Ingannare il Tempo. Un incontro al Museo di Roma in Trastevere

Nell’ambito del programma Educare alle mostre / Educare alla città della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, il 6 marzo 2019 si svolge un incontro dal titolo “Ingannare il tempo. Giorni inventati fra arte e racconto”, a cura di Antonella Sbrilli.
L’incontro al Museo di Roma in Trastevere prende avvio dalle illusioni ottiche, gli inganni visivi legati alla percezione dello spazio e si inoltra nel tema degli inganni temporali. Qualche esempio: un artista che retrodata un dipinto sta ingannando la visione storica della sua produzione; uno scrittore che segna una data inesistente (37 ottobre, 31 aprile) sta inserendo nella sequenza del calendario un ostacolo sul quale la lettura inciampa e l’immaginazione prende una sua strada.

Nel pomeriggio del 6 marzo 2019 – che fra l’altro è il Mercoledì delle Ceneri (e il pensiero corre all’opera in versi di T. S. Eliot che porta il titolo della ricorrenza) – vedremo una serie di opere che si intromettono con diversi espedienti nella durata temporale, concerti lunghi secoli, orologi annuali, opere che termineranno nel 2114, periodi trascorsi su una scansione del tempo parallela, consapevoli che, come scrive Carlo Rovelli, il tempo è “la sorgente della nostra identità”, la forma con cui noi esseri “il cui cervello è fatto essenzialmente di memoria e previsione interagiamo con il mondo”.

Educare alle mostre / Educare alla città
Ingannare il tempo. Giorni inventati fra arte e racconto
a cura di Antonella Sbrilli
Museo di Roma in Trastevere
Piazza Sant’Egidio, Roma
Mercoledì 6 marzo 2019 ore 16
L’immagine è tratta da http://www.iferridisbrilli.eu

Veicoli del Tempo di Daniela Comani

Tutti i progetti che l’artista Daniela Comani intraprende hanno a che fare in qualche modo con il tempo, con la classificazione e con lo sguardo dal di fuori.
Queste tre dorsali della sua ricerca possono trovare – di volta in volta –  il supporto della fotografia, del collage di video e della forma/libro e incontrarsi con i temi del genere (e allora le cover dei volumi e i manifesti dei film cambiano sesso); del paesaggio (e allora gli schermi spenti di vecchi televisori rivelano albe e tramonti); del diario, come nella monumentale sintesi del XX secolo ingrigliata in 366 giorni, dove un io-narrante femminile racconta la Storia (Sono stata io. Diario 1900-1999). 
È un diario anche una delle ultime opere di Daniela Comani, che si intitola proprio Diario 1975.

Si presenta come un piccolo libro che riproduce in copertina la trama di un vecchio taccuino e racchiude al suo interno una trentina di fotografie di automobili che circolavano sulle strade italiane nell’anno 1975. Ogni tanto, compare la riproduzione di una pagina di una agenda del ’75, dove l’allora decenne Daniela ha registrato le marche e le targhe delle automobili che vedeva durante i viaggi con i suoi genitori. In quelle pagine di agenda (9 Febbraio. Domenica. s. Apollonia v.per esempio è la domenica di Carnevale), la bambina del 1975 prepara senza saperlo  colonne di dati per la sé stessa del futuro. Ritrovate queste agende, l’artista ha cercato, principalmente in rete, le immagini delle automobili, le ha trattate in modo da renderle uniformi ed omogenee, come uscite da una casella mnemonica collettiva, da un campionario condiviso, da un autosalone mentale.
 Così – come spesso accade nelle opere di Daniela Comani – c’è il tempo passato, c’è il tempo della durata (in questo caso della produzione dei modelli annotati nell’agenda) e poi c’è il tempo elastico della rete, dove le immagini continuano a rendersi disponibili (e trasformabili).

E come spesso accade nelle opere di Daniela Comani, quello che si vede sembra provenire da un pianeta gemello, da una registrazione fatta a uso di posteri, indagatori di usi e costumi terrestri. 
Come scrive infatti Matthias Harder nel volume, il lavoro di Daniela Comani è anche “un interessante studio sociale e di storia dello stile del mondo pre-globalizzato e soprattutto una sorta di autoritratto”.
Dall’Alfa alla Volkswagen, sfogliando le pagine, incontriamo forme di macchine familiari, viste dal vero o in qualche foto, mentre gli elenchi di numeri, di città abbreviate e di modelli, scritti in stampatello, invitano a ricombinazioni  e classificazioni personali e fantastiche. Spicca alla data del 19 aprile “Dino Ferrari” e viene voglia di seguire la traccia dei nomi di battesimo della macchine: Romeo, Giulia, Mercedes, Fulvia, Dyane, che è anche una divinità, come Pallas e come la sigla DS letta in francese. Scorrono gli acronimi che hanno fatto epoca e quelli ormai in disuso, i verbi latini: Audi, Volvo e così via. 
Numeri e segni per una cabala personale (e comune), coordinate di spostamenti lineari sulle strade italiane e sulla freccia del tempo. 
Fra la foto del cruscotto della Citroën DS – che apre la carrellata – e quella del motore della Volvo 240 – che la chiude – scorre una porzione di tempo definita e variabile, circoscritta e perdurante. 
L’elegante libro che veicola (è il caso di dirlo) il progetto di Daniela Comani è edito da Archive Books  ed è presentato dal 21 al 29 novembre 2017 a Berlino, Kunstsaele (90 Bülowstraße). 

Antonella Sbrilli @asbrilli

24 Hours in Contemporary Art

24 Hours in Contemporary Art: Reflections on an Exhibition About Time è il titolo dell’articolo di Antonella Sbrilli uscito sulla rivista “Kronoscope. Journal for the Study of Time” (2017) che racconta la mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea svoltasi al Macro di Roma nel 2016. Il testo riprende la relazione tenuta nel corso della XVI Triennal Conference dell’International Society for the Study of Time, dal titolo Time’s Urgency (University of Edinburgh, 26 June – 2 July 2016).

Qui l’abstract:
Time and its representation have been historically fascinating, as Books of Hours, allegories, and artistic calendars testify. This attention to time has become increasingly more urgent recently, as studies confirm. The exhibition Dall’oggi al domani (From Today till Tomorrow), held in Rome in 2016, focused on the discrete single day, with its date and its 24- hour rhythm. The article addresses the main aspects of that exhibition, its historical background, the conceptual attraction for calendars’ grids, the interest of artists in the everyday, the processing of daily digital traces, time-lapse, and 24/7 formats. Artworks were displayed according to their affinity towards time rhythms, time words, dates, calendars, and diaries. Although the itinerary of the show was not chronological, some historical clusters emerged: for example, the importance of the pivotal year 1966 in time consideration.

Kronoscope, Volume 17, Issue 2, 2017 Brill, Leiden-Boston

Daybook: il calendario di “Documenta 14”

Il tempo della terra e il tempo delle comunità, il tempo storico e il tempo personale si incontrano fatalmente nelle griglie dei calendari. Lo sanno gli artisti, che hanno regalato innumerevoli varianti creative alla forma calendariale, e lo sanno – da alcuni decenni – i curatori di mostre e cataloghi, che scelgono la successione regolare delle date per alloggiare opere e autori. L’esempio più recente lo troviamo nella rassegna Documenta 14, in corso nella città tedesca di Kassel. La mostra quinquennale, dedicata a ricerche artistiche di taglio politico, sociale, ecologico, partecipativo, e svoltasi quest’anno, oltre che nella sede consueta di Kassel, anche ad Atene, offre – accanto al catalogo, ai booklet e alle mappe – un Daybook. Si tratta di un diario-agenda, in cui i giorni e le date (quelle della durata della mostra e quelle scelte dagli artisti, come vedremo) si presentano come formato organizzativo dei contenuti e come spunto per attraversamenti personali da parte dei lettori.

