie altre sedi espositive in tutto il mondo, in una mostra intitolata 24 Hours in Photos.
kessels 24h
Lo scenario che i visitatori si trovano davanti è sorprendente: montagne di fotografie alte fino al soffitto. La geniale intuizione dell’autore, infatti, consiste nel rendere tangibile ciò di cui normalmente possiamo avere solo un’idea vaga e astratta: l’enorme flusso di immagini prodotte quotidianamente da tutti in noi in un flusso ininterrotto.
Se abitualmente il problema dell’incessante proliferazione delle immagini (e degli effetti che ne derivano) può essere trascurato, questo non è più possibile dal momento in cui, grazie alla mostra ideata da Kessels, le immagini smaterializzate acquistano invece corpo, presentandosi in tutta la loro minacciosa (dirompente, inarrestabile) presenza fisica.
Come ha osservato Michele Smargiassi, l’evidente esaurimento dello spazio fisico necessario a contenere tutte queste immagini rende manifesto il più grave problema dell’esaurimento dello spazio mentale in grado di registrarle.
Sembra inoltre che la funzione primaria della fotografia, trattenere ciò che inevitabilmente sfugge, salvare un momento dall’inesorabile azione dissolvente del tempo, stia venendo meno, dal momento che la nostra memoria è sepolta da cumuli d’immagini che non abbiamo neanche più il tempo di guardare.
Questo accade perché nella società contemporanea il momento della registrazione e successiva condivisione delle esperienze vissute sta diventando via via più importante delle esperienze stesse. Se l’artista giapponese On Kawara, intorno agli anni Settanta, per affermare di essere ancora vivo non poteva che inviare dei telegrammi ai suoi amici, oggi, in un mondo in cui tutto è più rapido, e il tempo stesso sembra scorrere più velocemente, per affermare la propria presenza nel mondo è sufficiente condividere una propria foto su internet, recepita all’istante da ttutti i propri amici contemporaneamente, senza neanche più dover considerare l’intervallo tra invio e ricezione. Tutti i tempi si sono annullati. Tutto è immediato, e il processo è talmente semplice che il risultato non può non essere un eccesso di immagini. Siamo ormai sepolti, consapevolmente o no, sotto una valanga di fotografie: Erik Kessels lo ha saputo mostrare in maniera geniale con 24 Hours in Photos.
Quasi rispondendo alla sua stessa opera, in altre occasioni Kessels si è presentato come figura eroica in grado di sfidare questa valanga, di farsi carico dell’arduo compito di selezionare da essa solo alcune fotografie allo scopo di evitare che, come nella sua installazione, esse ci sommergano.
Da tempo, infatti, si dedica a raccogliere fotografie “usate” nei mercatini delle pulci e su internet, riproponendole poi in mostre e pubblicazioni, caratterizzate sempre da un approccio ironico e provocatorio. Le fotografie che sceglie sono fotografie anonime, spesso prodotte in ambito familiare e colme dei classici errori fotografici. In tutte le sue opere Kessels ricerca volontariamente il banale, l’imperfetto, il dissonante, come reazione alla perfezione che domina non solo nelle immagini pubblicitarie (di cui egli si occupa quotidianamente come direttore creativo di un’agenzia di comunicazione), ma anche nelle fotografie che ogni giorno vengono condivise in rete.
Queste, infatti, sembrano ormai voler essere più un mezzo di auto-propaganda che un ricordo personale. Gli errori e le imperfezioni, invece, mostrano come un tempo le foto fossero dei ricordi da custodire gelosamente, piuttosto che semplici momenti da condividere e poi subito dimenticare. In un certo senso, quindi, quello che rende affascinanti queste fotografie è la traccia del trascorrere del tempo, che conservano, ad esempio, nelle macchie, nella muffa, nei vuoti lasciati dal ritaglio di persone non più gradite. Le vecchie foto da album di famiglia non sono però le uniche ad essere raccolte da Kessels, che spesso si concentra anche su bizzarre immagini trovate in internet, capaci di sortire effetti di grande ironia.
Se in 24 Hours in Photos l’artista aveva scelto di non selezionare le immagini, limitandosi semplicemente a coglierne l’enorme e monotono flusso, nel resto della sua attività ha invece saputo mostrare come qualcosa di buono possa ancora nascondersi anche dove meno ci si aspetterebbe, quasi a voler intendere che, nonostante siamo ormai sommersi dalle immagini, non è detto che, in fondo, naufragar non possa esserci dolce in questo mare.

