Calendaria 2022

A gennaio troviamo ricordate la prima donna medico del mondo antico, la greca Agnodice, poi la dottoressa olandese Jacobs, pioniera della contraccezione, un’altra olandese, d’Eaubonne, considerata la fondatrice dell’ecofemminismo, l’attivista politica lussemburghese Thomas-Clement, e la storica e sociologa croata Sklevicky.
A febbraio la scrittrice e traduttrice bulgara Gabe, l’insegnante irlandese Herlihy, attiva nella nascita delle cooperative di credito, la politica spagnola Montseny, prima donna ministra della Sanità e della Previdenza sociale nel 1936, la fisiologa nutrizionista svedese Kronberg, a cui si deve l’invenzione del latte in polvere, e l’esperta di alimentazione Ochorowicz-Monatowa, nata in Polonia nella metà dell’Ottocento.
E così via, ogni mese del 2022 ricorda un nucleo di donne che “hanno dato una nuova idea del sapere femminile: concreto, realistico, ma profondamente intriso di umanità”, per un totale di 62 ritratti: biografie essenziali  in tre lingue, accompagnate da disegni realizzati da illustratrici di diversa provenienza. 
Stiamo parlando di Calendaria 2022, un calendario sui generis – è il caso di dirlo – curato da Toponomastica femminile, l’associazione che lavora da un decennio sui temi della parità, a partire da un dato statistico ben visibile: le strade, le piazze, i giardini, insomma gli spazi pubblici, intitolati a donne, sono nettamente di meno di quelli dedicati a uomini. Da qui l’impegno del gruppo di ricerca perché la presenza di nomi femminili nelle targhe stradali aumenti, compensando il gap attuale e arricchendo i percorsi quotidiani delle persone di presenze importanti, che hanno contribuito a migliorare le società in cui hanno vissuto e operato, rimanendo spesso in secondo piano.
Sul sito di Toponomastica femminile si trovano informazioni sulle attività dell’associazione, le iniziative educative, le collaborazioni con istituzioni e media, la documentazione su ricerche e progetti in corso, tutti collegati a questo obiettivo.
La creazione di un calendario rientra nelle imprese che contribuiscono a creare una nuova sensibilità: dopo Calendaria 2021, realizzato nel pieno della pandemia, l’edizione del 2022 prosegue nella diffusione di conoscenze su donne europee che si sono distinte – come si legge nella presentazione – “nei diversi campi correlati ai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030”.
La Nobel polacca Wisława Szymborska – in Voltando pagina – ricorda che il destino del calendario è effimero e il suo carattere umile, ma la sua diffusione è capillare e quotidiana e la varietà di testi che contiene lo imparenta a una piccola grande narrazione collettiva. Trovare dentro la sua griglia di caselle con i giorni dell’anno le storie e i volti di scrittrici, sindacaliste, cuoche, scienziate ecc. consente di collocare queste donne nel tempo, in attesa di incontrarle nello spazio cittadino.

Il progetto editoriale è di  Donatella Caione, Maria Pia Ercolini, Livia Fabiani che firma anche  il progetto grafico.
(a.s.)

 

Ti con zero per l’anno nuovo

Un post breve per ricordare che a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, la grande mostra “Tre stazioni per Arte-Scienza” ci accompagna nel passaggio dal 2021 al 2022. Aperta fino alla fine di febbraio, la mostra offre tre diversi percorsi nel rapporto fra l’arte e la scienza. Uno segue il filo della storia, rintracciando nella città di Roma le vestigia, i personaggi, i luoghi della ricerca scientifica nel passato e nel presente, con un affaccio sul futuro prossimo. Un altro percorso si avventura nel tema dell’Incertezza, come categoria pervasiva, che investe anche le scienze “esatte”. Il terzo percorso è quello che prende il nome dal testo di Italo Calvino del 1967, Ti con zero, in cui lo scrittore si prefiggeva di “vedere il tempo con la concretezza con cui si vede lo spazio”.
In questa sezione della mostra trovano posto opere sorprendenti, che richiedono una partecipazione attenta per coglierne le dimensioni e gli obiettivi: “algoritmi che usano l’errore come sistema generativo di forme, apparati biologici sintetici, microbi eucarioti intuitivi e intelligenze artificiali, processi di trasformazione dei territori, desertificazioni, esplorazioni spaziali e panorami marziani”. Opere che parlano di ambiti in cui la ricerca è in fieri, dalla genetica al clima, alle reti, con lo sguardo e la perizia dell’arte che trasforma materie e dati in un’esperienza percettiva e cognitiva insieme. 
Nel saggio che apre il catalogo, le curatrici di questa sezione – Paola Bonani, Francesca Rachele Oppedisano, Laura Perrone – partono da Ti con zero,  “concetto astratto e fertile luogo di proiezioni immaginative” e anche “condizione di sospensione spazio-temporale” impostasi durante la pandemia, per illustrare  con chiarezza le tappe della mostra, in cui si intrecciano – in un gioco dei tempi – artisti del passato (fra cui Dürer, Steiner, Boetti, De Dominicis,opalka, Smithson) e artisti e artiste contemporanee, di diverse generazioni, da Penone, Tacita Dean, Carsten Nicolai, Pierre Huyghe, ai più giovani Adelita Husni-Bey, Tega Brain, daniel Steegman Mangrané…

Il sito della mostra Tre stazioni per Arte-Scienza
Palazzo delle Esposizioni, Roma
fino al 27 febbraio 2022

Nelle tappe del tempo, con Franco Rella (il 27 ottobre 2021)

In copertina c’è la riproduzione di una scatola di Joseph Cornell, della serie Aviary (voliera), in cui la sagoma di un pappagallo ci guarda da una incastellatura di quadranti d’orologio (marca Elgin), fra molle, spirali e un carillon rotto. È l’ingresso visivo, quanto mai pertinente, al libro del filosofo Franco Rella, L’arte e il tempo (Jaca Book 2020), da poco ristampato in seconda edizione, e che è presentato mercoledì 27 ottobre 2021 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. 
Come un segnatempo, anche il libro di Rella rende omaggio alla scansione delle ore e dei mesi e raccoglie – nella prima parte – dodici saggi che attraversano il pensiero, la scrittura, la visione del Novecento, con affacci sul XIX secolo di Baudelaire, su Van Gogh (Volti e paesaggi), incursioni in Dürer (Specchi e clessidre), in Leonardo (Freud e Leonardo). 
Già pubblicati in diverse sedi e occasioni, questi dodici testi sono considerati dall’autore “capitoli di un libro sostanzialmente unitario, che disegna un lungo arco temporale fatto anche di rinvii, riprese, scoperte e riscoperte. Li vedo come una storia che si è dipanata in diverse tappe. Alcune cose sono ripetute, forse è meglio dire ribadite. Non ho cercato di cancellare questi segni che indicano anche nel tempo la costanza di temi, di concetti, di immagini che costituiscono di fatto il mio sguardo”. Qualunque sia infatti il focus o l’occasione del testo – presentazione, conferenza, saggio – la prosa dell’autore si dipana come un diario intellettuale, ritmato da paragrafi contigui, in cui chi legge ritrova – per motivi sempre leggermente diversi e sempre profondamente  affini – gli interlocutori e le interlocutrici del suo pensiero e del suo sguardo, Benjamin, Rilke, Adorno, Weil, Mann, fra molti (e qui un invito all’editore: proprio perché il libro costruisce una rete di relazioni, l’indice dei nomi sarebbe prezioso).

Nella seconda parte del volume, dal titolo Micrologie, Rella propone dieci “microsaggi”, definiti “elaborazioni, senza note o riferimenti”, che si affiancano ai dodici testi della prima parte, proponendosi come “una sequenza di domande che vengono poste al pensiero”. 
Chiude il libro un album di 41 immagini, riproduzioni di opere incontrate o alluse nei testi che le precedono e che entrano in tensione con essi, sempre attraverso la porta – e il gioco di specchi –  del tempo. Volendo, si può cominciare la consultazione del libro proprio da questa sequenza, che si apre con l’Inverno di Benedetto Antelami (una stagione) e si chiude con la Lupa di Kentridge dal fregio Triumphs and Laments sul muraglione del Tevere: un’opera del 2016, ottenuta togliendo la patina dal travertino, e che sta ormai svanendo, ricoperta da nuova patina. Un’opera che si introduce consapevolmente nell’azione entropica del tempo, facendone la sua sostanza. E da questa immagine che chiude il libro, si può cominciarne, o ricominciarne, la lettura. 