Al posto dei numeri delle pagine, il Daybook riporta, in alto al centro di ciascuna doppia pagina, le date in cui la rassegna si svolge: dall’8 aprile (stampigliato sulla copertina) al 17 settembre 2017. Le prime pagine (e dunque i primi giorni) ospitano l’indice e l’introduzione; le ultime un’appendice con l’esergo, il colophon, l’elenco degli sponsor e dei collaboratori, i ringraziamenti, lo spazio per le annotazioni. Il nucleo centrale – le doppie pagine che vanno dal 15 aprile al 3 settembre – è dedicato a 143 artisti fra quelli presenti alla rassegna. 
Sfogliando il Daybook, la prima azione che viene da fare è cercare l’artista che corrisponde alla data in corso, o a date che abbiano una risonanza per chi legge. E mentre emerge la curiosità di sapere quale criterio abbia determinato l’associazione fra artisti e date, ci si accorge che nella pagina di sinistra è presente un riquadro nero che riporta un’altra data. Dunque, oltre al calendario progressivo che va dall’aprile al settembre 2017, un’altra time-line si dipana sfogliando questo catalogo temporale. Una time-line fatta di date discontinue, che vanno da un futuro indistinto al passato preistorico, attraversando i secoli a ritroso e con salti enormi. Queste date sono state scelte dagli artisti su invito dei curatori: sono giorni e tempi che hanno, per ciascuno dei partecipanti, un significato particolare, sul piano intimo o pubblico, storico o fantastico. Sono queste date, messe in ordine dal futuro al passato, a determinare l’ordine di apparizione degli artisti nella sequenza dell’impaginato. 
Un doppio criterio cronologico governa così il Daybook di Documenta 14: la griglia del calendario convenzionale condiviso e i giorni vaganti nella memoria degli artisti interpellati. Insieme, invitano a esplorare la varietà geografica e concettuale delle presenze tenendosi attaccati a un foglio di diario con la familiare sequenza giorno-mese. Un accorgimento che coinvolge chi legge, facendo appello al bagaglio personale di giorni accumulati nella memoria e nell’immaginazione. 
Tre riferimenti puntellano l’introduzione al Daybook: il film di Guy Debord del 1959 Sul passaggio di alcune persone attraverso un’unità di tempo piuttosto breve;  l’incipit di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry e la poesia Itaca di Kavafis: passaggi di tempo, lunga durata e condizione effimera, viaggi, distanze. E anche, tempo-reale: queste date – si legge sempre nell’introduzione – in sé “non significano niente di speciale, ma ciascuna di loro può diventare significativa, per via di eventi personali e politici che avranno luogo nel corso dello svolgimento di Documenta 14”. 
Ma si può sfogliare il Daybook anche leggendo – in sequenza o casualmente – i riquadri neri con le date scelte da ciascun artista e le motivazioni: ne viene fuori uno spaccato vivido della storia di ognuno, che rivela di più di quanto possa fare il testo critico che accompagna la scheda dell’artista, o l’immagine riprodotta. La scelta di un punto nel tempo svela i contesti, le aspettative, gli obiettivi, talvolta la fisionomia profonda di ciascuno. 

Il cinese Wang Bing (allocato al 9 giugno) sceglie il 29 gennaio 1987 “un giorno qualunque nella storia, ma un giorno molto importante per me” – scrive nel suo riquadro nero – poiché quel giorno ha visto per la prima volta l’oceano, ha preso in mano una videocamera e le immagini hanno iniziato a riempire la sua vita.
Giorni qualunque che diventano eccezionali, anniversari di eventi storici, tragedie collettive, gioie personali, compleanni, nascite, morti, inizi di rivolte, proclamazioni di indipendenze, censure. C’è chi immagina un futuro senza data, chi un “giorno qualunque”, chi sceglie l’avverbio deittico per eccellenza “oggi” (“this current day matters the most”, afferma il lituano Algirdas Šeškus), chi lascia il riquadro nero e spoglio (il polacco Artur Żmijewski) e chi sprofonda nel neolitico, o nell’inizio (“In the beginning was the Word”, dicono Marie Cool e Fabio Balducci), o nella negazione del tempo calcolabile (la nigeriana Otobong Nkanga).
Una variegata “cronologia discontinua di tipo storico, personale, speculativo emerge da questi contributi”, scrivono i curatori. E questo è un altro modo di visitare la mostra Documenta 14, anche dopo la chiusura, perché l’artificio del calendario permette di ritornare ciclicamente in punti del tempo dispersi nelle linee del passato.

Fra i precedenti dell’uso della griglia calendariale in cataloghi: la mostra di Seth Siegelaub; il catalogo Effemeridi su e intorno Marcel Duchamp (Venezia 1993), il catalogo di Hanne Darboven alla Diaart.org (ora rimosso); l’opera Sono stata io. Diario 1900-1999 di Daniela Comani. Altri riferimenti nella mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea (Macro, Roma, 2016). 

Antonella Sbrilli @asbrilli

Sara Morawetz: Marte a Roma (il I giugno 2017)

Sara Morawetz si presenta come un’artista interdisciplinare che esplora le profonde connessioni fra ricerca scientifica e artistica. Di lei e dei suoi esperimenti sul tempo ha scritto su questo blog Roberta Aureli nell’articolo Un giorno su Marte. Il testo faceva riferimento in particolare a un’opera dell’artista di origine australiana, un’opera dal titolo How the Stars Stand, consistente in una performance dominata da un vincolo: dalle 9 del mattino del 15 luglio 2015 fino alle  18 del 21 agosto, l’artista ha organizzato le sue giornate e le sue notti sull’ora di Marte, sperimentando slittamenti e derive del tempo.
“I have been in another time – another place – somewhere in between Earth and Mars // awake and asleep… transitioning through thoughts – ideas – feelings in a real time that is entirely of my own creation…”, scrive l’artista a proposito di questo soggiorno straniante in un diverso trascorrere del ritmo sonno/veglia, luce/buio. 

Il I giugno 2017, in dialogo con Antonella Sbrilli e Roberta Aureli, Sara Morawetz racconta quella esperienza – ed altre azioni su e intorno al tempo – in un incontro pubblico presso il Dipartimento di Storia dell’arte e Spettacolo della Sapienza (piazzale Aldo Moro, 5 – Facoltà di Lettere e Filosofia, aula 2 – ore 11).

(Immagine: two times//two watches Credit: Sara Morawetz/Instagram)

 

23 Aprile: libri nel tempo

Il 23 aprile si celebra la giornata mondiale del libro e questa data è stata scelta dalla rivista “Alfabeta2” per pubblicare l’intervista all’artista Katie Paterson, l’autrice del progetto Future Library. Un progetto partito nel 2014 e destinato a compiersi a cento anni da allora, nel 2114. L’avvio è la piantagione di una foresta di 1.000 abeti norvegesi nelle vicinanze di Oslo, il compimento sarà il taglio di quegli alberi e la loro trasformazione nella carta che servirà a stampare un’antologia di testi che vengono scritti – un anno dopo l’altro – dalle autrici e dagli autori invitati.

Ogni anno, nel pieno della primavera, il testo viene consegnato (su carta e in digitale), durante una cerimonia nella foresta, senza rivelare nulla della sua natura, del contenuto, dello stile, della lunghezza.
Un’opera sulla fiducia: nelle tante persone e istituzioni coinvolte al proseguimento dell’impresa; nella continuità dell’esperienza della lettura; nella presenza futura dei libri.
Sandra Muzzolini, nel post 100 libri futuri, aveva parlato su diconodioggi.it di questo progetto al suo avvio, nel 2014.
Qui il sito di Future Library
Qui il pezzo di Laura Leuzzi e Antonella Sbrilli su “Alfabeta2”, La biblioteca del futuro. Una conversazione con Katie Paterson

Ore di luce, ora

Una delle più belle opere che trattano il tema dei fusi orari è il capolavoro di Olafur Eliasson dal titolo Daylight map, del 2005.
L’opera consiste di 24 tubi al neon sagomati come le linee verticali che suddividono la Terra in zone col medesimo orario. Tali linee, lungi dall’essere diritte, si presentano spezzettate, zigzaganti, con rientri e scarti verso est od ovest, poiché seguono confini e situazioni collegate alla mappa politica del pianeta. L’opera dell’artista danese-islandese è un dispositivo che – grazie a timer e sequenziatori – funziona in tempo reale: i tubi  infatti si accendono in corrispondenza delle zone illuminate in quel momento nel pianeta e si spengono di conseguenza nel momento in cui su quella zona oraria cala la notte.

Eliasson Daylight mao 2005

Olafur Eliasson, Daylight map, 2005 (dal sito olafureliasson.net)

Due aspetti sorprendono e affascinano in questa installazione. Uno riguarda lo spazio e la sua rappresentazione: visualizzate al di fuori dal contesto familiare dell’atlante, queste linee non danno nessun indizio dei paesi che attraversano, rendendo irriconoscibile la mappa dal punto di vista geo-politico. L’altro aspetto concerne il tempo e la (sempre) sorprendente constatazione che il presente è insieme universale e locale, condiviso e circoscritto.
Il genio di Olafur Eliasson sintetizza così il tema per lui dominante della luce diurna nel suo intreccio con il tempo e l’intreccio di entrambi (luce e tempo) con l’esistenza biologica delle specie viventi e con la convenzione politica e sociale delle comunità. E ne ricava una partitura ritmica, che sincronizza il flusso continuo della luce con la struttura spaziale della griglia.
Nella notte fra il 25 e il 26 marzo 2017, nei paesi che la adottano, va in vigore l’ora legale: in Italia sono 101 anni – salvo qualche lunga interruzione – che l’espediente per allungare le giornate estive è attivo.
Gli effetti di questo jet-lag, ridotto ma concreto, si risentono nei ritmi circadiani e nelle abitudini, generando piccole confusioni sul prima e sul dopo (che ore sono? che ore sarebbero?).
La mappa luminosa dell’artista Eliasson – con la forza e la poesia della sua evidenza – fa riflettere su tutto questo, movimenti della terra, convenzioni di misurazione, passaggi di tempo, di cui i grandi e sconosciuti artigiani sono i compilatori degli orari dei voli aerei intercontinentali.

Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Il Tempo val bene due mostre, alla Galleria Nazionale di Roma

La Galleria Nazionale di Roma presenta due mostre nelle sale di viale delle Belle Arti, entrambe incardinate sul tema del Tempo.
La prima, curata da Saretto Cincinelli e aperta fino al 29 gennaio 2017,  si intitola The Lasting. L’intervallo e la durata. Occupa la grande sala centrale e allestisce – intorno a opere di Fontana, Calder e Medardo Rosso, appartenenti alla collezione permanente – una scelta di artisti coinvolti nei termini del titolo, che mette in risonanza i concetti di persistenza e passaggio.
The Lasting rivendica l’emergenza del tempo, l’importanza del suo fluire, della durata, dell’intervallo, della sedimentazione, della latenza…” si legge nel catalogo, dove gli artisti sono raccolti in sezioni dai titoli evocativi: Il tempo della creazione e l’impronta del tempo; Il tempo della metamorfosi; Il tempo dell’interpretazione, dell’attesa e della collaborazione.
Al visitatore il compito di rintracciare questi caratteri nelle opere e fra di esse, davanti alle teche, alle miniature, alle tende sbiadite, alle lastre di cera e paraffina, alle foto di vecchi cinema, alle tracce di lumache, ai bronzi che ricalcano i legni della laguna veneziana e prendono la forma di clessidre.
La misurazione del tempo è una invenzione e una convenzione, scrive in catalogo Francesco Piccolo in uno dei 24 bellissimi appunti del suo Tentativo di catalogare il tempo, ma “il tempo che passa non è inventato”.
Nel suo fregarsene degli orologi e dei calendari, nel suo costringere il linguaggio a cercare sempre nuove metafore e acrobazie per avvicinarvisi, il tempo pervade l’arte in maniere continuamente nuove.
Bonito Oliva definisce portatori del tempo i protagonisti della sua Enciclopedia delle arti contemporanee; l’urgenza del tempo è evocata dalla XVI conferenza dell’International Society for the Study of Time (Time’s Urgency, Edimburgo 2016); il tempo, i tempi, l’oggi, il domani, il qui e ora, il tempo-reale, i fusi orari, sono ubiqui nelle ricerche, nelle mostre, negli esperimenti relazionali in corso. Per fare un esempio, l’esposizione di Manfredi Beninati (ottobre 2016, Firenze Galleria Poggiali) ha per titolo Domenica 10 dicembre 2039, una data che non esiste nel calendario, poiché quel 10 dicembre sarà un sabato.
Nel catalogo di The Lasting, la direttrice della Galleria, Cristiana Collu – che pure desidera lasciare da parte il tempo convenzionale e lineare – cita, con una sorta di affetto, due date: la festa di Ognissanti, giorno in cui ha preso in carico la Galleria e il Solstizio d’estate, giorno di inaugurazione della mostra.
Diconodioggi non può non notarle, seguendo le trame del tempo finzionale: il primo novembre è scandito dalle citazioni formidabili di tre scrittrici, Virginia Woolf,  Antonia S. Byatt, Jennifer Egan; mentre il Solstizio di giugno è ancorato alla pagina della Montagna incantata (o magica) di Thomas Mann, che ricama sul paradosso di un giorno che segna insieme il culmine della luce e l’inizio del suo decrescere.

La seconda contemporanea mostra della Galleria Nazionale si intitola Time is out of joint e si presenta come una sistemazione temporanea (fino al 2018) delle collezioni, in dialogo con alcune opere in prestito.
Anche qui una data: l’avvio della mostra è caduto il 10 ottobre, “due giorni prima della scoperta dell’America” (come si legge in un racconto di Tabucchi, Il gatto dello Cheshire), ma soprattutto il giorno in cui nell’incompiuto romanzo di René Daumal, Il Monte Analogo, il gruppo di esploratori – fra cui il narratore – si imbarca su uno yacht a due alberi dal nome L’Impossibile, diretto verso una montagna sfuggita fino ad allora all’osservazione e la cui cima è inarrivabile “con i mezzi finora conosciuti”.
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Ha un sentore di spedizione verso spazi inconsueti anche l’apertura di questa mostra, che sceglie come titolo una battuta dell’Amleto, “il tempo  [in alcune traduzioni ‘il mondo’] è fuor dei cardini; ed è un dannato scherzo della sorte ch’io sia nato per riportarlo in sesto”.
Anche in questo caso, e in modo ancora più pervasivo che in The Lasting, la mano da giocare passa subito al visitatore, che negli spazi completamente bianchi della Galleria  incontra opere accostate non per vicinanza storica, ma per analogie, collegamenti, rimandi, affinità, buon (o problematico) vicinato.
Un imponente ipertesto navigabile in grandezza naturale che, in ogni sala, invita a decifrare i nessi fra le opere che lo compongono. La linea diritta della storia che scorre da un prima a un dopo è messa da parte e il suo posto è preso dall’idea della compresenza e dell’intreccio.
Del resto, la citazione della tragedia di Shakespeare, “Time is out of joint”, è anche il titolo di un racconto distopico dello scrittore statunitense Philip K. Dick. Pubblicato nel 1959, il racconto (tradotto in italiano come Tempo fuori luogo e Tempo fuor di sesto) è uno straordinario trattato sulla natura della realtà.
In una cittadina americana, in un periodo che somiglia alla fine degli anni ’50, il protagonista è il campione di un concorso a premi, in cui bisogna indovinare in quale zona di una mappa quadrettata apparirà un omino verde. È un gioco. O almeno così sembra, fino a quando alcuni indizi portano il protagonista a dubitare che la normalità della sua vita quotidiana (compreso il concorso) sia autentica. Dettagli fuori posto, brevi allucinazioni, elenchi telefonici anacronistici: la realtà è in sincrono con chi la percepisce? è un continuo compatto, consecutivo e condiviso? o non presenta invece delle crepe – non visibili a tutti nello stesso modo e momento – attraverso cui trapelano segnali dal passato o dal futuro, strati di altri tempi?
Questa seconda mostra nella Galleria Nazionale mette decisamente in opera l’idea dello scardinamento dei tempi e del loro riversarsi nel presente.
Ogni sala si presenta  a sua volta come una mostra a tema, un’arena di collegamenti, un invito a decifrare gli indizi che collegano due o più epoche distanti, richiamate nell’attualità dello stesso luogo e del visitatore che vi si trova in quel momento. Ogni opera una porta d’uscita e d’ingresso nel tempo di chi la guarda e la ricolloca; ogni gruppo di opere un nodo di reti orizzontali e diacroniche.

Roma, Galleria Nazionale: Canova, Pascali, Penone. Ph: Stella Bottai

Roma, Galleria Nazionale: Canova, Pascali, Penone. Ph: Stella Bottai

Questo tipo di disposizione è una sfida per la didattica e anche un invito a nozze per progettare quella che attualmente si chiama gamification, cioè l’applicazione di forme di gioco in contesti non ludici.
Quanti gradi (o quadri) di separazione dividono un’opera dall’altra? per quali vie sono arrivate vicine, attraversando la storia, la rilettura critica, l’immaginazione letteraria, la serendipity? (un gioco simile è stato proposto alla Gnam nel 2015 in occasione dei Giochi di Sala).
E un gioco d’artista partecipativo è effettivamente già in corso alla Galleria Nazionale: si tratta del Museum Beauty Contest, un concorso di bellezza fra le più belle figure femminili e maschili rappresentate nelle opere della Galleria; inventato dall’artista Paco Cao, coinvolge il pubblico per diversi mesi, fino alla finale nel marzo 2017.
Ma questa proposta di disposizione è un invito a nozze anche per la progettazione di realtà aumentate che raccontino – oltre alla vita delle opere – anche le forme delle precedenti sistemazioni delle sale o per il rilascio di app (o l’avvio di laboratori) che consentano di ricreare una propria parziale configurazione temporanea. Ritrovare il pavimento specchiante di Alfredo Pirri che introduceva nella Gnam, ricostituire le quadrerie, spostare, ricombinare, fermare una configurazione.
Il tempo come linea, il tempo come cerchio, il tempo come rete, il tempo come blocco dove tutto continua ad avvenire nel momento in cui lo si racconti di nuovo, emergono come artifici paralleli di rappresentazione.

Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Nel corso di un corso sul Tempo: la timeline di Massimo Adario

Nessun giorno senza una linea, nessuna lezione senza un appunto: si possono prendere appunti in tanti modi, rincorrendo frasi sul filo dell’ascolto, disegnando schemi o nuvole di parole, tracciando frecce che uniscono isole di concetti, disegnando pensieri e forme.
L’architetto Massimo Adario, in veste di allievo del mio corso di Storia dell’arte contemporanea  alla Sapienza (Arte e tempo, anno accademico 2015-2016), ha voluto visualizzare un anno di studio – da ottobre a giugno – in una formidabile timeline che riporta, giorno dopo giorno, le lezioni impartite durante il corso,  collegate alle visite a mostre, ai post di questo blog sul tempo, agli incontri artistici avvenuti durante quel periodo.

Il risultato è questo: 4 metri e 70 centimetri di stampa che concentrano e svolgono nello spazio un tempo, con i suoi strati sovrapposti, successivi e contestuali, con i ritorni e gli anticipi, le incursioni, gli incisi.
diario-MASSIMO-ADARIO-20160613-
Diario di Massimo Adario -PDF-

Una timeline che è anche un un diario: è questo infatti  il titolo che Massimo Adario dà al suo lavoro Diario 12.10.2015 / 06.06.2016.
timeline vcorso Adario vista dal alto
Se il lungo nastro pieno di immagini, di date e di link è per l’autore un diario,  per chi ha tenuto o seguito il corso ha il valore di uno strumento di memoria: le foto con didascalia, messe in fila lungo la sequenza delle giornate e collegate da linee tratteggiate funzionano da classici  “luoghi” in cui andare a recuperare i ricordi di informazioni ascoltate e di esperienza fatte in quelle date.
Ma oltre alla qualità diaristica e mnemonica, questa timeline offre direzioni di lettura anche a chi non sappia molto dell’argomento trattato, cioè l’interpretazione del tempo da parte degli artisti contemporanei.  E lo fa grazie alla forma di visualizzazione scelta dall’autore, al modo in cui le informazioni sono localizzate, rese contigue e parlanti.

 
dettaglio Diario Adario
Anche a non sapere che l’artista giapponese On Kawara ha dipinto le date o che il polacco Roman Opalka ha riempito tele di numeri progressivi, colpisce la loro vicinanza (nelle lezioni di novembre 2015), e il collegamento (non importa chi l’abbia suggerito) con il codice che scorre in una schermata del film Matrixdettaglio diario adario 2
In un altro punto della timeline, le  griglie regolari – in cui artisti come Hanne Darboven e Gerhard Richter hanno riversato la varietà della storia – sono messe accanto alle opere di artisti minimal e collegate dall’autore alle opere architettoniche di Herzog & De Meuron e di Ai Wei Wei, opere – come scrive Adario – “in cui il Tempo è parte integrante”.
Contiguità, coincidenze, collegamenti si addensano in certe porzioni della timeline, si diradano in altre, aprono porte verso direzioni diverse, tornano lungo la linea diritta, alternando e mescolando qualità dello spazio e del tempo, della memoria e della vista, del ragionamento e dell’intuizione.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)

 

 

In tre parole: siamo qui, ora

In tre parole: siamo qui, ora

di Antonella Sbrilli e Massimo Lancellotti

Che succede quando la passione per la geo-localizzazione incontra quella per le parole e per le loro combinazioni? E quando una griglia di 57 trilioni (milioni di milioni) di quadrati di 3 metri x 3 metri viene stesa sulla superficie del pianeta e collegata con un vocabolario di decine di migliaia di parole, combinate in gruppi di 3 per ciascuno dei quadrati della griglia?
Succede che ogni punto della terra può essere individuato senza ambiguità – oltre che dalle coordinate classiche di latitudine e longitudine – anche da queste sequenze di vocaboli. Per fare un esempio: l’indirizzo da cui questo blog viene scritto corrisponde, in questo sistema, a SOGNATA.ONESTA.MELA.
what 3 wordsTre parole semplici, certamente più facili da ricordare di lunghe stringhe di numeri e caratteri, e in grado, con la loro combinazione, di fissarsi nella memoria di chi usa questo singolare sistema di localizzazione.
Stiamo parlando di what3words, il prodotto di un’azienda britannica  fondata un paio di anni fa da Chris Sheldrick e Jack Waley-Cohen, che definiscono il risultato della loro ricerca un’interfaccia umana per latitudine e longitudine, in grado di fornire letteralmente un indirizzo a ogni punto della terra.
Si tratta di un app per dispositivi mobili (ma si può usare anche dal browser), che non ha bisogno di connessione una volta scaricata e quindi funziona anche offline, pesa meno di 10 MB e si rivolge sia a chi un indirizzo fisico ce l’ha, sia – soprattutto – a quei tre quarti della popolazione mondiale che vivono in zone o in situazioni non identificate da un sistema viario.
La natura di questa applicazione intercetta la geografia e la combinatoria, i grandi database di vocaboli e la mnemotecnica, la logistica e le iniziative sociali e umanitarie.
Massimo Lancellotti, che l’ha approfondita per lavoro, la racconta a diconodioggi – come in un diario –  dal parco marino di Mafia Island, in Tanzania,  località a cui corrispondono le terne di parole nel testo:

<TESTER.PREDICTIONS.SOPHISTICATION
Di fuori il sole equatoriale diventa ogni ora più rovente. Sono contento di non vivere in una città affollata e caotica. Qui non ho nessuna finestra da cui osservare un fattorino che impreca (OBSERVING.SWEARING.DELIVERYMAN), semmai posso mettermi a guardare un airone che passeggia lungo la linea dove rompono le onde sulla barriera corallina, esposta durante la bassa marea (HERON.BREAKERS.VERGE).
Ma il paradiso non esiste e sono SCIUPATO. (da) UMORI.ESITANTI.
Mi sento un po’ solo e cerco compagnia, SIRENETTA.CONCEDIMI.CONTATTARti(MI)!
Ma alla fine mi dico: ZITTO.ESILIATO.SISTEMATI da qualche parte, e soprattutto esci da questo delirio di luoghi e parole in cui ti sei andato a cacciare.
Ma luoghi e parole cominciano a turbinare e il gioco mi prende la mano, chissà se da qualche parte Perec e Queneau mi osservano e se la ridono, oppure invidiano il nuovo giocattolo che la tecnologia ci ha regalato: http://what3words.com
Per qualcuno non è un gioco.
Lo spiegano con estrema precisione e affabilità Chris Sheldrick, Jack Waley-Cohen e il team che lavora con loro al progetto what3words.com. Non saprei come sintetizzare di cosa si tratta meglio di quanto abbiano fatto loro stessi nella presentazione del progetto che riprendo quasi letteralmente: “Il 75% per cento della popolazione mondiale, in 135 diversi paesi, non ha un un sistema affidabile di indirizzi. Si tratta di circa 4 miliardi di persone che di fatto sono ‘invisibili’ e incontrano difficoltà enormi a ricevere consegne o aiuto, e a volte anche ad esercitare diritti civili elementari, perché non possono comunicare con esattezza dove vivono.
what3wAccesso all’acqua, segnalazione di guasti a infrastrutture, interventi di riparazione, sono resi complicati dalla mancanza di un sistema semplice di trasmissione delle coordinate e le persone che vivono in insediamenti informali, come i campi di nomadi e rifugiati, rimangono di fatto senza indirizzo”.
Facciamo un piccolo sforzo di immaginazione, noi che abbiamo cap e numeri civici, pensiamo a chi fugge da guerre o vive in favelas e slum. Con un po’ di fortuna i telefoni cellulari permettono di comunicare con parenti e amici lontani, ma come ricevere un pacco, delle medicine, un oggetto qualsiasi?
what3words prova a rispondere a questa esigenza con un sistema estremamente semplice e lineare che sostituisce (traduce) le note (e quasi impossibili da memorizzare) coordinate di longitudine e latitudine, con una sequenza unica e non ambigua di tre parole. Sì, con tre sole parole (dall’elenco sono state omesse le parole offensive e omofone), si riesce a individuare in maniera univoca ognuno dei quadrati di 3 metri x 3 in cui è stata suddivisa la superficie terrestre; e in inglese, che di parole ‘utili’ ne ha 40.000, anche quella marina; altre lingue coprono solo le terre emerse.
Provate a sperimentare quanto sia preciso il sistema dandovi appuntamento con un amico in un parco o a un concerto affollato usando le ‘coordinate’ di what3words.
L’assegnazione delle sequenze è del tutto casuale e non gerarchica, l’algoritmo crea un database ‘leggero’ che funziona anche offline, proprio per tenere conto dei problemi di connessione delle persone che più ne hanno bisogno.
Il tutto può sembrare un po’ tecnico (e consiglio vivamente una visita al loro sito a chi voglia capire meglio come funziona il sistema) ma in realtà è anche straordinariamente semplice, divertente e in fondo poetico.
Come risuonano queste sequenze di parole che avrebbero sicuramente affascinato Borges e gli operai artefici di letterature potenziali?
Per me, come frammenti di haiku, o meglio una forma compressa, zippata, di haiku. O come soluzioni di rebus che non sono mai soluzioni, ma una sorta di oracoli, di sibille.
Basta aprire l’app di what3words su uno smartphone o usare il loro sito (senza neanche registrarsi) ed ecco che la nostra casa e i suoi dintorni, i luoghi che frequentiamo, i percorsi che facciamo ogni giorno o le remote terre che raggiungiamo nei nostri viaggi, diventano passeggiate in boschi narrativi, frammenti di discorsi più o meno amorosi, inviti, suggerimenti, brandelli di pagine strappate dai libri nella biblioteca di Babele.
Oppure si possono cercare i luoghi individuati da parole che esprimono gli stati d’animo o l’idea di un momento, come YESTERDAY.NEVER.HAPPENED (al largo della Liberia), o ISLAND.AFTERNOON.BLUES (costa algerina).
Sì, noi abbiamo il lusso di giocare con le parole, il lusso che chi cerca un pozzo in una zona desertificata o ha medicine da consegnare in una certa baracca o tenda in un campo dove vivono decine di migliaia di persone, spesso non si può permettere.
Ma proprio per questo, vale la pena di parlare e far parlare di questo sistema, di farlo conoscere perché, come per molte tecnologie, è necessario raggiungere una massa critica di utenti affinché il progetto si diffonda e venga adottato da chi ne può fare la fortuna, come Google, gli sviluppatori di software e i produttori di sistemi di navigazione.>