Camilla Federica Ferrario

16 Agosto

16 agosto 2015

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– Vuoi dire di Elvis Presley in persona?
– Sì, ho lavorato con lui per una decina di giorni, durante le riprese di un film in Messico.
(…)
– Senti, ma quanti anni hai, allora, se hai lavorato niente meno che con il Re? È morto da moltissimi anni, no? Cinquanta? – Mi scappava ancora da ridere, fui in grado di trattenermi per fortuna.
Notai subito che stava recuperando un po’ della sua civetteria. Mi sgridò ancora, per prima cosa.
– Non esagerare. Il prossimo 16 agosto saranno trentaquattro, credo. Non credo di più –

Javier Marías, Gli innamoramenti, 2011, tr. it. G. Felici, Einaudi, 2012, pp. 292, 293

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15 Agosto

15 agosto 2015

 

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Io sono nato nella città di Bombay… tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: sono nato nella casa di cura del dottor Narlikar il 15 agosto 1947. E l’ora? Anche l’ora è importante. Bè, diciamo di notte. No, bisogna essere più precisi… Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Quando io arrivai le lancette dell’orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Oh, diciamolo chiaro, diciamolo chiaro; nell’istante preciso in cui l’India pervenne all’indipendenza, io fui scaraventato nel mondo. Ci fu chi boccheggiò. E, fuori della finestra, folle e fuochi d’artificio. Pochi secondi dopo, mio padre si ruppe un alluce; ma questo incidente era una bazzecola se paragonato a quel che era accaduto a me in quel tenebroso momento: grazie infatti alle tirannie occulte di quelle lancette dolcemente ossequianti, io ero stato misteriosamente ammanettato alla storia, e il mio destino indissolubilmente legato a quello del mio paese. Nei tre decenni successivi non avrei avuto scampo

Salman Rushdie, I figli della mezzanotte, 1980, tr. it. E. Capriolo, Garzanti 1987, p.11

Fra mezzanotte e l’una del 15 agosto 1947, mentre l’India, dopo il lungo dominio inglese, diventa indipendente, entro le frontiere del nuovo stato nascono mille e uno bambini, dotati di poteri e potenzialità straordinarie. Uno di loro – il narratore di questa storia mitica e allegorica – è Saleem Sinai, nato a Bombay in una famiglia benestante. La sua dote è vedere nei pensieri delle persone e collegare telepaticamente le menti degli altri bambini della mezzanotte. Scoprirà questo suo potere verso i dieci anni, così come scoprirà di non essere esattamente il figlio dei suoi genitori. Intanto, la storia dell’India procede, fra partizioni, conflitti di religione, ascesa di nuovi leader; una storia che non si può riassumere (come la vita di Saleem) e che ha inizio alla metà del sacro mese di agosto, mese di ricorrenze nazionali e feste religiose.

 

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14 Agosto

14 agosto 2015

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Il generale tirò fuori la lettera, lisciò con cura il foglio di carta e sotto la luce forte, con gli occhiali sul naso, lesse ancora una volta quelle brevi righe ben allineate, vergate con una grafia appuntita. Intrecciò le mani dietro la schiena e proseguì la lettura. Sul muro c’era un calendario con cifre grandi come pugni. Quattordici agosto. Il generale rovesciò la testa all’indietro e si mise a contare. Quattordici agosto. Due luglio. Calcolava il tempo trascorso tra un giorno remoto e il giorno presente. Quarantun anni, disse infine a fior di labbra

Sándor Márai, Le braci, 1942, tr. it. M. d’Alessandro, Adelphi, 1998, p. 13

Dicono del libro

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