Presentazione del libro di Franco Rella L’arte e il tempo (Jaca Book)
con Cristiana Collu, Maurizio Gargano, Michele Trionfera
Mercoledì 27 ottobre 2021, alle 17:30
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Roma, viale delle Belle Arti, 131

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Il Gioco dei giorni narrati, edizione 2021

Dopo 27 anni dalla prima edizione, la casa editrice Giunti ripubblica Il gioco dei giorni narrati, l’antologia che è all’origine del blog diconodioggi.  Ecco la nuova Introduzione:

Il gioco dei giorni narrati è stato pubblicato per la prima volta nel 1994 dalla casa editrice Giunti, complice l’allora direttore editoriale Lucio Felici. Negli anni ha avuto una sua diffusione in nicchie di lettori e lettrici interessate alla rappresentazione del tempo e al radicamento della lettura nel quotidiano; è stato usato per rubriche radiofoniche e televisive; è stato presentato all’International Society for the Study of Time (ISST).
Nel frattempo, le citazioni crescevano fino a diventare un database strutturato e arricchibile.

Con la diffusione dei social network, Il gioco dei giorni narrati ha dato vita all’account twitter @diconodioggi, che dal 2013 ogni giorno propone frammenti narrativi in cui compare la data del giorno in corso.
I brani da cui sono tratti si ritrovano in diconodioggi.it  con i riferimenti editoriali completi: il blog è in un certo senso la casa-madre da cui parte e a cui ritorna l’interazione sui social. Negli anni, vi hanno trovato posto centinaia di nuove citazioni, inviate da una vivace e generosa comunità di una decina di migliaia di persone, che leggono molto e che hanno la cura di memorizzare un passo e di condividerlo. In questo modo, un database molto specifico si arricchisce di tanti contributi sfaccettati, che una sola persona non potrebbe mai acquisire.
Nel 2016, questo gioco sul tempo ha dato origine a una mostra di arte contemporanea, ospitata nel Museo Macro di Roma e durata 155 giorni, scanditi da un grande calendario all’ingresso, di quelli da cui si staccano i “foglietti” con le date.
E ora, il gioco torna in stampa: un libro-calendario, un’antologia portatile, un aiuto per la memoria, un dono da fare o da farsi per attraversare il tempo in sincronia con la letteratura.

2021

Pablo Rubio, “un presente continuo”

Solo a leggere i titoli delle opere e dei progetti di Pablo Rubio (Córdoba, 1974), il tempo e la memoria emergono come i punti cardinali della sua ricerca: Llanuras para cinco vértices, Diarios de navegación, La mañana de un blanco lunes e così via. Ai titoli corrisponde spesso un racconto, sprigionato da un’esperienza, da un palinsesto di letture e di incontri, da una riflessione sulla perdita e sulla trasformazione continua di persone e di ambienti. 
Chi ha avuto l’occasione di conoscere l’artista spagnolo al lavoro, ha avuto un’idea del suo metodo: un contenuto, a volte doloroso, trova la sua forma percepibile attraverso la scelta di carte, tracce scritte, fotografie, oggetti, materie allestite con sapienza (e bellezza) nello spazio che le ospita, anche per breve tempo. 
La pietas di Pablo Rubio nei confronti delle memorie diventa tangibile e provoca in chi guarda, o percorre le sue opere, una gamma di reazioni, che vanno dal piano della sensibilità a quello dell’intuizione scientifica, là dove si sente che l’artista sta cercando di rappresentare l’impossibile,  il tempo. 
Il progetto più recente di Rubio si intitola Autobiografía para un presente continuo ed è visibile fino a dicembre 2021 a Córdoba, presso il Vestibulo dell’Hospital Universitario Reina Sofía.
Il progetto si lega allo stato di paura, solitudine e dolore che la pandemia ha instillato, e – coerentemente con la ricerca dell’artista – vuole dare vita a “un tempo che è passato troppo in fretta”, che “si disintegra all’istante”, con il rischio che tutto diventi “un ricordo remoto”.
Come si legge con chiarezza nella presentazione, si tratta di un progetto espositivo “per ringraziare i professionisti dell’Ospedale Universitario Reina Sofía per la loro dedizione e il loro impegno durante la pandemia di COVID-19, sia per la loro grande capacità di adattarsi a una situazione sconosciuta sia per la loro dedizione e il loro sforzo, che li ha resi un esempio di progresso e umanizzazione”.
In bilico fra solitudine e fragilità individuale e forza collettiva, l’Autobiografía para un presente continuo prende come fulcro un luogo, l’ospedale, inteso “come un gigantesco nido dove risiedono resistenze, sforzi e vittorie, e naturalmente la gratitudine nel senso più ampio della parola”.

Qui il sito di Pablo Rubio 

(a.s.)

 

Incursioni nel tempo

Incursioni nel tempo

Nel libro di Salvatore Settis dal titolo Incursioni. Arte contemporanea e tradizione il termine tempo ricorre in tante pagine, che indagano e avvicinano gli artisti scelti nel suo viaggio trasversale nella storia dell’arte. Il capitolo dedicato a Giuseppe Penone lo racchiude nel titolo: “Giuseppe Penone: scolpire il tempo”, che rimanda a un altro titolo, quello della raccolta di testi di Marguerite Yourcenar Le Temps, ce grand sculpteur, che – a sua volta – è mutuato da un verso della poesia di Victor Hugo sull’Arco di Trionfo
Settis ripercorre le azioni scultoree dell’artista piemontese, i suoi interventi nei boschi, gli scavi interni al legno dei tronchi o la duplicazione di pietre con pietre e alberi con metalli. Qui la tradizione sprofonda nella dimensione mitica dei regni naturali e trova il suo faro in Ovidio, la cui poesia metamorfica coglie “l’incessante fluire delle forme e delle specie insistendo sui momenti di trapasso […] per suggerire che la mutazione non è solo il momento chiave del suo racconto, ma il cuore stesso della struttura del mondo”.
Insieme al pensiero classico, la lettura di Penone è condotta con affacci su visioni ecologiche attuali, e prende rilievo il tema dell’interconnessione dei fenomeni, che siano naturali o artefatti, inclusi noi stessi osservatori e osservatrici. Discutendo degli alberi bronzei di Penone, Settis chiama in causa le tre diverse temporalità che si intersecano in questa tipologia di opere: la lunga durata naturale, il lavoro minuzioso dell’artista e poi la percezione che ne hanno le persone, che a sua volta implica due dimensioni spazio-temporali; prima lo sguardo da lontano e poi il contatto tattile da vicino. A quel punto, l’inganno è svelato e l’osservatore è incluso per sempre nella vita della materia sfiorata e nella rete di informazioni elaborate.

Una delle incursioni più intense di questo libro di Settis è dedicata all’opera romana di William Kentridge, Triumphs and Laments, il lungo fregio sui muraglioni del Tevere, ottenuto togliendo la patina dal travertino, e che – dopo poco appena cinque anni dalla sua realizzazione – sta ormai svanendo. L’opera monumentale dell’artista sudafricano consente a Settis di tirare molte fila dei suoi interessi archeologici, storici, artistici e politici, offrendo un montaggio di forme e formati che percorrono ricorsivamente la storia di Roma e in cui innesta considerazioni che vengono dalla lezione di Aby Warburg e del suo Atlante Mnemosyne.
La tessitura dei rimandi al passato è talmente fitta e il movimento nel tempo si fa tanto intricato che Settis ricorre anche a degli schemi visuali per fare emergere la stratificazione dei livelli cronologici che si intersecano in molti punti del fregio: il livello dell’evento rappresentato, quello dell’immagine scelta come fonte, quello definito dall’adiacenza ad altre figure. Sono schemi che a loro volta innestano catene di cortocircuiti temporali e anacronismi, intesi non come ‘fuori posto’, ma come compresenze di figure e accadimenti sotto un unico sguardo sinottico. Pur svolgendosi in orizzontale lungo una linea di mezzo chilometro, la linearità è estranea a quest’opera, che parla la lingua aggregante della memoria, con i suoi ingorghi, le zone nere e vuote, i camuffamenti e i ritorni. E pur essendo un’opera statica, si muove con chi la guarda camminando. E la nona incursione di Settis cerca di restituire su pagina sia la non linearità sia la mobilità storica e figurativa, simbolica e tecnica dei Trionfi e Lamenti di Kentridge.

Del resto, Kentridge è stato l’autore di un’altra impresa colossale, The Refusal of Time, una potente installazione multimediale, uno spettacolo, una ricerca sulla temporalità, a cui ha collaborato lo storico della fisica e filosofo della scienza Peter Galison. Presentata alla documenta di Kassel nel 2012, trasformata anche in un libro sui generis, l’opera mette chi partecipa in mezzo a una congerie di stimoli visivi, sonori e ritmici che generano una percezione del tempo multipla e discontinua. Il tempo ‘rifiutato’ è quello della standardizzazione oraria ‘capitalistico-coloniale’, decisa politicamente ed esportata via via in tutto il mondo, il tempo delle sincronie e delle cronologie diritte e progressive. A questa rappresentazione, l’arte è in grado di opporre tecniche e linguaggi che sovrappongono stati temporali e moltiplicano punti di vista. Sono gli scarti, le scomparse e i ritorni, le illusioni e i lampi che si producono nella memoria personale e condivisa, e nei suoi passaggi da un’epoca all’altra, da un emisfero all’altro. Inseguirli e raccontarli in una forma non lineare è la sfida contemporanea.