Proprio per far conoscere a un pubblico più ampio questo interessante sistema, abbiamo pubblicato una versione breve di questo post sul settimanale Pagina99 del 2 gennaio 2016, (p. 49,) dove è proposto un gioco, a cui si può partecipare anche via Twitter con l’hashtag #what3words.

Il gioco: Geografie di letterature potenziali
Una volta andati sul sito what3words.com e scelta la lingua preferita, cliccare su Esplora la mappa.
Spostarsi sulla mappa, cercando e trascrivendo le terne di parole che individuano i proprio luoghi, casa, lavoro, amici, mète di viaggio, ma anche i dintorni dei posti che frequentiamo, perché a pochi metri ci può essere una combinazione suggestiva.
Costruire brevi storie o composizioni con le terne di arrivo e partenza di un percorso.
Le storie e i percorsi composti con questi metodi di esplorazione possono essere inviati a segreteria@pagina99.it.

Massimo Lancellotti e Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Datare ad arte: claudioadami

Claudio Adami (o meglio claudioadami, artista nato a Città di Castello nel 1951) possiede una collezione di datari, quei bolli da ufficio, in metallo o in gomma, che si usano per imprimere la data sui documenti, combinando la cifra del giorno, il nome del mese abbreviato e l’anno con i suoi quattro numeri.
Anche claudioadami usa questi oggetti combinatori per imprimere la data sulle sue opere e quando i numeri che indicano gli anni sono superati, l’artista rimpiazza i timbri scaduti con dei nuovi senza gettare via quelli vecchi.
Sono oggetti che lo accompagnano nel suo lavoro quotidiano, che consiste – per un rilevante nucleo di opere – nello scrivere a mano con inchiostro nero, su carta o su legno, parole e frasi tratte dal suo autore-guida, Samuel Beckett.
Svolgimento AdamiUna riga dopo l’altra, la scrittura si deposita sul supporto, lo impregna finché le lettere non sono più leggibili e resta visibile una superficie nera screziata di bianco, che evoca in chi guarda un andamento musicale o crittografico.
A scandire questa partitura di macchie e di segni, ci sono le date. Stampigliate nel formato del datario, sono un elemento essenziale sia delle singole opere, sia della loro sequenza: segnalano l’inizio e il termine del lavoro quotidiano di scrittura, si susseguono come diario del giorno, come calendario dei mesi e degli anni, come documento di un lavoro svolto nel tempo. Giocando con la parola data, la data in claudioadami è un dato che testimonia la durata di un lavoro (la “giornata” dell’operaio o del frescante o dell’impiegato) ed è anche un metadato: descrive il contesto temporale dell’opera ed è però anche interna ad essa, appartiene contemporaneamente alla cornice e al quadro, al testo e alla didascalia.
Coniugando la trascrizione manuale dei testi di Beckett (in particolare Com’è / Comment c’est del 1961, privo di punteggiatura e frutto di un lungo lavoro quotidiano) con l’attenzione alla giornata, claudioadami suggerisce due riferimenti, che guardano verso Oriente.
L’opera del giapponese On Kawara, che ha dedicato quasi ogni giorno un quadro alla data del giorno, scritta nella convenzione del paese in cui l’artista si trovava (spesso proprio con il formato del datario) e l’azione del cinese Qiu Zhijie dal titolo Compito n. 1. Copiare la Prefazione al Padiglione delle Orchidee per mille volte (1992-1995), in cui un testo classico della calligrafia è scritto e riscritto sullo stesso foglio, fino a diventare una macchia nera su nero.
Tabularium AdamiQuesto non accade con claudioadami, in cui il dialogo fra il bianco e il nero è sempre mantenuto, nelle emersioni stenografiche della carta oppure nell’alternanza vera e propria dei due colori, per esempio in un’opera dal titolo Tabularium (1997-98). Vediamo e tocchiamo una catasta di doghe di legno – ciascuna con la sua data – in cui la zona inchiostrata corrisponde alle ore di lavoro e il bianco alle ore di non-lavoro: tutte insieme alludono a un codice a barre, a un registro binario, a una visualizzazione dei dati essenziali dell’esistenza (sonno e veglia, attività e riposo, stasi e movimento, traccia e assenza).

Per tornare al datario: è una delle parole che il blog diconodioggi ha adottato, aderendo all’iniziativa della Società Dante Alighieri “Adotta una parola”, che invita a scegliere e a curare parole desuete o di cui si vuole tenere vivo l’uso (finora ne sono state selezionate 32.000).
Datario, nel senso di “bollo che serve a imprimere su lettere e documenti l’indicazione della data”, è proprio uno di questi vocaboli e corrisponde a un oggetto anch’esso, a suo modo, datato. La collezione personale di datari vintage di claudioadami è una sorta di adozione di questo strumento di scansione temporale: è curioso notare che, secondo diversi dizionari, il termine datario è attestato nella lingua italiana scritta a partire dal 1951, che è anche l’anno di nascita di Claudio Adami.

Un gruppo di opere di claudioadami – fra cui Tabularium, Svolgimento, Pagine di nero, Index (oltre alla proiezione dedicata a Qual è la parola di Beckett) – è in mostra a Roma, Museo Hendrick Christian Andersen, nella collettiva Sintattica: Luigi Battisti, claudioadami, Pasquale Polidori, a cura di Francesca Gallo (fino all’11 ottobre 2015).
Antonella Sbrilli @asbrilli