Salvatore Settis, Incursioni. Arte contemporanea e tradizione, Feltrinelli, Milano 2020

Il testo è un estratto da A. Sbrilli, Ordini e incursioni del tempo, apparso in Incursioni, Arte contemporanea e tradizione di Salvatore Settis. Una lettura corale, uscito nella rivista Engramma, n. 180, marzo/aprile 2021 a cura di M. Centanni e G. Pucci

Sidney: solstizio d’inverno 2021

“L’inverno è arrivato ed è tempo di riscaldare gli animi”, si legge nella newsletter della galleria Dominik Mersch, che si trova a Ruschcutters Bay, Sidney, Australia.
Con le sue mostre in corso (Atmosfera e Another Dawn), la galleria di arte contemporanea partecipa – in questi giorni di giugno – ai festeggiamenti del solstizio d’inverno 2021 e invita a condividerne il programma.
Mentre nell’emisfero nord si festeggia l’apice della luce (e anche l’inizio del suo declino, come scrive Thomas Mann nella Montagna magica), in quello australe si celebra la situazione opposta. E fra i tanti appuntamenti musicali, performativi, culturali, c’è Aboriginal Sky Dreaming: un tour di un’ora durante il quale un astronomo aborigeno racconta “le storie di terra, acqua e cielo tramandate dagli antenati. ⌈…⌉ Come primi astronomi del mondo, gli aborigeni e gli abitanti delle isole dello Stretto di Torres hanno sviluppato una serie di modi pratici per osservare il sole, la luna e le stelle ai fini della navigazione, dell’allestimento dei calendari e della previsione del tempo. Possiedono anche delle narrazioni che sono state tramandate attraverso il canto, la danza e la tradizione orale per decine di migliaia di anni” (una particolare attenzione alla costellazione oscura dell’Emù). 
Le mostre in corso presso la Dominik Mersch Gallery sono anche loro connesse al tema della temporalità: Atmosfera raccoglie le immagini di architetture visionarie e sospese (cityscapes) dell’italiano Giacomo Costa, e Another Dawn i disegni e i modellini di Catherine O’Donnell che rappresentano finestre con le tende tirate, spazi di passaggio per memorie e narrazioni. 
Inoltre, la galleria ha ospitato molte importanti mostre di Sara Morawetz, l’artista australiana che lavora sui temi della misura e della percezione del tempo (qui l’articolo sulla sua performance How the stars stand del 2015 durante la quale trascorse quasi un mese sintonizzata sul “giorno” marziano, il sol).
 E qui il link al programma del Sidney Solstice

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Intervallo

Intervallo è una pubblicazione e una mostra: il libro, composto da disegni di Paolo Bernacca e da dialoghi di Stefano Scialotti, è edito da Bernacca edizioni (piccola raffinata casa editrice specializzata in grafica) e la mostra  espone le tavole originali alla libreria Fahrenheit 451 e nel foyer del cinema Farnese di Roma, Campo dei Fiori.
Dal 3 al 17 giugno 2021, “sotto l’alto patronato di Giordano Bruno”, come si legge nell’invito, si può entrare, a due a due, nei locali della storica libreria di Catia Gabrielli per percorrere con lo sguardo le tavole e sfogliare le pagine di questo passo doppio.
“All’inizio non c’era nessuna idea precisa, come sempre” – scrive Stefano Scialotti, l’autore dei testi  -, solo una insofferenza per i racconti ripetitivi del secondo anno di pandemia e l’idea di combinare qualcosa con l’amico, complice di molte imprese verbo-visive, Paolo Bernacca.
“Lui mi manda un po’ di disegni di Roma vuota. Panorami della Città Eterna in un campo grigio morbido. Un tempo sospeso. Da molti anni io ero fissato con una serie di brevissimi racconti: Banalità. Alla fine i disegni hanno ispirato un’evoluzione delle mie vecchie banalità e viceversa i dialoghi hanno creato un percorso anche per i disegni”.
Ha origine così la combinazione felice fra i disegni romani di Paolo Bernacca, maestro dello sketchcrawl (maratona di disegni e acquerelli che testimoniano un’escursione, una flânerie nei luoghi prescelti) e i testi a dialogo fra LEI e LUI di Stefano Scialotti (regista, documentarista e scrittore, fra l’altro, di un libro dal titolo Lennon not Lenin. Il muro di Berlino erano due). 


I disegni sono una ventina e, per chi conosce la città, scatta subito l’invito a ricostruire il punto da cui l’artista ha tracciato la veduta, da quale ponte sul Tevere, da quale finestra, da quale parapetto si è affacciato; e poi viene voglia di farsi piccoli per entrare nei dettagli delle finestre, del selciato, degli scorci in discesa. Lo sguardo di Bernacca su Roma è pieno di cura per le cose, i monumenti, i platani, e per le persone, prova ne sia la scritta Free ZAKI che compare, discreta ma decisa, su un cartello. 
Accanto a ogni disegno, si trovano i testi di Scialotti, identificati da categorie che costruiscono una lista eloquente (Depressione, Vuoto, Impossibilità, Inerzia, Stupidità, Concerto, Solitudine, Schizofrenia, Ossimoro, Sciocchezze, Capriola, Finzione, Circolo vizioso, Tran tran, Credo, Problema, Bella domanda, Solo, Fine del mondo) e da un numero, a volte altissimo, come se l’autore avesse estratto il testo da una raccolta senza fine o stesse giocando con i segni, vedi per esempio “Circolo vizioso n. 1001”.
Volendo, si può cercare quali fili leghino i dialoghi con i disegni (“Ma tu ti senti isolato?” è la battuta d’inizio del testo che si accompagna a uno scorcio dell’isola Tiberina), mentre il fiume scorre, con i tratti chiari sul fondo grigio della carta, in corrispondenza di domande ricorrenti “E poi cosa succederà? / Niente di nuovo penso”.
Per la sua natura, questa doppia raccolta mette in risonanza due tracce di esperienza (disegni e testi, domande e risposte, LUI e LEI) e le porge a chi ha voglia di essere coinvolto nel gioco.
Che poi, gli schizzi di Bernacca sono sketch e i dialoghi di Scialotti anche, nel senso che questa parola ha nello spettacolo, dove indica una scenetta, che capta una situazione e la restituisce in poche battute. Qualcuno ricorda, o ha sentito parlare, di un programma radiofonico degli anni Sessanta/Settanta, Eleuterio e Sempre Tua, in cui due grandi attori, Paolo Stoppa e Rina Morelli, interpretavano scenette di vita quotidiana d’antan, dove si affacciava l’attualità, per esempio nel 1973 l’austerity.
Cinquant’anni dopo, la pandemia occupa lo spazio della coppia senza nome di Intervallo e l’arguzia coniugale di allora è ridotta all’osso di poche parole, dove il tempo, il vuoto, il presente-remoto spadroneggiano. 
Banalità, voleva intitolarle Scialotti, ma poi la scelta del titolo è caduta su una parola molto evocativa: l’intervallo, quello fra le lezioni, quello – remoto e musicale – nella programmazione televisiva, quello dei cinema degli anni ’60, quando la pausa fra il primo e il secondo tempo – è sempre Scialotti a scriverlo – “permetteva di andare al bagno, chiacchierare, comprare bibite e gelati”. 
Ben ci sta dunque questa mostra nel foyer del cinema Farnese (e nella libreria all’ombra di Giordano Bruno). 

Antonella Sbrilli

Paolo Bernacca, Stefano Scialotti, Intervallo, edizioni Bernacca, Roma 2021
Roma, Libreria Fahrenheit 451, Campo dei Fiori 44 e foyer del Nuovo Cinema Farnese (3-17 giugno 2021)
Paolo Bernacca sketches on line
Stefano Scialotti video su vimeo

Giorni barocchi in una mostra a Roma

Oltre a dipinti e disegni esemplari, a manufatti di grande ingegno e perizia meccanica – come gli orologi notturni – la mostra Tempo barocco (Roma, Palazzo Barberini), offre una riflessione sul tempo nella poesia, firmata in catalogo da Emilio Russo. La riflessione prende avvio dalla Riforma del calendario di Gregorio XIII, e  da una lettera di Torquato Tasso, siglata 8 ottobre 1582. Una lettera – scrive lo storico della letteratura – “letteralmente fuori dal tempo”, perché scritta in uno di quei dieci giorni dell’ottobre 1582 soppressi dalla bolla di papa Gregorio XIII. Elaborata per correggere l’invecchiamento del calendario istituito da Giulio Cesare, sistemare i calcoli sull’Equinozio e sulla data della Pasqua, la Riforma che introduce il calendario gregoriano ha avuto un influsso sul senso del tempo di chi l’ha vissuta. Michel de Montaigne annotava di non riuscire ad adattarsi  al cambiamento, tanto da essere con la mente  sempre dieci giorni avanti oppure dieci giorni indietro (Saggi, libro III, capitolo X).
Nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco lo sfasamento di dieci giorni fra i calendari in vigore dopo la Riforma – che fu accettata prima, e in diverse fasi, dai paesi cattolici e più avanti in quelli protestanti –  ha la sua rilevanza nell’intricata vicenda. E la cancellazione di quella decina di giorni è stata di ispirazione per un’artista contemporanea, Chiara Camoni, che li ha rivendicati da un notaio e ha costruito intorno ad essi una performance durante la quale regala uno dei giorni ai visitatori, con tanto di certificato timbrato.
Tornando alla mostra Tempo barocco e alle riflessioni sulla rappresentazione ed elaborazione poetica della dimensione temporale, si incontrano altre meraviglie, come l’elogio di Gregorio XIII, il “pontefice che aveva ereditato da Dio la capacità di correggere il sole e di mutare il corso del tempo”, fatto da Giovan Battista Marino nella Galeria. Del poeta napoletano, l’autore del saggio ricorda e discute altre incursioni nella zona del tempo e delle sue iconografie, vecchio alato, rivelatore della verità, cancellatore della bellezza e della memoria, portatore sulla schiena di una clessidra che imprigiona il moto perenne della sabbia prigioniera nelle ampolle (Adone) . 
In dialogo con le fonti classiche e con la cultura iconologica, Giovan Battista Marino svolge – per mezzo delle parole e delle strutture poetiche – percorsi ciclici e orizzontali nel dominio del tempo, dai secoli ai giorni, fermandosi sugli snodi concettuali dell’arte in grado di superare il volo entropico del tempo e sulla sfida dialettica fra Tempo e Amore. 
Il saggio di Emilio Russo si addentra poi nel territorio della “misurazione analitica” del tempo, con le lettere di Galileo che nel gennaio del 1610, “notte dopo notte” annota le sue osservazioni sul moto dei pianeti e della luna: “Tempo come misura del movimento e tempo come orizzonte di una durata, di una permanenza nei cieli”.
Dalla scrittura poetica alla scrittura scientifica, il tempo barocco – e le riflessioni su di esso – si rivela il “perno di un’intera concezione del mondo”, ampia, variegata, virtuosistica, che può venarsi di rimandi morali alla vanitas e di concettismo.

Una postilla su un tema centrale nella mostra:
la contesa fra Tempo e Amore, Cronos e Cupido, illustrato da tele e splendidi orologi, è oggetto del saggio in catalogo di Francesca Cappelletti, Il tempo ma anche l’amore: pseudomorfosi seicentesche fra l’Italia e il Nord.

Il testo svolge un percorso fra allegorie ed ecfrasi, fonti classiche e rivisitazioni, che si intreccia con il tema della Fortuna e con i potenti mutamenti della considerazione del tempo nel pensiero del secolo XVII. 

E poi una osservazione molto laterale, che rimbalza da uno straordinario dipinto in mostra, Il Tempo taglia le ali all’Amore di Antoon van Dyck a un passo dell’Adone di Marino (X, 56-57) citato nel saggio di Russo, dove si legge: “Quell’uomo antico, ch’a le spalle ha i vanni”.


Il termine “vanni” per ali, desueto, si rintraccia ancora nella cultura rebussistica del Novecento: nella vignetta qui riprodotta, una spigliata figura femminile taglia le ali all’amorino in un così detto “rebus onomastico”, la cui soluzione è un nome, in questo caso B a T taglia = Battaglia, GO vanni = Giovanni. 
Il gioco enigmistico mantiene tracce, anche umoristiche, di cultura mitologica e lessicale mescolando le carte (le figure e i termini) della scena.

La mostra Tempo barocco, a cura di Francesca Cappelletti e Flaminia Gennari Santori, è aperta a Palazzo Barberini (nel nuovo spazio mostre) fino al 3 ottobre 2021. Il catalogo è edito da Officina Libraria, il saggio di Emilio Russo citato in questo post si trova alle pagine 33-43 e quello di Francesca Cappelletti alle pagine 23-31.

Antonella Sbrilli
@diconodioggi

 

“Storia dell’arte”, in tempo reale

La rivista “Storia dell’arte”, fondata nel 1969 da Giulio Carlo Argan, diretta negli anni da studiosi come Oreste Ferrari e Maurizio Calvesi – e ora da Alessandro Zuccari – ha festeggiato il suo cinquantenario (oltre che con un numero speciale edito da De Luca), anche con l’apertura di un sito che sta raccogliendo il suo archivio digitale: centinaia di articoli sui temi dell’arte moderna, con attribuzioni, documenti, discussioni, interpretazioni. Ora, alla rivista a stampa e al sito si aggiunge una nuova sezione, il cui nome “Storia dell’arte” in tempo reale rivela l’intenzione di seguire tempestivamente e in sincrono le scoperte, le anteprime, le ricerche in progress. Non è casuale che a inaugurare questa sezione sia un articolo che porta nel titolo un luogo e una data: Roma, 1 agosto 1605.
Il contributo è scritto da Massimo Pulini, artista, storico dell’arte, docente e conoscitore che – all’inizio di aprile 2021 – ha attribuito a Caravaggio il dipinto raffigurante l’Ecce Homo, presentato a un’asta nella città di Madrid (aste Ansorena).
Il titolo corrisponde – come si legge nel testo – alla “postazione temporale e geografica” dell’esecuzione del dipinto, “incisa nel primo agosto 1605 a Roma”. Un tempo “tra i più turbolenti” della vita di Caravaggio, che il 25 di giugno ha promesso al committente Massimo Massimi di consegnare il quadro già pagato entro il primo di agosto. 
“In quei trentasei giorni accaddero molte cose, sono conosciuti e registrati due episodi che portarono il Merisi in carcere, ‘fermato’ oggi diremmo, per qualche giorno. Il 19 luglio viene imprigionato per aver deturpato la porta di due donne delle quali sappiamo anche il nome, Laura e Isabella, mentre il 29 luglio Michelangelo da Caravaggio compie un’aggressione ai danni di Mariano Pasqualone per questioni legate a una certa Lena. Se da una parte queste informazioni rendono ancora più difficile il rispetto nella consegna dell’opera promessa al Massimi, d’altro canto non lo possiamo escludere. Quando firma quella ricevuta o compie una deliberata bugia o è cosciente di portare a termine un tale dipinto in così pochi giorni”.
Pulini racconta una storia di tempi: il tempo forzato della scadenza del contratto si coniuga al tempo lungo e opaco della “scomparsa” del quadro, a quello fulminante della sua riemersione nella casa d’aste madrilena e, soprattutto, agli effetti che il dipinto avrà nella linea del tempo della storia dell’arte. 

Massimo Pulini, Roma, 1 agosto 1605, “Storia dell’arte” in tempo reale (17 aprile 2021)

(as)

Calendiario di Maria Teresa Carbone

“aperto dopo il sogno l’occhio
scorre in sovrimpressione
the end la coda della notte
dissolvenza
domani è un altro giorno
è oggi”

Sembra scritto apposta per diconodioggi questo attacco, che viene dal libro di Maria Teresa Carbone, Calendiario, uscito nell’autunno del 2020 per i tipi di Nino Aragno editore. Sembra scritto apposta per chi sente fisicamente e mentalmente il tempo, per chi – in mezzo a qualunque situazione, evento bello o brutto, stravolgimento o noia – non può fare a meno di notare in che punto del tempo si trova, percependo le variazioni minime delle sue porzioni. 
Nello scrivere il titolo, il correttore suggerisce calendario e bisogna inserire “a mano” la i, per mescolare quello che Szymborska descriveva come il perfetto e puntuale best-seller di ogni inizio d’anno con il diario, e ottenere così la parola voluta da Maria Teresa Carbone per il suo libro.
Giornalista (il manifesto, pagina99, alfabeta2), autrice (di recente 111 cani e le loro strane storie), traduttrice (di recente Nella casa dell’interprete, di Ngu˜gı˜ wa Thiong’o), attiva nel campo dell’educazione alla lettura (associazione Monteverdelegge, Forum del libro) e alla visione, Maria Teresa Carbone raccoglie nel suo Calendiario testi che vengono da una lunga stratificazione verticale (Calendiario 2004-2020) e dall’osservazione orizzontale della torta e del corpo del tempo (Cinque quarti. Esercizi di cosmogonia quotidiana). I versi riportati all’inizio provengono dal Terzo quarto: del tempo (p. 54 e ss.)
Chi conosce le fotografie che mtcarbone pubblica su Instagram (anche esse esercizi quotidiani) può percepire una matrice comune con le poesie: la scelta di alcuni soggetti, il concatenarsi di interni e di esterni, il sentirsi osservatrice che viene osservata (o che immagina di poterlo essere nello stesso istante). Se nelle poesie queste situazioni innescano una ricerca di parole selezionate e impreviste, nelle fotografie si dispiegano in layer appena sovrapposti, in riflessi che indicano presenze contemporanee o anacronismi, spesso in chiare visioni illuminate.
E per restare nel lessico del tempo,  il libro – che va davvero letto da chi è coinvolto nella cronomania – esce nella collana “i domani”. 