Giorni e ore di Marisa Volpi

Il tempo va avanti e niente come un diario segue l’accumularsi successivo dei giorni, una data dopo l’altra. Niente però come un diario può anche cogliere – insieme alla successione – le anomalie dello scorrere del tempo, le ripetizioni e i ritorni, l’emergere imprevedibile dei ricordi, il presente inspiegabile dei sogni, la forza sospensiva dello sguardo. È quello che fa il lunghissimo diario, scritto su decine di quaderni scolastici, da Marisa Volpi, storica dell’arte, critica e curatrice di mostre, insegnante universitaria e scrittrice, scomparsa il 13 maggio 2015 (era nata a Macerata nel 1928). Sono pile di quaderni che risalgono il tempo, dall’ultimo presente fino agli anni Quaranta, riempiti di annotazioni scritte di getto o in differita, che parlano di tutto: incontri, letture, viaggi, relazioni, sogni, “cose viste”, tutti i giorni di una vita raccontata contemporaneamente durante, dopo, a volte prima che accada. Queste pile di quaderni, con le loro migliaia di pagine (in parte pubblicate in riviste e poi nel volume Le ore, i giorni. Diari 1978-2007, Medusa Edizioni 2010), sono uno dei lasciti preziosi di Marisa Volpi.
Immagine 1Nata professionalmente come storica dell’arte, esperta sia della grande pittura classicista del Seicento e Settecento, sia dell’avanguardia novecentesca; sostenitrice degli artisti americani ed europei dell’Informale, del Pop, del concettuale, Marisa Volpi dal 1978 inizia a scrivere racconti, pubblicandoli su riviste e  in raccolte. Con una di queste, Il Maestro della betulla (Vallecchi), nel 1986 vince il premio Viareggio. I racconti si distinguono fra quelli di pura finzione e ambientazione attuale e quelli ispirati alle vicende biografiche e alle opere di artisti e artiste (soprattutto romantici, simbolisti, impressionisti) fra cui vengono in mente Monet e Manet, la pittrice Berthe Morisot, lo svizzero Arnold Böcklin, i Preraffaelliti inglesi.
Il gioco del tempo, in questi racconti, si svolge su tanti piani interpolati: il presente storico dei protagonisti, il  presente di lei, la scrittrice che racconta, il  passato dei fatti avvenuti e di nuovo il presente sempre rinnovato delle opere d’arte, osservate attraverso la scrittura.
Il tempo sta lì, intorno e dentro i desideri, gli amori e le perdite, le umiliazioni, i trionfi dei personaggi e della narratrice; il tempo è il quesito invisibile da cui comincia e ricomincia ogni pagina, dove non è raro incontrare il nome di Sant’Agostino, con i brani dalle Confessioni sulla consapevolezza indicibile del tempo, e quello di Emily Dickinson, la poetessa statunitense che ha accostato nei suoi versi  l’attimo e l’eternità.
Anche nel romanzo autobiografico La casa di via Tolmino (Garzanti 1993), in cui Marisa Volpi ricostruisce gli anni di formazione, fra la città natale di Macerata, Roma, in cui la famiglia si trasferisce, Firenze, dove va a studiare e diviene amica di Carla Lonzi, i tanti luoghi dei viaggi, l’andirivieni temporale è continuo, con sbalzi – nel giro di pochi capoversi – dalla “fine degli anni Quaranta” a “un giorno d’inverno”, per poi tornare indietro a “Sette anni prima”. E iperboli, come “Era in via Tolmino, forse un secolo fa”.
Anche nei saggi di storia dell’arte, anche in quelli più fedeli a un formato storico, la capacità di evocare diversi affacci temporali dà una dimensione narrativa alla lettura storico-artistica, che la rende inconfondibile e a suo modo esemplare. Ed entrambe le attività di Marisa Volpi, quella di storica dell’arte e quella di narratrice, si appoggiano alla stesura costante dei diari, che porta con sé, e affina, una competenza nei fenomeni del tempo. Il tempo percepito internamente, il tempo atmosferico, il tempo misurato da calendari e orologi, convergono nella casa romana della scrittrice, nella sua camera che, come “la cabina di lusso di un Concorde”, vola “verso ovest”, nel tempo che arriva e che passa,  e che si ripete, anche quando pare interrompersi per sempre.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)

Il sito www.marisavolpi.it con le notizie delle iniziative in corso 

 

Il tempo in bilico di Licini nell’Amalassunta di Brandimarte

Come gli orologi di Alighiero Boetti che in un giro di quadrante, oltre al giorno effettivo, percorrono virtualmente un anno, le pagine dell’Amalassunta di Pier Franco Brandimarte (Giunti, 2015) condensano due fasi del tempo: il tempo in cui il narratore Antonio Accurti racconta il suo avvicinamento al pittore marchigiano Osvaldo Licini e gli anni della vita dell’artista, evocati dai documenti (carte e fotografie), captati dalle immagini dei suoi dipinti, intravisti come in realtà aumentata fra le strade e le case di Montevidone.
giunti

Nel paese di Montevidone (Monte Vidon Corrado, ora in provincia di Fermo), Licini era nato il 22 marzo 1894 e lì sarebbe morto – dopo intervalli trascorsi a Bologna e in Francia, oltre che al fronte – l’undici ottobre del 1958.
22 marzo e 11 ottobre. 22 e 11: due numeri, uno il doppio dell’altro, fatti ciascuno dalla ripetizione di una stessa cifra. Un caso che non vuol dire niente, se non quello che si vede, un gioco di segni che si somigliano, una danza di numeri, come quelli – enigmatici – che Licini ha disseminato nei suoi dipinti, sulla linea dell’orizzonte, fra le colline e sulla faccia degli astri (come nel dettaglio riprodotto in copertina del libro, dove si vedono il 5, il 6 e il 2).

Attirato dalla qualità misteriosa dei dipinti di Licini (i paesaggi, le composizioni astratte, la serie degli Olandesi volanti, degli Angeli, delle Amalassunte), lo scrittore Pier Franco Brandimarte (vincitore con questo testo del Premio Calvino 2014), raddoppiatosi nel personaggio Antonio Accurti, ne offre una lettura intensa e morfologica, che si riverbera anche nell’andamento della narrazione.

Un paragrafo nel passato dell’artista, uno nel presente, uno nel passato più o meno recente del narratore, un altro in un tempo incerto: la linea che si disegna leggendo ricalca la linea degli orizzonti di Licini, spezzata e fluida, o gli innesti instabili di forme che alludono a uno schema, ma non vi restano chiusi.
Fra paragrafi di ricostruzione storica, descrizioni di avvenimenti e di memorie (di Licini, del narratore, dello scrittore), ecco si aprono le vedute sul paesaggio delle Marche e sui suoi abitanti, che aiutano a sciogliere i calligrammi dei dipinti del pittore.

Dietro quei segni – ci fa vedere Brandimarte – ci sono le macchine da pesca simili a palafitte (i trabocchi), ci sono le crepe frastagliate del terreno esplorato dai rabdomanti, ci sono i camminatori eccentrici, ci sono le costellazioni di “piccoli centri disposti come l’Orsa Maggiore”.
Se il riferimento a Leopardi (per le stelle dell’Orsa e per la luna, che è una delle interpretazioni dell’Amalassunta) è d’obbligo, s’intravedono dietro queste pagine anche le Cartoline dalle Marche di Tullio Pericoli, acquerelli di colline vicine e a perdita d’occhio.

tullio

Tullio Pericoli, Cartolina dalle Marche, coll. privata

Scrive Brandimarte: “Da sempre, se penso alle Marche, rivedo questo scorcio preciso, il panorama che spazia dal mare alla sagoma tagliente del monte Ascensione che sta sopra la città di Ascoli e che ricorda un profilo umano dalle labbra protese, in cui alcuni vedono una donna che bacia e altri, chissà come, il Duce che scandisce la enne di noi…”.

Ancora una catena di somiglianze, un palinsesto del paesaggio, su cui si appoggiano storie, simboli e segni: altri indizi convenuti a sciogliere le crittografie a colori di Licini.
La “enne”, per esempio, che chiude la citazione appena trascritta, è richiamata nelle prime pagine del libro, proprio per descrivere il paesaggio marchigiano, lo spazio fra collina e collina, simile a una culla, in dialetto cùnnela, suono (e forma) che “trattiene un istante su in cima e poi ripete enne volte lo scivolo”.

luna

Lorenzo Lotto, dettaglio del Ritratto di Lucina Brembate, Bergamo, Accademia Carrara

Se la N dunque riguarda le colline (e anche  il Narratore, detto Ninì, la sua fidanzata Nina e Nanny la moglie di Licini), la P è la lettera che rappresenta il paese, la M le montagne. E la C è la luna, un semicerchio su cui Licini appoggia altre lettere, come fece nel ‘500 un altro pittore attivo nelle Marche, il veneziano Lorenzo Lotto, che vi nascose il nome di Lucina, tratteggiando le lettere CI dentro il falcetto calante.

Amalassunta è una parola che gioca con le parole, con Amalasunta figlia di Teodorico, con l’Assunzione, con l’avverbio lassù, con la luna e la matassa: dei numerosi dipinti che Licini dedica a questo magnete verbo-visivo, Brandimarte si sofferma su una versione tarda degli anni Cinquanta. Mentre interroga il quadro, che fa tutt’uno con la figura e col suo nome, lo scrittore vi riassume, con notevole sintesi, una vita, un luogo e un universo. E aggiunge un lungo elenco di associazioni che cercano di descriverla (“una meteora / un mostro-sirena in abito da sera / borotalco”) in un esercizio di ecfrasi che non esaurisce mai l’energia della visione che le ha dato origine (ma che ognuno può, volendo, proseguire). (Antonella Sbrilli @asbrilli)

Qui il link al Centro Studi Osvaldo Licini a Monte Vidon Corrado.

Metro di Tempo. “M” di Stefano Bartezzaghi

Come nel paese delle meraviglie di Carroll, l’ingresso attraverso il quale si entra nella metropolitana di Milano di Bartezzaghi è il Tempo.