La collana è a cura di Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa e Laura Pugno (che in quarta di copertina incornicia con una sua lettura il Calendiario)
Qui il sito della casa editrice
La foto in apertura viene dall’account Instagram di @mtcarbone 

(as)

What Day is Today?

La perdita di orientamento nel tempo provocata dal lockdown avrà portato molti a pronunciare la frase “Che giorno è oggi?”.
Ora quella frase è diventata un libro che raccoglie le 49 cartoline inviate alla Fondazione VOLUME! da altrettanti artisti e artiste legate allo storico spazio di ricerca e sperimentazione situato a Roma, in via San Francesco di Sales.
“Tra marzo e maggio 2020, durante il lockdown, la cassetta della posta di VOLUME! si è riempita di cartoline da parte dei nostri artisti e amici. Provenienze diverse, orari diversi, giorni diversi. Ognuno racconta la sua quarantena”, si legge nell’incipit della pubblicazione. 
I giorni di marzo, aprile, maggio 2020 sono incastonati in queste immagini – cartoline: ognuna di esse, con la sua tecnica e la sua grafia, invita a fermarsi sulla pagina dove è riprodotta, a collegare ciò che si vede al luogo di partenza, alla data, talvolta anche all’ora (come fa il collettivo Polisonum, nella Registrazione muta da finestra, Roma, 20 marzo 2020, ore 00:43).
Ogni cartolina è uno specimen dell’artista che l’ha inviata (bello ritrovare stili, tecniche, invenzioni compositive) e insieme un affaccio sul tempo e ogni lettore può cercare e trovare affinità, risonanze, tracce, inquietudini, cronofilie e cronofobie.
Per diconodioggi, le attrazioni sono tante, dal termine TIME stampigliato nella cartolina di H. H. Lim, alla pagina dell’artista iraniana Avish Khebrehzadeh che ripete Che giorno è oggi in tante lingue e colori, a Reverie che squaderna la frase Il / virus / del / tempo  nella sua cartolina da Milano (Cambiando l’ordine dei fattori la malattia del mondo non cambia), al Journal d’exile di Monica Biancardi, al cruciverba di Mutsuo Hirano e via sfogliando.
Le cartoline sono state raccolte da Francesco e Daniela Nucci, Marianna De Vita, Antonella Liucci, Silvano Manganaro, Roberta Pucci.
Gli artisti e le artiste (e i collettivi) mittenti sono:
Mimmo Paladino, Stefano Cerio, Claudio Martinez, Sauro Radicchi, Avish Khebrehzadeh, Andrea Branzi, Myriam Laplante, Guido Gazzilli, Bruno Ceccobelli, Giuseppe Gallo, Bizhan Bassiri, Arcangelo, Giovanni Albanese, Valentina Palazzari, Maurizio Savini, Guido Laudani, Alessandro Bulgini, Polisonum, Francesco Viscuso, Thomas Lange, Reverie, Mutsuo Hirano, Sandro Mele, Alfredo Pirri, Flavio Favelli, Carlo De Meo, Nahum Tevet, Rui Chafes, Giulio Telarico, Sissi, Renzogallo, Federico Ridolfi, Daniele Villa Zorn, Dario D’Aronco, Monica Biancardi, H.H. Lim, Roberto Pietrosanti, Roberto Fellicò, Petr Davydtchenko, 2A+P/A, Katrina Haikala, Mariella Bettineschi, Gregorio Botta, Mario Rizzi, Vincenzo Marsiglia, Michele De Lucchi, Michele Welke, Federico Cavallini, Sofia Ricciardi

L’antologia è sfogliabile a questo link.

(as)

Time’s News n.51

“Time’s News”, la pubblicazione dell’International Society for the Study of Time (ISST) curato da Emily DiCarlo, è arrivato al suo 51° numero e – proprio alla fine del 2020 e come viatico per il 2021 – propone come tutti gli anni una selezione di ricerche in corso, di mostre e di opere che hanno affrontato il tema cruciale del tempo nel corso dei mesi precedenti.
Si inizia con l’immagine panoramica del Garden of Slow Time, uno spazio per la riflessione personale sul tempo, creato da Paul Harris per la Loyola Marymount University di Los Angeles. Proprio questa Università nel 2019 ha ospitato la 17° conferenza triennale dell’ISST, un simposio che raccoglie ricercatori indipendenti, accademici, artisti, scienziati di tutto il mondo. Il tema del 2019 era Time in Variance, affrontato da decine di interventi multidisciplinari.

Questo è accaduto prima della diffusione della pandemia. Lo spartiacque del virus ha indirizzato molte delle ricerche del 2020 sulla mutata percezione del tempo indotta dalla malattia e dai lockdown, e “Time’s News” riporta a questo proposito diversi titoli, fra cui K. Fujisawa, Time studies of the COVID-19 epidemie (Yamaguchi University). 
Un importante nucleo di ricerche registrate nel numero riguarda il tema della misurazione, dal simposio Sensing, Measuring and Feeling Times and Elements (Sozopol, Bulgaria 2020) alla mostra dello stessa curatrice Emily DiCarlo The Propagation of Uncertainty (The Art Museum,Toronto 2020), focalizzata sulla discordante simultaneità dell’ UTC (Coordinated Universal Time).


Diverse opere, illustrate nella sezione Visualizing Time (a cura di A. Sbrilli e L. Leuzzi) hanno a che fare con la misurazione:  


Metric Units for the Solar System dell’artista australiana Sara Morawetz, che indaga le scale di misurazione e la loro rilevanza nella percezione del posto dell’essere umano nell’universo

l’Histoire millimétré de l’Art di Aldo Spinelli, che rappresenta in millimetri quadrati i 1.000.056 anni dell’arte, suddividendoli nella riproduzione su carta millimetrata di alcuni capolavori della storia dell’arte dalla preistoria al presente

i Calendars di Letizia Cariello, che uniscono scrittura e cucito in una pratica meditativa sul tempo

il Climate Clock di Gan Golan e Andrew Boyd, ammonimento incessante sul tempo che manca al punto di irreversibilità del cambio climatico

la mostra 24/7 curata da Sarah Cook e ispirata all’omonimo libro di Jonathan Crary sulla mutazione dei ritmi quotidiani

A temporary Index, di Thomson & Craighead, riporta il tempo che manca prima che i siti in cui sono sepolte scorie nucleari tornino sicuri


Time out of Joint di Eva & Franco Mattes, una mostra on line su Darknet, una rete remota, alla periferia di Internet, dove il tempo di caricamento e scorrimento scorre in modo diverso.
Infine due opere che si inoltrano nelle trasformazioni profonde che il tempo produce nella natura e negli artefatti umani:

Brief History of Time del cinese Chen Qi, che visualizza le tracce lasciate dal tempo nei libri, unendo la tecnica incisoria con accurati studi di fisica

e Forcing the Landscape di Silvia Camporesi, che ha scelto nelle sue ultime serie di opere dei luoghi speciali, dove l’azione umana si confronta con i vincoli della natura e il passaggio del tempo che sommerge, restituisce, torna a sommergere gli artefatti antropici.

Tim Etchells TimE.

L’arrivo del 2021 è stato salutato a Roma da una notevole serie di interventi artistici in cui il tema del tempo emerge con forza. Fra le opere scelte (qui le informazioni), c’è quella visibile nell’immagine di apertura: l’installazione dell’artista britannico Tim Etchells. Una imponente scritta al neon – montata al Circo Massimo – dice “This precise moment in time as seen from the future”.
Un pensiero sul tempo, come molti che l’artista-performer-scrittore ha elaborato negli anni (e del resto se leggiamo di seguito il suo nome e l’iniziale del cognome, il tempo – TimE. – appare immediatamente).
Come riporta nel suo accuratissimo sito, le scritte sono una sorta di “open-ended thought-experiment”, un esperimento aperto, in cui chi legge è sollecitato a muoversi sottilmente nel tempo e nel linguaggio.
In particolare, “Questo preciso momento nel tempo, come se fosse visto dal futuro” viene da un’opera del 2016, As Seen, in cui si chiede a chi guarda “di considerare l’istante esatto, in cui vede l’opera, come se quell’istante fosse osservato da un momento successivo nel tempo”.

Nel loop che si crea in questa esperienza, lo spettatore è preso simultaneamente all’interno di due incontri,  “uno con l’opera in sé e l’altro con l’immaginazione del momento futuro in cui guarderà indietro a quell’incontro”.
Etchells invita così a un esercizio di ginnastica temporale, memore di Borges e dei tanti tesori concettuali accumulati nella psicologia e nella filosofia del linguaggio: fermarsi a guardare il presente come se quel presente fosse già nel futuro.
Una situazione aperta e incompletabile, un dispositivo per entrare in risonanza con minime frazioni di tempo, che ci sfuggono, ma di cui l’esca visiva creata dall’artista ci rende, per un preciso momento, consapevoli. 

Qui il sito dell’artista 
Qui l’intervista di Exibart a Francesca Macrì e Claudia Sorace, curatrici artistiche del progetto Oltre tutto del Comune di Roma per il Capodanno 2021
(as)

Carousel book per il 2020 che finisce (dal Musli di Torino)

Il 2020 termina con questo Carousel book, un libro a giostra le cui pagine – disposte a stella – recano i mesi dell’anno trascorso. E’ opera di Massimo Missiroli, pop-up designer che lo ha realizzato per il Musli (Museo della Scuola e del Libro per l’Infanzia) di Torino, in occasione di un convegno dedicato ai così detti movable books. I movable books sono  libri “animati”, arricchiti di elementi mobili (volvelle, linguette, lembi) che – nei secoli – hanno reso interattive le pagine di alcuni preziosi volumi di anatomia, astronomia, divinazione, mnemotecnica,  fino ad arrivare nei libri d’infanzia e nei moderni libri pop-up.


In realtà, purtroppo, il convegno – che si sarebbe dovuto tenere a febbraio 2020 – è stato rimandato a causa della pandemia.
L’incontro internazionale, dal titolo Pop-App. Description, conservation and use of movable books era la tappa successiva di due grandi mostre dedicate a questa tipologia affascinante di libri: due mostre gemelle, svoltesi una a Roma (Istituto centrale per la Grafica) e una a Torino (Musli, Fondazione Tancredi di Barolo), entrambe curate dagli specialisti Pompeo Vagliani e Gianfranco Crupi.
In attesa che il convegno si tenga nell’anno nuovo, chi fosse incuriosito dal tema trova informazioni, immagini e percorsi delle mostre a questi indirizzi:
Info sulla mostra nella sede del Musli di Torino, Palazzo Barolo;
info sulla mostra presso l’Istituto centrale per la grafica di Roma, via della Stamperia 7.

 

Il primo giorno | Day one

“Actually, I was born on the thirtieth of November very close to midnight, and my parents pushed the date so I could start off on a day one”.
Non era raro, ancora un po’ di tempo fa (quando i bambini nascevano spesso a casa o le procedure di registrazione erano meno rigide) venire a sapere che qualcuno avesse due date di nascita: quella effettiva e quella comunicata all’anagrafe.
Qui su diconodioggi Roberta Aureli ha raccontato il caso di Marina Abramović, il cui compleanno venne anticipato dai genitori per motivi politico-patriottici.
In una prospettiva meno eroica, Woody Allen – nella sua recente autobiografia Apropos of nothing, da cui è tratta la citazione in apertura – riporta le vicissitudini della sua data di nascita, spostata dai genitori dal 30 novembre al primo dicembre 1935, per l’attrazione potente esercitata dal primo giorno del mese, promessa di inizio e di sincronia. Ecco il brano, tradotto in italiano da Alberto Pezzotta: 
“Ma adesso sono pronto per nascere. Finalmente faccio il mio ingresso nel mondo. Un mondo in cui non mi sarei mai sentito a mio agio, che non avrei mai capito, che non avrei mai accettato o perdonato. Allan Stewart Konigsberg, nato il1° dicembre 1935. A dire il vero nacqui il 30 novembre, quando era quasi mezzanotte, e i miei genitori spostarono la data, in modo che potessi cominciare dal primo giorno del mese. Non ne ho ricavato alcun vantaggio, e avrei preferito che mi avessero lasciato di che vivere di rendita. Se ne parlo è solo perché, per una di quelle ironie della sorte prive di qualunque significato, otto anni dopo mia sorella nacque nello stesso giorno”.

Woody Allen, A proposito di niente. Autobiografia, trad. it. Alberto Pezzotta, La nave di Teseo 2020, p. 19

La coerenza del tempo: Letizia Cariello

Nella sua pagina Instagram, l’artista Letizia Cariello accoglie con una scelta di immagini legate alla sua ricerca sul tempo: dettagli delle sue opere – fra cui spicca la serie dedicata ai calendari -, scorci di natura, incontri, letture significative. Gli hashtag che accompagnano le immagini sono selezionati con cura:  #dayafterday, #nulladiesinelinea,#listentotime e molti altri che raccontano nella forma della scrittura breve quello che le opere fanno con le loro materie e le loro forme.
Laureata in Storia dell’arte all’Università di Milano e in Pittura all’Accademia di Brera, docente di Disegno anatomico nella stessa Accademia, Letizia Cariello – come si legge nel suo sito – “intende intercettare la coerenza del tempo”, cercando di renderne percettibili le tracce. Il filo rosso, con cui lega oggetti quotidiani e trapunta fotografie è una delle espressioni di questo intento.

Così come la scrittura dei calendari, forme circolari riempite fittamente e ritmicamente di lettere e numeri, date sintetizzate in un codice alfanumerico personale che attira chi guarda nel cerchio ottico di una lingua da decifrare.
Artista dalle letture raffinate e multidisciplinari, votata alla riflessione, Letizia Cariello spiega con grande efficacia l’impulso alla creazione dei suoi calendari con un esempio: quando viene nominato un giorno nel futuro, lei inizia a cercarlo perché quel giorno non c’è ancora; entità inafferrabile e ansiogena, la porzione di futuro diventa addomesticabile nel momento in cui l’artista costruisce con le date un ponte nel tempo.
Ecco qui la sua spiegazione in un video dal titolo I calendari compulsivi.

A questo indirizzo il sito dell’artista e la sua  pagina Instagram

(as)

Il tempo versatile di Mika Vainio

Tre orologi su un muro bianco segnano la stessa ora, ma ogni lancetta dei minuti scorre con la propria cadenza. Dei microfoni collegati agli orologi ne amplificano il battito, restituendo nella sala un ritmo irregolare. Si tratta dell’installazione 3 x Wall Clocks dell’artista finlandese Mika Vainio, risalente al 2001: un’opera – con le parole del suo autore – che “si basa su un’idea molto versatile del tempo”, un’opera che  riflette sul concetto di sincronicità e misurazione.
3 x Wall Clokcs è esposta – insieme ad altre sound installation e alla sua musica –  in una grande retrospettiva (dal titolo 50 Hz), aperta al museo Kiasma di Helsinki fino al gennaio 2021, dedicata a Mika Vainio, scomparso nel 2017. Un artista il cui impatto sulla musica elettronica, come scrive il Kiasma, è indisputabile e che è stato anche il creatore di installazioni sonore rimarchevoli per fisicità e “calore analogico”. 

Qui un video su youtube

https://www.youtube.com/watch?v=VOpO0EMiUZ4

Un puntuale articolo su Mika Vainio, scritto in occasione della sua scomparsa, si può leggere qui

E questo è il sito della mostra Mika Vainio: 50 Hz al Museum of Contemporary Art Kiasma  di Helsinki (20 agosto 2020–10 gennaio 2021)

https://kiasma.fi/en/exhibitions/mika-vainio/

 

“2 agosto. Bologna. […] Io sopravvivo”

Il titolo di questo post riporta l’inizio e la fine di una delle 366 voci di un’opera in forma di diario, in cui l’intero Novecento è condensato in un anno di eventi: la sequenza delle date non segue l’ordine cronologico degli avvenimenti, ma si dipana su un calendario annuale, un giorno dopo l’altro.
Alla data del 2 agosto troviamo scritto: 

“2 agosto. Bologna. Attentato alla stazione ferroviaria centrale. Alle dieci e trentacinque esplode una bomba nascosta dentro una valigia nella sala d’aspetto di seconda classe. La miscela di tritolo e T4 distrugge parte dell’edificio e uccide ottantacinque persone, mentre più di duecento vengono ferite. Io sopravvivo”.
L’opera, monumentale e al tempo stesso impalpabile, da cui la frase è tratta,  si intitola Ich war’s. Tagebuch 1900-1999 (Sono stata io. Diario 1900-1999) ed è dell’artista Daniela Comani,
Nata a Bologna nel 1965 e diplomata presso l’Accademia di Belle Arti della sua città, Daniela Comani si è trasferita a Berlino nel 1989, l’anno della caduta del Muro. Nella Berlino degli anni Novanta, fra riunificazione e ricostruzione, smottamenti politici ed esperimenti sociali, ha proseguito la sua formazione, dando inizio a un’attività artistica orientata verso i temi degli stereotipi di genere, delle abitudini culturali, della memoria, ed espressa attraverso fotografie, disegni, video, performance, installazioni, assemblage, produzioni editoriali.
Ich war’s. Tagebuch 1900-1999 (Sono stata io. Diario 1900-1999) racconta – come detto sopra – l’intero secolo XX concentrando una selezione di fatti epocali in un anno virtuale di 366 giorni. L’opera ha tre versioni: si può ascoltare come una radiocronaca, in diverse lingue europee, fra cui il tedesco, lingua in cui l’opera è stata in origine concepita; si può leggere sfogliando un libro, diverso per impaginazione da lingua a lingua; si può guardare, stampata su tela e montata su un grande pannello, come un muro di date e parole, di dimensioni variabili a seconda della collocazione. Poiché le date riportano solo il giorno e il mese, l’opera è accompagnata da una cronologia che consente di ricostruire l’anno in cui ciascun evento è accaduto.