Il metro non è un’unità di misura del tempo (anche se metri di legno sono usati a scuola per raffigurare la storia: gli anni in millimetri, i secoli in decimetri…), ma la metro, intesa come metropolitana, il tempo a suo modo lo misura, eccome.
“Prossimo treno fra due minuti” si legge nel display, e si fa il conto di che ore saranno fra due minuti; sei minuti fra una stazione e l’altra e si calcola l’ora di arrivo; mezz’ora, quaranta minuti per un intero percorso e si pianifica l’agenda della giornata. La metropolitana è a suo modo un orologio che si muove sotto la città e si muove, nel tempo di ognuno e di tutti, delle persone e della stessa città, nel modo zigzagante, diretto e avviluppato, in cui Stefano Bartezzaghi lo racconta nel libro M Una metronovela (Einaudi 2015).
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Il racconto che Bartezzaghi fa della metropolitana di Milano è intessuto nel tempo (e come potrebbe essere altrimenti?) ma, di più, mette in comunicazione la griglia macroscopica del tempo fisico con la percezione personale, fatta di attualità e memoria, di lampi e di limiti, di quel sapere e non-sapere di cui parla Sant’Agostino nelle Confessioni: “Che cos’è insomma il tempo? Lo so finché nessuno me lo chiede; non lo so più, se volessi spiegarlo a chi me lo chiede”.

San’Agostino è una fermata della linea 2 della metropolitana di Milano, una di quelle che Bartezzaghi conosce meglio e di cui racconta nel capitolo XVII (210); la fermata viene dopo Sant’Ambrogio, “come nella storia” e offre lo spunto all’autore per trattare dei nomi delle piazze, degli spiazzi, degli spazi cittadini con le loro forme. Fra queste forme – guarda un po’ proprio nel capitolo su Sant’Agostino – c’è anche l’orologio: un orologio da polso, col suo cinturino, è la figura evocata da Bartezzaghi per descrivere una piazza-non-piazza e un viale di Lambrate (212).
Come il tempo, la metro va sempre avanti; come il tempo, nella metro “non ci si può stare, è un luogo di passaggio” (220). Come il tempo, il tempo, nella metro di Bartezzaghi, è dappertutto.
C’è il tempo “tatuato” sui biglietti dalle vecchie obliteratrici e ancora più indietro nel tempo dai bigliettai, che li timbravano “a mano con giorno e ora” (26).
Ci sono i giorni della settimana: il lunedì e il giovedì della raccolta differenziata (14); i weekend (21) con i loro riti; la domenica del primo viaggio in metro da bambino (25) e la domenica nei parchi (115); il martedì e il sabato del mercato a Sant’Agostino (211).
Ci sono le stagioni: inverno (57); fine primavera, un pomeriggio torrido (65). I mesi: un luglio di fine secolo (237), quando un blackout interrompe l’erogazione della luce e il ritmo del tempo lavorativo.
Ci sono le parti del giorno, col loro carattere ciclico e l’individualità del lì e allora. Fra la pausa-pranzo (118), le sere prefestive (135), le notti, si contano tante mattine: la mattina presto e la tarda mattinata (42), una fredda mattina d’inverno (120), “un matin d’aprile, sensa l’amore” di una canzone di Jannacci (219); una mattina di giugno, a vent’anni, che diventa le tre del pomeriggio e sfocia in un temporale memorabile (221), unendo così la memoria di uno spazio di tempo con quella di un fenomeno del meteo. Del resto, il meteo è disseminato nel racconto della metro, che non è indipendente dalle condizioni atmosferiche (122) e un intero capitolo, Lo spirito del tempo (220), è dedicato a questo connubio, del tempo esterno e mutevole con il tempo del percorso sotterraneo.
Come in un Libro d’ore medievale, come in un breviario, nel racconto spazio-temporale di Bartezzaghi s’incontrano le ore (le 23, le 18, le 18.10 dell’orario dei treni), la mezzanotte, le tre del pomeriggio di agosto (208), l’ora dell’ultima metro (“Corri, ché questa è l’ultima metro”, 245) e i tempi della vita, infanzia, adolescenza, maturità e morte.
E poi i minuti, i secondi, i momenti, gli istanti (121), che portano al tema delle coincidenze (82, 87), degli incontri, degli incroci, del tempismo, delle occasioni.
Ci sono le date, un 2 novembre, il 18 aprile del 1996, quando il poeta Jacques Jouet tra le 5 e mezzo del mattino e le 9 di sera compie un intero percorso della metro parigina.
Ci sono le date nelle strade (un vecchio gioco di Bartezzaghi su La Stampa): XXIV Maggio, XII Marzo, XX Settembre, Cinque Giornate.
C’è il tempo della passeggiata, che ha un limite orario (10), il ritmo della camminata del pedone: “ha tempo? Non ha tempo?” (21).
Ci sono la puntualità e il ritardo (12), l’attesa e l’ansia, la fretta (81), il rallentamento (65), la pazienza, la durata delle passioni e degli stati d’animo, captati sulla linea dei viaggi (67), la sospensione (8), i soprusi sul tempo (38). Ci sono esperimenti sul tempo, legati all’ascolto e alla musica.
C’è poi il tempo interpolato della metronovela che fa da sottotitolo al libro, la met-com: una storia scandita in puntate di tre, quattro minuti, trasmessa dagli schermi nelle stazioni della metro, che si interrompe all’arrivo del treno, come un orologio narrativo, che riempie di fiction gli intervalli del tempo dei viaggiatori.
Dappertutto, nel racconto di Bartezzaghi, le M di metro, di Milano, di memoria si connettono, nel palinsesto di passaggi e sottopassaggi in cui impressioni, ricordi, imprinting si sono depositati per via di decenni di passi.
Come nel paese delle meraviglie di Carroll, l’ingresso attraverso il quale si entra nella metropolitana di Milano di Bartezzaghi è il Tempo.
(I numeri in parentesi si riferiscono alle pagine del libro di Stefano Bartezzaghi, M Una metronovela, Einaudi 2015)
Antonella Sbrilli @asbrilli

Quadri e date in gioco: 19 aprile 2015, GNAM Roma

Girare per le sale della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma (Gnam – viale delle Belle Arti, 131) con un elenco di date storiche – dall’antichità romana alla seconda guerra mondiale – in cerca dei dipinti che rappresentino gli eventi accaduti in quei giorni. Selezionare, dalla ricchissima collezione della Gnam, le opere, di qualunque materia e forma, che richiamino i mesi dell’anno, per costruire un calendario da condividere sul sito web della Galleria. E ancora, cercare le figure retoriche nelle immagini e nelle installazioni; individuare alfabeti nei segni; inventare pseudonimi sulla scia di Duchamp; seguire collegamenti personali e motivati fra opere lontane: sono i Giochi di Sala della Gnam di Roma, che si svolgeranno domenica 19 aprile 2015.
Proposti e ideati da Antonella Sbrilli (docente di Storia dell’arte contemporanea alla Sapienza), secondo l’idea di collocare le opere nello spazio, nel tempo e nella rete di connessioni che le collegano, rete che si rinnova a ogni nuovo sguardo di ciascun osservatore, i giochi sono stati messi a punto con Martina De Luca (Servizi educativi della Gnam), Paolo Castelli (Gnam), Elena Lago (corso magistrale di Storia dell’arte della Sapienza) e saranno condotti da una decina di studenti del Dipartimento di Storia dell’arte e Spettacolo dell’ateneo romano.
La data di domenica 19 aprile corrisponde all’Educational Day, promosso dall’Amaci, con decine di iniziative in tutta Italia, con lo scopo di avvicinare il pubblico ai musei, rendendoli “centri di formazione permanente, luoghi di scambio e di crescita”.
bottobrunoeducationaldayAccompagnati dalla fotografia Silent Walk degli artisti Botto & Bruno (una figura nel paesaggio “silenziosa ma non passiva”) che fa da immagine-guida all’Educational Day, la Gnam e il Dipartimento di Storia dell’arte della Sapienza, per questa giornata, scelgono il gioco, inteso come partecipazione attiva, rielaborazione di regole, competizione, creatività, divertimento. E allora, come recita il quaderno di gioco che attende i partecipanti domenica 19 aprile 2015: “Benvenuti nelle sale della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, la più grande collezione d’arte dell’Ottocento e del Novecento in Italia, un museo carico di storia nazionale e internazionale, che conserva opere famose e riserva tante interessanti sorprese. Seguendo i percorsi proposti ne scopriremo insieme alcune e altre emergeranno dai vostri contributi”.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)
Gnam, viale della Belle Arti, 131, Roma – Domenica 19 aprile h. 10.30; 12.00; 15.30; 17.00
Prenotazione obbligatoria: : gnam.edu@gmail.com (max 20 persone a turno) – Tel. 06 32298219
La partecipazione è aperta a tutti, dai 16 anni circa in su, previa iscrizione. Qui le

info sul sito Gnam e il comunicato stampa.
Su twitter #giochidisala #Educationalday #AMACI #welovemuseums