Realizzata dunque in diversi formati e lingue a partire dal 2002, presentata nel 2011 alla LIV Biennale di Venezia per il Padiglione di San Marino, esposta nel 2016 alla mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea (Macro, Roma), è conservata in una versione di 3 metri x 6 nelle collezioni del Mambo di Bologna.
L’immagine che apre questo post è un dettaglio del manifesto scelto nel 2012 per l’anniversario della strage impunita. 
Come Daniela Comani ha raccontato, è nel gennaio del 1999 che il progetto di Ich war’s comincia a prendere concretamente forma.
Negli anni precedenti, l’artista ha lavorato alla raccolta di ritagli di giornale, foto, appunti e testi, che le sono servite per diversi progetti, legati al tema del singolo individuo di fronte alla storia. Nel 1999, mentre anche il millennio – nella convenzione occidentale – si avvia alla conclusione, il progetto si incanala nella direzione di raccontare il ‘900 dalla parte di un soggetto immaginario, vittima, responsabile, correo, testimone di tutto quello che il secolo ha prodotto. 
Come struttura d’appoggio di questo progetto vertiginoso, l’artista individua il sistema di partizione del tempo basato sulle date (dal latino datum: dato, redatto il): il calendario, un sistema in grado di offrire una griglia alla dispersività e alla compresenza dei fatti accaduti, dotato di una natura insieme pubblica e privata, amministrativa e identitaria. Nominando il calendario,  il pensiero corre all’artista tedesca Hanne Darboven, che fin dagli anni Sessanta aveva lavorato sulle strutture del tempo in opere calendariali  e, più avanti, aveva stilato elenchi di avvenimenti, allestendo opere al tempo stesso concettuali e dal forte impatto visivo. E in relazione alle date, un richiamo va fatto al giapponese On Kawara con la sua Today series (con On Kawara, nel 1996, Comani ha partecipato alla collettiva Lesen, presso la Kunsthalle di Sankt Gallen in Svizzera); o ancora Roman Opalka, l’artista polacco che ha contato il passare del tempo (una mostra del 2013 a Milano, Accoppiamenti giudiziosi, ha visto dialogare le immagini di Daniela Comani e le opere dell’artista polacco). 
Scelta l’ossatura, in questo caso una griglia di 366 caselle, bisognava riempirla tutta, selezionando un fatto ogni giorno, per un totale di 366 accadimenti che rappresentassero, in modo significativo, tutti gli anni del secolo. Il racconto dei fatti non avrebbe però seguito la successione degli anni, ma si sarebbe svolto giorno dopo giorno in un unico anno solare, da gennaio a dicembre. Inoltre, poiché la prima versione dell’opera era pensata per un’installazione audio, una sorta di radiocronaca del XX secolo, letta da uno speaker senza interruzioni, il secolo sarebbe risultato condensato in un’ora di ascolto.
Il grande archivio personale raccolto negli anni da Daniela Comani viene sistematizzato, in modo che nessuna data resti vuota e nessun anno scoperto. Fanno la loro comparsa i classificatori, i pratici Ordner dalla copertina nera, e vengono stilate tabelle di corrispondenze fra date e avvenimenti. Comincia una metodica frequentazione delle biblioteche di Berlino (la Nazionale, l’Amerika-Gedenk-Bibliothek), con consultazione di banche dati, visione di microfilm con annate di giornali e riviste d’epoca. Per tutto il 1999, Daniela Comani attende al suo lavoro quotidiano di ricerca e classificazione di quei fatti che hanno portato all’Olocausto, ai conflitti balcanici, all’unità europea, alla globalizzazione tecnologica. Prende dagli archivi le notizie, che deposita nel suo schedario personale e poi riversa nell’ordine del calendario. In questo passaggio, però, quelle notizie subiscono un cambiamento inusitato. Di qualunque cosa si parli: la proclamazione del fascismo, il primo volo nello spazio, l’attentato alla stazione di Bologna, la notizia, con linguaggio asciutto, sintetico, quasi protocollare, è sempre data in prima persona (nella versione italiana, Sono stata io, il soggetto si rivela femminile, collegandosi ad altri progetti dell’artista, in cui i titoli dei capolavori della letteratura o del cinema cambiano genere).
Nei mesi di lavoro, il libro che l’artista aveva sul tavolo era Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, la scrittrice di Archivi del Nord, capace di trasformare le tracce delle memorie private, familiari e storiche in sottile e potente materia narrativa. E nume tutelare, sempre presente dietro le spalle, era Borges, con i suoi magistrali passaggi dal reale all’immaginario. In quello stesso anno 1999, usciva poi la ricerca di Aleida Assmann sulla memoria culturale, Erinnerungensräume, Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses, che rimetteva in gioco i temi della responsabilità e della memoria collettiva.
Scorrendo ancora una volta il calendario di Ich war’s, l’irriverenza nei confronti della cronologia sconcerta e attrae, costringe a un andirivieni nella storia, a uno sforzo di identificazione, a una proficua attività del pensiero. Si cerca di ricordare, senza andare a controllare subito nella cronologia, in che anno, il 10 ottobre, “io”  occupo la segreteria dell’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf; e chi sono “io” (nella fattispecie sono Joseph Beuys e l’anno è il 1972). In questa anamnesi, si sovrappongono memorie personali, ci si ricorda dove veramente si era in alcune date cruciali della storia collettiva, il cui impatto ha fissato la nostra posizione nel tempo. Sono stata io, dice Daniela Comani. C’è sempre io, che compie nefandezze, o prende decisioni umanitarie, o soccombe alle avversità della natura, o sopravvive, come in questo passo del 2 agosto. 

Il sito dell’artista: danielacomani.net 
Ringrazio Daniela Comani per la lunga e generosa collaborazione con diconodioggi
as (@asbrilli)

About Time: una mostra raccontata da Elena Lago

Lockdown: una parola che ormai è entrata a far parte del nostro vocabolario quotidiano. L’isolamento, la chiusura, la distanza hanno dilatato il tempo trascorso nelle nostre case e forse lo hanno reso più penetrabile. La White Cube Gallery di Londra ha organizzato una mostra on line negli spazi del suo sito web, per raggruppare una serie di artisti che hanno da sempre lavorato sul concetto di tempo.
About time è un incantevole percorso virtuale curato da Susan May, Global Artistic Director della White Cube. A cominciare dalla grafica del titolo, in cui le lettere di ABOUT TIME sono disposte a cerchio, la mostra offre subito una visione fluida e circolare del tempo, le cui molteplici sfaccettature ci vengono narrate da tredici artisti: Darren Almond, Olafur Eliasson, Hanne Darboven, Cerith Wyn Evans, On Kawara, Mona Hatoum, Agnes Martin, Christian Marclay, Josiah McElheny, Roman Opalka, Tatsuo Miyajima, Park Seo-Bo, Haim Steinbach.
 Come frase introduttiva alla mostra, la curatrice ha scelto le parole di George Kubler (1912-1996), autore, nel 1962, del libro La forma del tempo:
 «Le forme del tempo sono la preda che vogliamo catturare. Il tempo della storia è troppo grezzo e breve per costituire una lunghezza uniformemente granulare quale i fisici immaginano per il tempo della natura: esso è piuttosto come un mare pieno di innumerevoli forme di tipi numericamente limitati».
 
Lo spazio virtuale della White Cube ci fa leggere il tempo nella sua forma più liquida e mutevole, senza confini, attingendo dagli artisti che hanno raccontato il tempo dei numeri, delle stagioni, della ciclicità, dell’infinito ripetersi di immagini, il tempo visto come susseguirsi di momenti esatti all’interno di una griglia perfetta o come caos primordiale (e qui la memoria torna alla mostra Dall’oggi al domani. 24 ore nell’arte contemporanea, tenutasi al Macro di Roma nel 2016, a cura di Antonella Sbrilli e Maria Grazia Tolomeo).
Immersi nella nostra tranquillità dello spazio-tempo domestico, scrollando la pagina della White Cube dedicata ad About Time, tra una presentazione e l’altra delle opere si dipana un universo simulato ed interstiziale, una galassia stellata che ci proietta in un tempo assoluto, silenzioso, dilatato. La mostra è divisa in due sezioni, ognuna dedicata alle due principali maniere di vedere il tempo, attraverso la precisa e calibrata scansione metrica e numerica, o mediante l’esperienza, il flusso e la percezione emozionante e riflessiva o istintiva della durata.
Parole e numeri: iIl primo artista che incontriamo è Darren Almond (1971), che nella mostra del Macro era presente con Tuesday (1440 minutes), del 1996 e su cui –  in diconodioggi – si può leggere questo testo.

Qui, invece, lo ritroviamo con una delle sue tipiche targhe in bronzo su cui è apposta la frase latina Noli Timere, che oggi ci suona più come un consiglio dettato dai tempi che corrono: “Non avere paura”, una versione più ispirata del mantra ripetuto in questi mesi “andrà tutto bene”. Ma l’ambiguità del messaggio sta nel gioco di parole che Almond ha costruito, operando l’obliterazione di alcune lettere per creare il suggestivo e laconico verso No Time: uno spazio della mente in cui il tempo non esiste, non ci trascina nella sua ineluttabilità e di conseguenza non ci fa temere.
Più avanti, Almond ritorna con un’opera veramente iconica della sua produzione, Perfect Time, del 2018. Composta da sei “flip clocks” le cui palette non seguono un andamento coerente tra le due metà, l’installazione non compone orari precisi, ma alfabeti sincopati e sconnessi, piccoli trattini bianchi su sfondo nero. Attraverso questo orologio paradossale, non possiamo controllare il tempo che passa, ma solo cogliere le sue infinite variabili che spesso risultano sfuggenti e impenetrabili, a tratti “interrotte”. Ma è questo il Tempo perfetto secondo l’artista, perché costruito da attimi e flussi che si incrociano, da costanti e variabili, da punti fermi e confini labili.
Roman Opalka (1931-2011), con la sua imperturbabile e costante precisione maniacale, compare poco dopo, lasciandoci, invece, un’idea di tempo che scorre e che ci appare come una progressione continua di numeri scritti a mano a partire dal 1965 fino al momento della sua morte. Ogni piccola tela di questo intero sistema numerico prende il nome di Détail e nella mostra virtuale della White Cube è stato esposto il DÉTAIL 2345774 – 2347926, del primo anno, il 1965. È un inchiostro su carta, non acrilico su tela: questo ci suggerisce che Opalka ha composto questo frammento durante un viaggio, quando ha la consuetudine di continuare il suo ossessivo lavoro non sulle tele, ma sulle più pratiche e maneggevoli Cartes de voyages. Quella di Roman Opalka è una narrazione lineare del tempo, che corrisponde a quell’idea di ripetizione e di riproposizione che contraddistingue anche il messaggio artistico di On Kawara (1933-2014), che incontriamo poco dopo e di cui viene presentata una tela dalle Today Series con la data MAY 26, 1994. Questo progetto quotidiano inizia nel 1966 e si interrompe solo con la morte dell’artista: quello contenuto nella serie dei giorni è un tempo personale e quotidiano, lento nella realizzazione di ogni singola tela, ma anche stringato e ripetitivo proprio per il carattere stesso del progetto: una testimonianza evidente, rigorosa e schematica del tempo che passa. Spesso l’artista ha l’abitudine di aggiungere una scatola con alcuni oggetti legati a quella specifica data scritta sulla tela nera. In questo caso, compare il titolo del “New York Times” che recita «Space Telescope Confirms Theory of Black Holes».
Luci e numeri, display di orologi digitali e piccoli codici fanno parte della poetica dell’artista giapponese Tatsuo Miyajima (1957) che, attraverso i suoi led che variano in continuazione le loro cifre dall’uno al nove, esprime il carattere circolare e fluido del tempo, che sempre cambia. Ciò
stabilisce una costante connessione, derivata dalla sua fede buddhista, tra la nascita, la vita e la rinascita, mentre lo zero, che rappresenta la fine e la morte, non compare mai tra i suoi numeri. Chiudono la serie dedicata alla misurazione e ai numeri Hanne Darboven (1941-2009), con una delle sue griglie di date, calcoli e poetici segni personali, la Dostojewki, Monat, Januar 1990 e Agnes Martin (1912-2004). Dell’artista canadese, la White Cube ci propone tre opere minimaliste, tra cui un Untitled del 1959, in cui ogni elemento viene portato ai minimi termini: un cerchio nero su sfondo bianco di lino, diviso in piccoli spicchi imprecisi, ricorda semplicemente la forma e l’aspetto di un orologio; un modo per appresentare «non ciò che si vede, ma ciò che si conosce per sempre nella mente».
Esperienza, flusso e durata: la seconda sezione della mostra si concentra sugli aspetti più fluidi ed esperienziali del tempo. La sua contingenza, il vissuto quotidiano, il concetto di durata e di flusso che sono stati decodificati dalla filosofia bergsoniana della durée. Il tempo soggettivo dell’esperienza procede come un getto ininterrotto ed indivisibile, intuibile attraverso la coscienza, capace, in questo modo, di ricongiungersi alla sua unità interna.
Christian Marclay (1955), autore del capolavoro The Clock, del 2010, è il primo artista che incontriamo. Con una serie di tre video ci trasmette la sua idea di durata: Look, Cotton buds e Lids and Straws (One minute), tutti realizzati tra il 2016 e il 2019, inquadrano minuscole porzioni delle strade londinesi, fotografate in diversi momenti della giornata e montate per creare un video loop, hanno la stessa funzione della serie delle Cattedrali di Monet. Le piccole variazioni di luce e di atmosfera prodotte sulla strada, così come i minimi dettagli della pavimentazione, forniscono un pattern irregolare e casuale al passare del tempo.
Questa incessante atmosfera di divenire e di cambiamento che viene fornita dal video in loop si riscontra ancora nel lavoro fotografico di Olafur Eliasson (1967) del 2006, The morning small cloud.

Attraverso una sequenza di nove fotografie, prese da una serie più ampia, ci mostra il passare del tempo attraverso l’apparizione mattutina di una piccola nuvola attorno ad una altura dell’Islanda. Ancora una volta, l’artista è capace di consegnarci una specifica idea di tempo atmosferico attraverso un legame indissolubile con il discorso cronologico, che si nota dalla lenta trasformazione ambientale delle foto.

Di questa seconda sezione colpiscono in particolare le opere dell’artista di Boston Josiah McElheny (1966). Le sue installazioni sono quasi sempre incentrate sulla lavorazione del vetro attraverso cui costruisce porzioni fragilissime di piccoli universi. Nel 2005, in collaborazione con il cosmologo David Weinberg, ha ideato il film Island Universe in cui inserisce l’idea dell’eterna inflazione dell’Universo. Questa costruzione fluida, frattale ed in continuo divenire del cosmo, data dalla creazione perpetua di nuova materia, ha portato al concetto di “multiverso”.

 

McElheny, da questo modello, ha tratto alcune sculture in alluminio, vetro e luce elettrica che, oltre ad essere meravigliosi oggetti di design, suggeriscono l’idea di un’energia temporale che si irradia mutevolmente. Frozen Structure, il pezzo di universo inserito nel percorso virtuale, incarna un mondo che ha avuto inizio con un’energia oscura che ha congelato la crescita e il raggruppamento delle galassie in strutture ghiacciate e cristallizzate in una sospensione atemporale.
Verso la fine del percorso espositivo della pagina della White Cube, compaiono le opere al neon dell’artista gallese Cerith Wyn Evans (1958). Prima il neon drawing ispirato al simbolo dell’infinito che si dipana nello spazio attraverso il semplice e lineare disegno del neon appeso al soffitto, poi il testo specchiato dell’installazione del Leadenhall Market di Londra: “Time here becomes space/Space here becomes time” un gioco semantico e visivo: il testo specchiato, costruito con il neon, delimita uno spazio sospeso e incantato del mercato londinese, creando una sorta di doppia entrata in cui, attraverso questa sorta di formula magica, da una parte il tempo si trasforma in spazio e dall’altra lo spazio diventa tempo.
Chiudono poeticamente la mostra virtuale le parole Going going gone formulate da Haim Steinbach (1944), in un’installazione del 1999. Lo stesso verbo coniugato in due tempi diversi, trasferiti sul muro nero su bianco, in verticale, quasi a testimoniare la fuggevolezza del tempo e l’assurda vanitas del presente: un attimo prima siamo immersi nella temporalità vibrante e attiva del gerundio, nel pieno dell’andare, e un attimo dopo ci ritroviamo nella dimensione chiusa e passata del participio, dell’andato. In altre parole, un moderno memento mori, che vede al posto del teschio e della clessidra un semplice e conciso sciorinamento di tre tempi verbali.
Elena Lago, giugno 2020

About Time, fino al 16 luglio 2020 > qui un video tour della mostra