#oggihaiku

“Forma poetica minuscola e infinita nello stesso tempo”, lo haiku è la composizione giapponese di tre versi (ku), che coglie un’immagine, una situazione, un pensiero, senza mai tralasciare un riferimento alla stagione in corso.
“Con solo tre ku di 5-7-5 sillabe, poeti e filosofi zen da più di trecento anni uniscono la brevità di twitter e le immagini di instagram in un colpo solo. Gli haiku, componimenti pensati da monaci viaggiatori già alla fine del diciassettesimo secolo, riescono a fotografare anche la nostra realtà, i nostri giorni, le nostre miserie”.
dailyhaikuNel suo blog Dailyhaiku e attraverso il suo account twitter, Susanna Tartaro – appassionata di haiku e curatrice di Fahrenheit su Radio3 – sceglie nel repertorio degli haiku quelli che sembrano cogliere un aspetto del presente. Li trascrive dando loro un titolo che fa scattare, in chi legge, il cortocircuito fra poesia e attualità. Un esempio: Nella taverna / la disputa scoppia di nuovo / luna velata, un haiku del poeta Shiki (1867-1902) si collega al presente grazie al titolo Bagarre e insulti al Parlamento.
In collaborazione con Dailyhaiku, proponiamo ai lettori del blog e di Pagina99 un gioco da fare in questi primi giorni di marzo, giorni di primavera incombente, di anniversari più o meno retorici, di mimose e altri fiori..

Il gioco si chiama #oggihaiku e consiste nel trovare un titolo attuale a queste composizioni, scelte da Susanna Tartaro:

Un canarino è scappato / questa giornata di primavera / volge al termine (Shiki 1867-1902)
Cadendo nell’acqua / i petali scompaiono – / pruno sulla riva (Yosa Buson 1716-1784)
Ah! L’usignolo / per cantare non apre che / il suo minuscolo becco (Yosa Buson 1716-1784)
Affaticato / mentre cerco albergo / mi scopro sotto i fiori di glicine (Basho 1644-1694)
Profumo di fiori di pruno: / sorge improvviso il sole / sul sentiero di montagna (Basho 1644-1694)
Dormo, mi sveglio / sbadiglio, sotto / i ciliegi in fiore (Issa 1763-1827)
Rondine di sera / non so cosa farò / in avvenire (Issa 1763-1827)
Mattina luminosa / sandali di paglia / sto bene (Santoka 1882 – 1902)
Nessuna strada / solo questa / neve primaverile che cade ((Santoka 1882 – 1902)

Scegliete lo haiku che vi ispira, dategli un titolo che richiami una situazione presente e poi, con l’hashtag #oggihaiku, postatelo su twitter entro martedì 4 marzo. Per approfondire: A lezione di haiku
Nel numero del giornale Pagina99 we in edicola l’8 marzo, è pubblicata una scelta dei titoli arrivati e un commento. E qui il tweetbook.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)
oggihaiku

Stefano Pace, studioso di social media, dedica all’iniziativa il saggio  La Struttura del Remix. Il caso #Oggihaiku

Il 24 dicembre di Joseph Cornell

Uno dei più grandi artisti americani, Joseph Cornell (1903-1972), è celebre per la sua produzione di collage di immagini e film e soprattutto per le scatole di legno chiuse da un vetro, in cui oggetti trovati (pipe d’argilla, piume, conchiglie, spirali, carte geografiche) compongono degli assemblaggi affascinanti e densi di significati. Cornell non era solito datare le sue opere e aveva una concezione del tempo – mutuata anche dalla sua appartenenza alla setta della Christian Science – che va sotto il nome di eterniday, parola-valigia che fonde insieme l’eternità e la quotidianità, l’effimero e il senza tempo. A un periodo dell’anno però Cornell era particolarmente sensibile: i giorni intorno a Natale. Nato il 24 dicembre, Cornell amava l’atmosfera natalizia, sia nella sua casa di Utopia Parkway (Flushing, New York), sia a Manhattan, dove si recava nelle sue derive quotidiane, in cerca – come scrive Charles Simic ne Il cacciatore di immagini – di quegli “oggetti ancora sconosciuti che vanno insieme” e che, una volta riuniti, faranno un’opera d’arte. Cornell cercò sempre, per quanto possibile, di far coincidere le mostre delle sue opere con il Christmastime, ricorrenza della sua nascita, periodo di memorie e aspettative, tempo di regali, che sono – come le sue scatole e i suoi collage – il risultato di una ricerca e di una scelta accurata.
Cornell at Cooper Union 1972 (6) Al senso del Natale si collegano molti temi nell’opera di Cornell: il richiamo ai giocattoli, alle sorprese, ai dolciumi, l’uso delle miniature, l’estetica della meraviglia e soprattutto, l’infanzia. L’infanzia intesa non tanto come stato di innocenza, quanto di assoluta interezza dei significati, “quando una bilia che rotola su un parquet appare portentosa come il passaggio di una cometa” (Ashbery).
Un delle ultime mostre di Cornell si tenne, solo per bambini, alla Cooper Union School of Art and Architecture (New York) nel 1972, l’anno in cui l’artista sarebbe morto, il 29 dicembre. (Antonella Sbrilli @asbrilli)

#ComePerec – il gioco del 18, 19 e 20 ottobre e le tweet-antologie

Il 18, il 19 e il 20 ottobre del 1974 cadevano di venerdì, sabato e domenica.
In quei tre giorni lo scrittore Georges Perec – nei caffè o sulle panchine della place Saint-Sulpice a Parigi – prese nota di “tutto quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole”.

timbre Di quella sosta di tre giorni e delle osservazioni che ne derivano è prova il Tentative d’épuisement d’un lieu parisien  tradotto in italiano e curato da Alberto Lecaldano, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino  (Voland 2011).
Nel 2013, il 18, il 19 e il 20 ottobre cadono nuovamente di venerdì, sabato e domenica.
Per onorare questi tre giorni e Georges Perec che li scelse in un fine settimana di quasi quarant’anni fa, diconodioggi propone un gioco e un hashtag: #ComePerec

Si partecipa così:
– si sceglie un luogo da osservare, impegnandosi a trascorrervi un po’ di tempo nei tre giorni;
– si inviano a @diconodioggi non meno di 5 e non più 10 tweet con le proprie osservazioni
– uno dei tweet deve indicare il luogo e ogni tweet deve riportare l’hashtag #ComePerec
Alla fine del gioco, i tweet vengono raccolti in tweet-antologie.
Antonella Sbrilli (@asbrilli)

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Ricordarsi le date (e non solo)

 

Il testo che segue è un estratto dell’intervento di Antonella Sbrilli alla giornata di studi Giochi di memoria (San Marino, Centro di Studi sulla Memoria,  13 luglio 2012). Il testo completo è edito, col titolo Memoria per le date. Date per la memoria, presso l’editore Guaraldi – San Marino University Press, 2013.

“Non ho impresso quella data nella mia memoria, ho impresso la mia memoria in quella data”

Giacomo Balla autoritratto courtesy Elena Gigli

Giacomo Balla, Autoritratto, 1940, olio su tavola, 60×50 cm. Courtesy E.Gigli

La memoria per le date
Collettivamente, oltre alle date canoniche religiose o civili, si ricordano le date collegate ad eventi epocali, lo sbarco sulla Luna, la caduta del muro di Berlino, la morte di Lady Diana, l’attentato alle torri gemelle. Sul piano personale, si ricorda quello che, in virtù del coefficiente emotivo dell’evento, rimane impresso. Alcune date si fissano con sforzo, altre naturalmente. Ora i social network segnalano anniversari di ogni genere, con una funzione da maggiordomo della memoria, che avrà i suoi effetti, probabilmente, nello sviluppo di sistemi mnemonici condivisi.
Anche quando il senso autobiografico, la continuità dell’identità personale è compromessa da una malattia neurologica, le date possono permanere.Oliver Sacks ha raccontato più volte il caso di Rose R., malata di encefalite letargica. Non ricordava nulla di decenni della sua vita, ma poteva riferire “la data di Pearl Harbor, dell’assassinio di Kennedy… Io le ho tutte registrate, ma nessuna importa”.
L’evento drammatico accaduto all’esterno funziona come un agente, crea un collegamento con il qui e ora e fissa nella memoria – perfino in un caso limite come quello della paziente di Sacks – la sequenza numerica della data.

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